2024-12-24
The Donald vuole Groenlandia e Panama: «Mi prendo il Canale»
Una nave attraversa le chiuse di Miraflores del Canale di Panama (Ansa)
Con la scusa delle tariffe di navigazione il prossimo leader Usa avverte Russia e Cina: cambia tutto, possibile l’uso della forza.Sarà Tilman Fertitta il nuovo ambasciatore statunitense in Italia. Washington si prepara al nuovo corso che predilige gli uomini di fiducia ai diplomatici.Lo speciale contiene due articoli.Gli Stati Uniti potrebbero cercare di ottenere il controllo del Canale di Panama e della Groenlandia. È questo quanto affermato da Donald Trump nel corso del fine settimana. Semplici provocazioni? Forse no. Dietro le sue dichiarazioni potrebbero celarsi degli obiettivi strategici, volti a ripristinare la deterrenza nei confronti di Pechino e di Mosca. Ma andiamo con ordine. Sabato, con una serie di post su Truth, il presidente americano in pectore si è lamentato delle tariffe troppo alte che il Canale di Panama impone alle navi statunitensi. Ha quindi affermato che, se la situazione non dovesse cambiare, Washington potrebbe riprendere il controllo della struttura. Parole che hanno provocato la reazione stizzita del presidente panamense, Jose Raul Mulino. «Ogni metro quadrato del Canale e della sua area adiacente appartiene a Panama e continuerà a esserlo», ha tuonato. «Questo lo vedremo», ha controreplicato Trump, il quale ha anche postato su Instagram la foto di una bandiera statunitense che campeggia sul Canale con scritto: «Benvenuti nel Canale degli Usa». Gli Stati Uniti ottennero il controllo della Zona del Canale nel 1903 e ne completarono la realizzazione undici anni dopo. Nel 1977, l’allora presidente americano, Jimmy Carter, firmò due trattati con il leader panamense dell’epoca, il generale Omar Torrijos. Sulla base di quegli accordi Washington si impegnava a cedere a Panama il controllo del Canale entro il 1999 mentre dall’altra parte si garantiva che il Canale stesso fosse soggetto a neutralità permanente: una neutralità che gli Usa si sono riservati il diritto di preservare, anche militarmente. Guarda caso, nei post di sabato, Trump ha criticato Carter per aver ceduto il controllo del Canale, che è attualmente gestito dalla Panama canal authority.A questo punto, le domande sono principalmente due. Come potrebbe Trump recuperare il controllo del Canale? E soprattutto: qual è la vera ragione per cui vuole farlo? Per quanto riguarda il «come» non è al momento chiaro in che modo possa muoversi dal punto di vista tecnico-legale. Ricordiamo comunque che, quando gli Stati Uniti invasero Panama nel 1989 per deporne il leader di allora Manuel Noriega, George H. W. Bush citò, tra le giustificazioni dell’intervento militare, la necessità di salvaguardare la neutralità del Canale. Nonostante questo precedente storico non si attagli completamente alla situazione presente, non è del tutto escludibile che Trump possa minacciare esplicitamente un atto di forza. Non è detto che poi lo traduca necessariamente in concreto, ma potrebbe usarlo come forma di pressione negoziale per spuntare un accordo vantaggioso con le autorità panamensi. Venendo invece alla motivazione del suo interesse per Panama, il tycoon ha citato sì la questione delle tariffe per le navi statunitensi. Tuttavia sembra proprio che l’obiettivo reale sia quello di ridurre la crescente influenza cinese sul Canale. «Era solo Panama a dover gestire il Canale, non la Cina», ha scritto Trump sabato. Pechino è d’altronde diventato il secondo principale cliente del Canale dopo gli Usa e, secondo il Guardian, controlla due dei cinque porti a esso adiacenti. Il tycoon vuole quindi contrastare l’influenza politico-commerciale del Dragone in America Latina: un’influenza che, nei quattro anni dell’amministrazione Biden, è notevolmente aumentata. Senza trascurare che nel 2022 la Russia aveva schierato propri soldati in Nicaragua. Sembrerebbe quindi che Trump sia intenzionato a proporre una riedizione aggiornata della Dottrina Monroe: l’obiettivo sarebbe, in altre parole, quello di espellere o comunque ridurre l’influenza di potenze straniere nelle Americhe. Del resto, anche sulla questione della Groenlandia Trump si sta muovendo in base a considerazioni strategiche. «Ai fini della sicurezza nazionale e della libertà in tutto il mondo, gli Usa ritengono che la proprietà e il controllo della Groenlandia siano una necessità assoluta», ha dichiarato Trump domenica, irritando il primo ministro della Groenlandia, Múte Egede, che ha replicato: «Non siamo in vendita». Già nel 2019 il Wall Street Journal aveva riportato che il tycoon fosse interessato ad acquistare quest’isola. E adesso è tornato alla carica. Dipendente dalla Danimarca, la Groenlandia non è solo ricca di oro, uranio e terre rare. Dal 1943 ospita una base Usa e rappresenta soprattutto un punto d’accesso privilegiato all’Artico: regione strategica, storicamente