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2018-08-11
Trump stronca la Turchia e fa crollare la lira. La botta arriva pure da noi
Ansa
Da due anni l'economia turca corre molto velocemente. Troppo, perché il Paese guidato dal sultano e dittatore Recepp Erdogan ha le gambe sottili. Credito a imprese e famiglie è stato pompato e l'inflazione è arrivata al 16%. A giugno ci sono state le elezioni. Il capo dello Stato ha promesso investimenti mirabolanti in mega opere infrastrutturali. Nonostante il rapporto tra debito pubblico e Pil sia bassissimo (circa 28%), ad Ankara c'è un forte deficit commerciale (6%) delle partite correnti, senza dimenticare che le imprese locali chiedono prestiti all'estero per poter essere considerate affidabili. La mossa ha portato così il debito privato a valere più del 50% del Pil, e a mettere in difficoltà la valuta. Ai primi di luglio, la maggior parte degli investitori esteri si aspettava un deciso rialzo dei tassi d'interesse. Che non è arrivato, perché Erdogan, che dallo scorso anno nomina direttamente il governatore della Banca centrale, ha messo il veto: nessun rialzo per evitare impatti sui consumi interni e sui mutui.
L'effetto è stato invece negativo. L'inflazione è salita comunque, e gli investitori si sono spaventati. Ieri sono poi entrate in vigore le sanzioni volute da Donald Trump e allo stesso momento sono scattate le contromisure di Ankara. La Casa Bianca, per via delle tensioni politiche, ha voluto prendere le distanze da Erdogan e lui quattro giorni fa ha alzato i toni minacciando di congelare i beni americani sul territorio turco. Una mossa non troppo intelligente. Ieri si sono visti i frutti. Sprofonda a nuovi minimi storici la lira turca, che è arrivata a cedere oltre il 14% sul dollaro, innescando un generale panico sui mercati emergenti ed europei.
Il sell off di massa ha inasprito i timori del mercato per l'esposizione delle banche occidentali nei confronti della Turchia. Bbva, Bnp Paribas e Unicredit sono i tre istituti percepiti più a rischio. La banca italiana ieri ha perso il 4,73% in Borsa anche se il suo ad, Jean Pierre Mustier, ha più volte messo le mani avanti, anticipando l'intenzione di alleggerire il peso degli asset turchi.
La banca a fine giugno aveva finanziamenti verso investitori istituzionali nazionali pari a 165,18 milioni di euro. Si tratta, è bene ricordarlo, dello 0,14% dei 120,7 miliardi complessivi di esposizione sovrana di Unicredit. Già in occasione della presentazione dei conti del primo semestre, i vertici dell'istituto italiano avevano spiegato che una svalutazione del 10% della lira turca avrebbe avuto un impatto netto di 2 punti base sul coefficiente Cet1 fully loaded (che misure la solidità del patrimonio) di Unicredit. Poca cosa, ma sufficiente a far crollare il titolo in Borsa. È l'effetto cascata che tocca tutto ciò che può riguardare la Turchia.
Gli investitori hanno infatti dubbi sulla reale capacità delle imprese del Paese, pesantemente indebitate, di ripagare i loro debiti in euro e dollari dopo anni di credito dall'estero per finanziare il boom edilizio, uno dei punti cardine della politica economica di Erdogan.
Il suo atteggiamento anacronistico e sprezzante - riproposto anche in un discorso tenuto ieri, con accuse alla «lobby dei tassi di interesse» e alle agenzie di rating occidentali di voler danneggiare l'economia turca - ha ulteriormente innervosito gli investitori. «Se loro hanno il dollaro, noi abbiamo il nostro popolo e Allah», è stata una delle dichiarazioni del presidente.
In tutta risposta la lira è scesa ulteriormente (20%) toccando quota 6,4. L'onda d'urto del crollo ha travolto gli altri mercati emergenti. Al peso argentino che affonda nei confronti del dollaro con un balzo dei rendimenti sui bond a 100 anni di Buenos Aires che lascia intravedere una recessione alle porte, si aggiunge il crollo del rand sudafricano che scende a 14 per dollaro, per la prima volta da novembre. Non è rimasto indietro neppure l'euro, che ieri ha perso terreno pure sul dollaro. Così come le Borse del Vecchio Continente hanno passato una giornata davvero nera. Sale fino a quota 260 lo spread tra il Btp e il Bund tedesco nei primi scambi della mattinata per rialzarsi nel tardo pomeriggio di altri 7 punti.
Il differenziale di rendimento tra il decennale italiano e quello tedesco, che giovedì aveva chiuso a 252 punti base, si è attestato ora a 267 punti, con un rendimento del 2,99%. Anche il rublo ha avviato una discesa brusca: c'è da aspettarsi un agosto turbolento. L'Italia è già sotto pressione per via dell'elevato debito pubblico e per le incertezze legate alla Finanziaria d'autunno.
Molti analisti dicono che balleranno Borsa e titoli di Stato. Vedremo, ancora una volta, quali saranno le mosse degli Stati Uniti. Se decideranno di calmierare le vendite come hanno fatto a giugno o staranno a guardare. Con la Turchia ci stanno affondando la lama.
Claudio Antonelli
Il Cairo protegge il nostro gas da Erdogan
Giovedì il vicepremier leghista, Matteo Salvini, ha rilasciato una lunga intervista al network qatarino di Al Jazeera. Tanti temi e diversi messaggi diretti al Medioriente e alla Libia.
Salvini è stato più volte spronato anche sul rapporto con l'Egitto, in relazione a Giulio Regeni, il ricercatore italiano ucciso al Cairo il 25 gennaio del 2016. «Non si possono annullare i rapporti con l'Egitto in attesa di sviluppi sul caso», ha ribadito il vice premier. «C'è un rapporto fondamentale con l'Egitto, c'è sempre stato e ci sarà anche in futuro», ha sentenziato. «Il ministro dell'Interno egiziano e il presidente della Repubblica mi hanno garantito che il lavoro degli inquirenti va avanti e che i responsabili saranno individuati e punti. Io mi fido di quello che mi hanno detto», ha confermato Salvini per rinnovando la «preoccupazione» per i buchi nei video delle telecamere di sorveglianza della stazione delle metropolitana, il luogo dove scomparve Giulio Regeni. Un modo per metterci un pietra sopra. Infatti ora la strada è tracciata. Le relazioni tra il nostro Paese, l'Eni, la Lega e la nazione guidata da Abd Al Fattaḥ Al Sisi hanno ricevuto una grande spinta dopo la nomina del governo gialloblù. Salvini ha incontrato prima il console egiziano a Milano, poi attraverso la diplomazia del Cane a sei zampe è volato direttamente al Cairo. Ha incontrato il generale sostenuto dagli Stati Uniti e a quanto risulta alla Verità ha confermato alla controparte egiziana che qualunque passo sul territorio libico nella parte Est, quella della Cirenaica sotto il controllo di Khalifa Haftar, avverrà in stretto coordinamento con l'intelligence egiziana. La scelta ha fatto infuriare il governo e il Parlamento di Tobruk che hanno colto l'occasione per chiedere l'allontanamento dell'ambasciatore italiano dal suolo libico. Haftar ha pure fatto sapere di aver chiesto aiuto alla Russia per allontanare dalla Libia le potenze straniere non gradite.
Il portavoce del generale libico, Ahmed Mismari, in un'intervista a Sputnik ha dichiarato: «Sappiamo che la Russia è uno degli Stati molto attivi nella lotta al terrorismo, per esempio, quanto sta accadendo in Siria sta accadendo in Libia e i libici cercano un forte alleato come la Russia», ha detto Mismari, «il problema libico ha bisogno anche dell'impegno della Russia e dello stesso presidente Putin, della rimozione di attori esterni, ad esempio Turchia, Qatar, in particolare dell'Italia, dall'arena libica», ha concluso, «la diplomazia russa dovrebbe svolgere un ruolo importante su questa questione. Noi concordiamo con la Francia: vogliamo tenere le elezioni quest'anno». Il messaggio è però da leggere al contrario. Haftar cerca un nuovo fronte per approcciare l'Italia e vuole sganciarsi dall'Egitto per essere più autonomo. Tirare troppo la corda può avere un effetto opposto perché sui temi energetici Italia ed Egitto non sono mai state così vicine come in questi giorni.