attenzionata da Russia e Cina. Guarda caso, a inizio dicembre, il Pentagono aveva lanciato l’allarme sul rafforzamento della cooperazione militare tra Mosca e Pechino in quest’area. Le parole di Trump sulla Groenlandia vanno quindi lette come un messaggio a russi e cinesi per far capire che, con la sua amministrazione, gli Usa potrebbero avere intenzione di diventare protagonisti nell’Artico. Insomma, il tycoon punta a mettere sotto pressione sia Pechino che Mosca. E, in quest’ultimo caso, la questione potrebbe intersecarsi con il processo diplomatico ucraino. Domenica Trump ha detto che Vladimir Putin vorrebbe incontrarlo «il prima possibile». Tutto questo mentre il prossimo inviato speciale per l’Ucraina, Keith Kellogg, ha criticato la recente uccisione del generale russo Igor Kirillov a Mosca da parte dei servizi ucraini. «Non penso che sia una cosa intelligente da fare», ha detto, paventando l’aumento di tensioni. Dall’altra parte, secondo il Financial Times, Trump avrebbe intenzione di chiedere ai membri della Nato un contributo economico del 5% del loro Pil. È dunque chiaro come, nel suo rapporto con Mosca sul dossier ucraino, il tycoon stia alternando il bastone alla carota. Ed è altrettanto chiaro come, con le sue dichiarazioni su Groenlandia e Panama, Trump stia lanciando un messaggio preciso sia ai russi che ai cinesi: rispetto a Joe Biden, la musica sta per cambiare. Decisamente.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/trump-vuole-groenlandia-panama-2670668583.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="missione-roma-per-il-texano-fertitta-il-primo-ambasciatore-imprenditore" data-post-id="2670668583" data-published-at="1735028216" data-use-pagination="False"> Missione Roma per il texano Fertitta. Il primo ambasciatore-imprenditore Donald Trump ha ufficializzato la nomina. Sarà Tilman Fertitta il nuovo ambasciatore statunitense in Italia. «Tilman è un affermato imprenditore che ha fondato e costruito una delle principali società di intrattenimento e immobiliari del nostro Paese, che dà lavoro a circa 50.000 americani», ha affermato il presidente americano in pectore. «Tilman ha una lunga storia di impegno verso la comunità attraverso numerose iniziative filantropiche, che includono enti di beneficenza per l’infanzia, forze dell’ordine e la comunità medica», ha proseguito. Fertitta è un miliardario texano di origini siciliane. Oltre a essere proprietario degli Houston Rockets, squadra di basket che compete nella Nba, è presidente e Ceo di Landry: importante società nel settore alberghiero e dei casinò, che vanta un fatturato di circa 3 miliardi di dollari. Amico di Trump e storico finanziatore del Partito repubblicano, Fertitta è considerato piuttosto vicino al governatore del Texas, Greg Abbott: quest’ultimo, nel 2020, lo inserì in una commissione incaricata di supervisionare la riapertura delle attività economiche dello Stato a seguito della pandemia. Non gli mancano comunque, da buon imprenditore, anche legami con il Partito democratico americano. Secondo Forbes, quattro anni fa effettuò una contenuta donazione elettorale a favore di Joe Biden. È inoltre molto amico del senatore dem dell’Arizona Mark Kelly. Una circostanza, questa, che potrebbe tornargli utile, quando la sua nomina ad ambasciatore dovrà essere ratificata dal Senato. Per qualcuno la scelta di Fertitta, che non è un diplomatico né un politico, evidenzierebbe che a Trump l’Italia interessa poco. In realtà le cose non stanno così. Il tycoon ha per esempio nominato come ambasciatore nel Regno Unito Warren Stephens: uomo d’affari e finanziatore repubblicano. È evidente che Trump non si stia affidando granché ai diplomatici di professione, soprattutto dopo i problemi che, durante il primo mandato, aveva avuto con alcuni di essi. Non solo. A chi oggi dice che il presidente americano in pectore si interesserebbe poco dell’Italia andrebbe ricordato che l’attuale ambasciatore americano a Roma, Jack Markell, fu nominato da Joe Biden soltanto a maggio 2023: oltre due anni dopo cioè il suo insediamento alla Casa Bianca. Tutto questo, senza trascurare le parole di stima pronunciate da Trump verso Giorgia Meloni né il solido legame tra quest’ultima ed Elon Musk. Per quanto riguarda i dossier di cui Fertitta dovrà occuparsi spiccano soprattutto la Cina e il Mediterraneo. L’attuale governo italiano ha già raffreddato i rapporti con Pechino, non rinnovando il memorandum sulla Nuova via della seta. E probabilmente continuerà ad andare in questa direzione, rafforzando la sponda con la seconda amministrazione Trump. Dall’altra parte Fertitta potrebbe svolgere un ruolo importante nel far sì che la nuova Casa Bianca si attivi per rilanciare il fianco meridionale della Nato: un elemento, questo, più volte auspicato dalla Meloni.
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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