Infatti, se già da febbraio la Marina di Al Sisi ha cominciato a pattugliare l'area estrattiva di Zohr (dove c'è il più grande giacimento di Eni nel Mediterraneo), la scorsa settimana ha alzato il tiro per proteggere il nostro gas dalla Turchia. Ben quattro navi (una corvetta, una fregata e due lancia missili) sono state schierate attorno ai pozzi e scortano la Saipem 10.000. Si tratta della nave rimasta bloccata per diversi giorni dalle navi turche e poi costretta a ripiegare verso la parte Ovest del Mediterraneo. Ora sta tornando tutto alla normalità e ciò lo si deve ad Al Sisi. Per noi sarebbe troppo pericoloso mandare navi italiane a scortare la Saipem 10.000. Uno scontro con la Marina turca sarebbe inimmaginabile, siamo entrambi Paesi Nato. Mentre i militari egiziani non vedono l'ora di ampliare il proprio potere i tutta l'area e si muovono su piattaforme politiche diverse. D'altronde hanno il totale appoggio della Casa Bianca e la flotta cinese - arrivata di fronte alla Siria per sostenere le navi russe dai bombardamenti Usa contro le posizioni di Bashar Al Assad - hanno levato le ancore.
Claudio Antonelli
I bond emessi in valuta di Ankara hanno perso il 38% in un solo anno
Non ci sono dati ufficiali, ma in Italia non sono mai mancati gli istituti che hanno proposto ai risparmiatori prodotti di investimento in lire turche, perlopiù obbligazioni. Banca Imi, Société Générale, Goldman Sachs, la Banca Europea degli Investimenti solo per citarne alcuni.
Tutti prodotti che in passato hanno anche offerto buoni rendimenti agli investitori. Solo che la lira turca ha peros in un anno il 38%.Strumenti che però negli ultimi mesi hanno eroso il capitale di tanti risparmiatori che credevano di aver comprato qualcosa di non troppo rischioso. Le buone cedole offerte dalle tante obbligazioni sulla valuta di Ankara presenti sul mercato italiano, però, in molti casi non sono bastate a coprire il crollo della lira facendo perdere molti soldi a tutti quelli che vi avevano investito. Del resto, le banche italiane sono in buona compagnia. Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali, in Italia gli istituti sono esposti verso Ankara per 15 miliardi di euro (16,9 miliardi di dollari). Molto poco rispetto a Spagna (71 miliardi), Francia (33 miliardi), Gran Bretagna (16,5), Stati Uniti (15,6), Germania (14,8), Giappone (12 miliardi) e Svizzera (5 miliardi).
Il primo dubbio che viene in mente a tutti gli obbligazionisti (ma anche agli azionisti) che hanno voluto puntare su Ankara è cosa succederà ora alla lira turca. Tornerà ad apprezzarsi o crollerà ancora? E, soprattutto, come difendersi?
Gli analisti non sembrano avere dubbi. La lira continuerà a scendere. «Nei prossimi mesi, le attuali tendenze vedranno probabilmente la lira diventare la moneta dei mercati emergenti con la peggiorperformance da inizio anno», spiegano Salman Ahmend e Jamie Salt rispettivamente responsabile investimenti e analista di Lombard Odier Investment Managers.
«A nostro avviso», dice Peter Botoucharov, analista di T. Rowe Price, «le politiche di bilancio accomodanti del governo insieme agli effetti della lira debole e alle attuali misure di stimolo fiscale potrebbero portare ad un aumento dell'inflazione del 3-4% nella seconda metà dell'anno», spiega. «Attualmente, il mercato sembra mettere in conto un ulteriore rialzo dei tassi di circa 75 punti base, in aggiunta all'aumento di 175 punti base seguito alla semplificazione delle politiche monetarie. Se i politici non rispetteranno le aspettative del mercato per un'ulteriore stretta monetaria, è probabile che si verifichi un'altra fuga dalla lira».
Inoltre, continua l'esperto, «un programma di crescita a tutti i costi (da parte del presidente turco Recepp Erdogan, ndr), in un momento in cui i tassi d'interesse stanno aumentando a livello globale, porterebbe probabilmente ad un ulteriore forte deprezzamento della lira, che in ultima analisi si ripercuoterebbe sull'economia nel suo complesso».
Come comportarsi dunque? Il brusco calo della lira turca si sta diffondendo a macchia d'olio sui mercati finanziari, rafforzando gli asset visti come beni rifugio: bund (le obbligazioni tedesche, ndr), dollari e yen. Gli analisti di Bk Asset Management avvertono che l'uscita degli investitori dalla Turchia «potrebbe trasformarsi in una fuga disordinata se le autorità di Ankara non riescono a rassicurare il mercato», che teme le pressioni politiche sulla banca centrale turca.
Chi vuole correre ai ripari, dunque, può provare a fermare l'emorragia puntando su prodotti più sicuri come la divisa americana o giapponese o le obbligazioni di Berlino.
Nel frattempo i risparmiatori possono sperare che la Banca centrale turca decida di alzare i tassi di interesse per contenere il precipitoso calo della lira e contribuire all'abbassamento degli elevati livelli di inflazione.
Un fattore che molti analisti ritengono improbabile perché Erdogan non intende alzare il piede dall'acceleratore dell'inflazione e dunque della crescita del Paese. «Non vi sono indicazioni che spingono a pensare che il presidente Erdogan permetterà un rallentamento economico ancora più marcato, pertanto un inasprimento della politica monetaria potrebbe essere accompagnato da un incremento della spesa fiscale», affermano gli esperti di Nomura.
Purtroppo, dunque, non esiste una ricetta certa per salvarsi dal crollo della lira. L'unica soluzione è cercare di passare ad investimenti più redditizi (evitando di investire in titoli azionari che hanno in pancia prodotti di investimenti legati alla Turchia come le banche Ue) e sperare che un rialzo dei tassi metta il prima possibile un freno alla caduta.
Certo è che, se il crollo non dovesse arrestarsi nel breve periodo, l'unico modo per tutelarsi potrebbe essere quello di vendere. Salvando almeno una parte del capitale.
Gianluca Baldini
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Gli investitori mollano il Paese. Milano cede il 2,5% (Unicredit il 4,73%), spread su a 267. Il presidente americano Donald Trump rincara la dose e raddoppia i dazi. Il Cairo protegge il nostro gas da Recepp Erdogan. Oltre a pattugliare il giacimento Eni di Zohr, quattro navi della Marina di Al Sisi scortano la Saipem 10.000. È lo stesso mezzo che fu cacciato da Cipro dai militari del sultano. Sotto il cappello Usa, Italia ed Egitto sono i nuovi poli del Mediterraneo Est. I bond emessi in valuta di Ankara hanno perso il 38% in un solo anno. A emettere le obbligazioni Banca Imi, Société Générale, Goldman Sachs e la Banca europea degli investimenti. Gli istituti tricolore sono esposti verso il Paese eurasiatico per 15 miliardi. Lo speciale contiene tre articoli. Da due anni l'economia turca corre molto velocemente. Troppo, perché il Paese guidato dal sultano e dittatore Recepp Erdogan ha le gambe sottili. Credito a imprese e famiglie è stato pompato e l'inflazione è arrivata al 16%. A giugno ci sono state le elezioni. Il capo dello Stato ha promesso investimenti mirabolanti in mega opere infrastrutturali. Nonostante il rapporto tra debito pubblico e Pil sia bassissimo (circa 28%), ad Ankara c'è un forte deficit commerciale (6%) delle partite correnti, senza dimenticare che le imprese locali chiedono prestiti all'estero per poter essere considerate affidabili. La mossa ha portato così il debito privato a valere più del 50% del Pil, e a mettere in difficoltà la valuta. Ai primi di luglio, la maggior parte degli investitori esteri si aspettava un deciso rialzo dei tassi d'interesse. Che non è arrivato, perché Erdogan, che dallo scorso anno nomina direttamente il governatore della Banca centrale, ha messo il veto: nessun rialzo per evitare impatti sui consumi interni e sui mutui. L'effetto è stato invece negativo. L'inflazione è salita comunque, e gli investitori si sono spaventati. Ieri sono poi entrate in vigore le sanzioni volute da Donald Trump e allo stesso momento sono scattate le contromisure di Ankara. La Casa Bianca, per via delle tensioni politiche, ha voluto prendere le distanze da Erdogan e lui quattro giorni fa ha alzato i toni minacciando di congelare i beni americani sul territorio turco. Una mossa non troppo intelligente. Ieri si sono visti i frutti. Sprofonda a nuovi minimi storici la lira turca, che è arrivata a cedere oltre il 14% sul dollaro, innescando un generale panico sui mercati emergenti ed europei. Il sell off di massa ha inasprito i timori del mercato per l'esposizione delle banche occidentali nei confronti della Turchia. Bbva, Bnp Paribas e Unicredit sono i tre istituti percepiti più a rischio. La banca italiana ieri ha perso il 4,73% in Borsa anche se il suo ad, Jean Pierre Mustier, ha più volte messo le mani avanti, anticipando l'intenzione di alleggerire il peso degli asset turchi. La banca a fine giugno aveva finanziamenti verso investitori istituzionali nazionali pari a 165,18 milioni di euro. Si tratta, è bene ricordarlo, dello 0,14% dei 120,7 miliardi complessivi di esposizione sovrana di Unicredit. Già in occasione della presentazione dei conti del primo semestre, i vertici dell'istituto italiano avevano spiegato che una svalutazione del 10% della lira turca avrebbe avuto un impatto netto di 2 punti base sul coefficiente Cet1 fully loaded (che misure la solidità del patrimonio) di Unicredit. Poca cosa, ma sufficiente a far crollare il titolo in Borsa. È l'effetto cascata che tocca tutto ciò che può riguardare la Turchia. Gli investitori hanno infatti dubbi sulla reale capacità delle imprese del Paese, pesantemente indebitate, di ripagare i loro debiti in euro e dollari dopo anni di credito dall'estero per finanziare il boom edilizio, uno dei punti cardine della politica economica di Erdogan. Il suo atteggiamento anacronistico e sprezzante - riproposto anche in un discorso tenuto ieri, con accuse alla «lobby dei tassi di interesse» e alle agenzie di rating occidentali di voler danneggiare l'economia turca - ha ulteriormente innervosito gli investitori. «Se loro hanno il dollaro, noi abbiamo il nostro popolo e Allah», è stata una delle dichiarazioni del presidente. In tutta risposta la lira è scesa ulteriormente (20%) toccando quota 6,4. L'onda d'urto del crollo ha travolto gli altri mercati emergenti. Al peso argentino che affonda nei confronti del dollaro con un balzo dei rendimenti sui bond a 100 anni di Buenos Aires che lascia intravedere una recessione alle porte, si aggiunge il crollo del rand sudafricano che scende a 14 per dollaro, per la prima volta da novembre. Non è rimasto indietro neppure l'euro, che ieri ha perso terreno pure sul dollaro. Così come le Borse del Vecchio Continente hanno passato una giornata davvero nera. Sale fino a quota 260 lo spread tra il Btp e il Bund tedesco nei primi scambi della mattinata per rialzarsi nel tardo pomeriggio di altri 7 punti. Il differenziale di rendimento tra il decennale italiano e quello tedesco, che giovedì aveva chiuso a 252 punti base, si è attestato ora a 267 punti, con un rendimento del 2,99%. Anche il rublo ha avviato una discesa brusca: c'è da aspettarsi un agosto turbolento. L'Italia è già sotto pressione per via dell'elevato debito pubblico e per le incertezze legate alla Finanziaria d'autunno. Molti analisti dicono che balleranno Borsa e titoli di Stato. Vedremo, ancora una volta, quali saranno le mosse degli Stati Uniti. Se decideranno di calmierare le vendite come hanno fatto a giugno o staranno a guardare. Con la Turchia ci stanno affondando la lama. Claudio Antonelli<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/trump-stronca-la-turchia-e-fa-crollare-la-lira-la-botta-arriva-pure-da-noi-2594619805.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="il-cairo-protegge-il-nostro-gas-da-erdogan" data-post-id="2594619805" data-published-at="1765391695" data-use-pagination="False"> Il Cairo protegge il nostro gas da Erdogan Giovedì il vicepremier leghista, Matteo Salvini, ha rilasciato una lunga intervista al network qatarino di Al Jazeera. Tanti temi e diversi messaggi diretti al Medioriente e alla Libia. Salvini è stato più volte spronato anche sul rapporto con l'Egitto, in relazione a Giulio Regeni, il ricercatore italiano ucciso al Cairo il 25 gennaio del 2016. «Non si possono annullare i rapporti con l'Egitto in attesa di sviluppi sul caso», ha ribadito il vice premier. «C'è un rapporto fondamentale con l'Egitto, c'è sempre stato e ci sarà anche in futuro», ha sentenziato. «Il ministro dell'Interno egiziano e il presidente della Repubblica mi hanno garantito che il lavoro degli inquirenti va avanti e che i responsabili saranno individuati e punti. Io mi fido di quello che mi hanno detto», ha confermato Salvini per rinnovando la «preoccupazione» per i buchi nei video delle telecamere di sorveglianza della stazione delle metropolitana, il luogo dove scomparve Giulio Regeni. Un modo per metterci un pietra sopra. Infatti ora la strada è tracciata. Le relazioni tra il nostro Paese, l'Eni, la Lega e la nazione guidata da Abd Al Fattaḥ Al Sisi hanno ricevuto una grande spinta dopo la nomina del governo gialloblù. Salvini ha incontrato prima il console egiziano a Milano, poi attraverso la diplomazia del Cane a sei zampe è volato direttamente al Cairo. Ha incontrato il generale sostenuto dagli Stati Uniti e a quanto risulta alla Verità ha confermato alla controparte egiziana che qualunque passo sul territorio libico nella parte Est, quella della Cirenaica sotto il controllo di Khalifa Haftar, avverrà in stretto coordinamento con l'intelligence egiziana. La scelta ha fatto infuriare il governo e il Parlamento di Tobruk che hanno colto l'occasione per chiedere l'allontanamento dell'ambasciatore italiano dal suolo libico. Haftar ha pure fatto sapere di aver chiesto aiuto alla Russia per allontanare dalla Libia le potenze straniere non gradite. Il portavoce del generale libico, Ahmed Mismari, in un'intervista a Sputnik ha dichiarato: «Sappiamo che la Russia è uno degli Stati molto attivi nella lotta al terrorismo, per esempio, quanto sta accadendo in Siria sta accadendo in Libia e i libici cercano un forte alleato come la Russia», ha detto Mismari, «il problema libico ha bisogno anche dell'impegno della Russia e dello stesso presidente Putin, della rimozione di attori esterni, ad esempio Turchia, Qatar, in particolare dell'Italia, dall'arena libica», ha concluso, «la diplomazia russa dovrebbe svolgere un ruolo importante su questa questione. Noi concordiamo con la Francia: vogliamo tenere le elezioni quest'anno». Il messaggio è però da leggere al contrario. Haftar cerca un nuovo fronte per approcciare l'Italia e vuole sganciarsi dall'Egitto per essere più autonomo. Tirare troppo la corda può avere un effetto opposto perché sui temi energetici Italia ed Egitto non sono mai state così vicine come in questi giorni. Infatti, se già da febbraio la Marina di Al Sisi ha cominciato a pattugliare l'area estrattiva di Zohr (dove c'è il più grande giacimento di Eni nel Mediterraneo), la scorsa settimana ha alzato il tiro per proteggere il nostro gas dalla Turchia. Ben quattro navi (una corvetta, una fregata e due lancia missili) sono state schierate attorno ai pozzi e scortano la Saipem 10.000. Si tratta della nave rimasta bloccata per diversi giorni dalle navi turche e poi costretta a ripiegare verso la parte Ovest del Mediterraneo. Ora sta tornando tutto alla normalità e ciò lo si deve ad Al Sisi. Per noi sarebbe troppo pericoloso mandare navi italiane a scortare la Saipem 10.000. Uno scontro con la Marina turca sarebbe inimmaginabile, siamo entrambi Paesi Nato. Mentre i militari egiziani non vedono l'ora di ampliare il proprio potere i tutta l'area e si muovono su piattaforme politiche diverse. D'altronde hanno il totale appoggio della Casa Bianca e la flotta cinese - arrivata di fronte alla Siria per sostenere le navi russe dai bombardamenti Usa contro le posizioni di Bashar Al Assad - hanno levato le ancore. Claudio Antonelli <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/trump-stronca-la-turchia-e-fa-crollare-la-lira-la-botta-arriva-pure-da-noi-2594619805.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-bond-emessi-in-valuta-di-ankara-hanno-perso-il-38-in-un-solo-anno" data-post-id="2594619805" data-published-at="1765391695" data-use-pagination="False"> I bond emessi in valuta di Ankara hanno perso il 38% in un solo anno Non ci sono dati ufficiali, ma in Italia non sono mai mancati gli istituti che hanno proposto ai risparmiatori prodotti di investimento in lire turche, perlopiù obbligazioni. Banca Imi, Société Générale, Goldman Sachs, la Banca Europea degli Investimenti solo per citarne alcuni. Tutti prodotti che in passato hanno anche offerto buoni rendimenti agli investitori. Solo che la lira turca ha peros in un anno il 38%.Strumenti che però negli ultimi mesi hanno eroso il capitale di tanti risparmiatori che credevano di aver comprato qualcosa di non troppo rischioso. Le buone cedole offerte dalle tante obbligazioni sulla valuta di Ankara presenti sul mercato italiano, però, in molti casi non sono bastate a coprire il crollo della lira facendo perdere molti soldi a tutti quelli che vi avevano investito. Del resto, le banche italiane sono in buona compagnia. Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali, in Italia gli istituti sono esposti verso Ankara per 15 miliardi di euro (16,9 miliardi di dollari). Molto poco rispetto a Spagna (71 miliardi), Francia (33 miliardi), Gran Bretagna (16,5), Stati Uniti (15,6), Germania (14,8), Giappone (12 miliardi) e Svizzera (5 miliardi). Il primo dubbio che viene in mente a tutti gli obbligazionisti (ma anche agli azionisti) che hanno voluto puntare su Ankara è cosa succederà ora alla lira turca. Tornerà ad apprezzarsi o crollerà ancora? E, soprattutto, come difendersi? Gli analisti non sembrano avere dubbi. La lira continuerà a scendere. «Nei prossimi mesi, le attuali tendenze vedranno probabilmente la lira diventare la moneta dei mercati emergenti con la peggiorperformance da inizio anno», spiegano Salman Ahmend e Jamie Salt rispettivamente responsabile investimenti e analista di Lombard Odier Investment Managers. «A nostro avviso», dice Peter Botoucharov, analista di T. Rowe Price, «le politiche di bilancio accomodanti del governo insieme agli effetti della lira debole e alle attuali misure di stimolo fiscale potrebbero portare ad un aumento dell'inflazione del 3-4% nella seconda metà dell'anno», spiega. «Attualmente, il mercato sembra mettere in conto un ulteriore rialzo dei tassi di circa 75 punti base, in aggiunta all'aumento di 175 punti base seguito alla semplificazione delle politiche monetarie. Se i politici non rispetteranno le aspettative del mercato per un'ulteriore stretta monetaria, è probabile che si verifichi un'altra fuga dalla lira». Inoltre, continua l'esperto, «un programma di crescita a tutti i costi (da parte del presidente turco Recepp Erdogan, ndr), in un momento in cui i tassi d'interesse stanno aumentando a livello globale, porterebbe probabilmente ad un ulteriore forte deprezzamento della lira, che in ultima analisi si ripercuoterebbe sull'economia nel suo complesso». Come comportarsi dunque? Il brusco calo della lira turca si sta diffondendo a macchia d'olio sui mercati finanziari, rafforzando gli asset visti come beni rifugio: bund (le obbligazioni tedesche, ndr), dollari e yen. Gli analisti di Bk Asset Management avvertono che l'uscita degli investitori dalla Turchia «potrebbe trasformarsi in una fuga disordinata se le autorità di Ankara non riescono a rassicurare il mercato», che teme le pressioni politiche sulla banca centrale turca. Chi vuole correre ai ripari, dunque, può provare a fermare l'emorragia puntando su prodotti più sicuri come la divisa americana o giapponese o le obbligazioni di Berlino. Nel frattempo i risparmiatori possono sperare che la Banca centrale turca decida di alzare i tassi di interesse per contenere il precipitoso calo della lira e contribuire all'abbassamento degli elevati livelli di inflazione. Un fattore che molti analisti ritengono improbabile perché Erdogan non intende alzare il piede dall'acceleratore dell'inflazione e dunque della crescita del Paese. «Non vi sono indicazioni che spingono a pensare che il presidente Erdogan permetterà un rallentamento economico ancora più marcato, pertanto un inasprimento della politica monetaria potrebbe essere accompagnato da un incremento della spesa fiscale», affermano gli esperti di Nomura. Purtroppo, dunque, non esiste una ricetta certa per salvarsi dal crollo della lira. L'unica soluzione è cercare di passare ad investimenti più redditizi (evitando di investire in titoli azionari che hanno in pancia prodotti di investimenti legati alla Turchia come le banche Ue) e sperare che un rialzo dei tassi metta il prima possibile un freno alla caduta. Certo è che, se il crollo non dovesse arrestarsi nel breve periodo, l'unico modo per tutelarsi potrebbe essere quello di vendere. Salvando almeno una parte del capitale. Gianluca Baldini
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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Ecco #DimmiLaVerità del 10 dicembre 2025. Con il nostro Alessandro Rico analizziamo gli ostacoli che molti leader europei mettono sulla strada della pace in Ucraina.
L’intesa riguarda l’acquisto di un’area di 15.000 metri quadrati dal Consorzio ZAI e prevede un investimento complessivo di circa 20 milioni di euro. Si tratta di un progetto greenfield, cioè realizzato ex novo, che darà vita a un centro di manutenzione pensato fin dall’origine per rispondere alle esigenze della logistica ferroviaria europea e alla crescita del traffico merci su rotaia.
Il nuovo impianto sarà concepito secondo un modello open access, dunque accessibile a locomotive di diversi costruttori. L’hub ospiterà cinque binari dedicati alla manutenzione leggera e un binario riservato al tornio per la riprofilatura delle ruote, consentendo di effettuare test e interventi su locomotive multisistema e in corrente continua, compatibili con i principali sistemi di segnalamento europei. L’obiettivo è garantire elevati livelli di affidabilità e disponibilità operativa dei mezzi attraverso ispezioni programmate e interventi rapidi lungo l’intero ciclo di vita dei veicoli.
La scelta di Verona si lega alla centralità del corridoio Verona–Brennero, infrastruttura destinata a un deciso aumento della capacità ferroviaria con l’apertura della Galleria di Base del Brennero, prevista per il 2032. Il nuovo hub si inserirà inoltre in una rete già consolidata, integrandosi con il Rail Service Center di Siemens Mobility a Novara, operativo dal 2015 sul corridoio TEN-T Reno-Alpi e oggi punto di riferimento per la manutenzione di oltre 120 locomotive di operatori europei.
«Questo investimento rappresenta un ulteriore passo nel nostro impegno a favore di un trasporto merci sempre più sostenibile», ha dichiarato Pierfrancesco De Rossi, Ceo di Siemens Mobility in Italia. Secondo De Rossi, il nuovo hub di Verona è «una scelta strategica che conferma la fiducia di Siemens Mobility nel Paese e nel suo ruolo centrale nello sviluppo del settore», con l’obiettivo di rafforzare la posizione dell’Italia nella rete logistica europea e sostenere il passaggio verso modalità di trasporto meno impattanti.
Il progetto nasce dall’integrazione delle competenze delle due aziende. Siemens Mobility porterà a Verona l’esperienza maturata nella manutenzione delle locomotive dedicate al trasporto merci, mentre RAILPOOL contribuirà con il know-how sviluppato a livello europeo, facendo leva su sei officine di proprietà e su una rete di supporto che può contare su oltre 4.500 parti di ricambio disponibili a magazzino.
«Con il nuovo centro di manutenzione di Verona ampliamo il nostro potenziale manutentivo in una delle aree logistiche più strategiche d’Europa», ha spiegato Alberto Lacchini, General Manager di RAILPOOL Italia. Si tratta, ha aggiunto, di un investimento che riflette «un impegno di lungo periodo nel fornire soluzioni di leasing affidabili e complete», in grado di rispondere a esigenze operative in continua evoluzione.
La collaborazione tra Siemens Mobility e RAILPOOL si inserisce in un percorso avviato nel 2024, quando le due società hanno sottoscritto un accordo quadro per la fornitura a RAILPOOL di circa 250 locomotive, incluse le varianti multisistema Vectron oggi operative in 16 Paesi lungo i principali corridoi ferroviari europei.
Sul valore dell’investimento è intervenuta anche Barbara Cimmino, vice presidente di Confindustria per l’Export e l’Attrazione degli Investimenti e presidente dell’Advisory Board Investitori Esteri. «L’investimento di Siemens Mobility in Veneto è un segnale significativo per la competitività italiana», ha affermato, sottolineando come il progetto confermi la centralità del Paese nella logistica ferroviaria europea e nei processi di transizione sostenibile. Un’iniziativa che, secondo Cimmino, evidenzia il contributo degli investitori internazionali nel rafforzare le filiere strategiche e la capacità dell’Italia di offrire ecosistemi solidi e competenze tecniche avanzate.
Per Siemens Mobility, la manutenzione delle locomotive resta una delle attività centrali anche in Italia, all’interno di una rete globale che comprende oltre 100 sedi in più di 30 Paesi e circa 7.000 specialisti. L’apertura del nuovo hub di Verona consolida questo presidio e rafforza il ruolo del Paese come snodo industriale e logistico in una fase di forte crescita del trasporto merci su ferro.
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