2020-01-09
Trump posa il bastone e inizia la trattativa
Dopo la prova di forza, il presidente annuncia «nuove potenti sanzioni» contro l'Iran ma si augura un cambio di comportamento. Rientra l'ipotesi di un «regime change» troppo destabilizzante per l'area. Sul tavolo anche la riscrittura di un accordo sul nucleare.È l'eclissi della mezzaluna sciita. I Pasdaran ora sono rimasti isolati. L'alleato storico siriano è silente. Baghdad gioca su due sponde. E Mosca guarda altrove.Lo speciale comprende due articoli. Il bastone e la carota: è questa la strategia che gli Stati Uniti sembrano aver scelto, in risposta all'attacco missilistico iraniano che ha colpito due basi americane in territorio iracheno. Donald Trump ha tenuto ieri un discorso alla Casa Bianca, in cui, pur assumendo un atteggiamento severo nei confronti di Teheran, non ha comunque chiuso del tutto alla possibilità di un dialogo. Il presidente americano ha innanzitutto chiarito che l'aggressione iraniana non abbia causato vittime tra i soldati statunitensi, smentendo così seccamente le Guardie della Rivoluzione che avevano parlato di oltre ottanta vittime. «Non abbiamo subito vittime. Tutti i nostri soldati sono al sicuro e nelle nostre basi militari sono stati subiti solo danni minimi», ha dichiarato. L'inquilino della Casa Bianca ha poi rivendicato l'eliminazione di Qasem Soleimani e ha attaccato duramente l'Iran. «Per troppo tempo, risalendo fino al 1979 per l'esattezza, le nazioni hanno tollerato il comportamento distruttivo e destabilizzante dell'Iran in Medio Oriente e oltre. Quei giorni sono finiti». Per tale ragione, Trump ha annunciato l'imposizione di nuove sanzioni economiche. «Queste potenti sanzioni», ha chiarito, «rimarranno fin quando l'Iran non cambierà il suo comportamento». Da notare come, in quest'ultima affermazione, il presidente sia passato parzialmente dal «bastone» alla «carota». Trump ha infatti invocato un «cambio di comportamento» e non un «cambio di regime». Una linea, quest'ultima, che l'attuale inquilino della Casa Bianca ha del resto sempre fatto propria, visto il suo scetticismo verso le guerre mediorientali e - soprattutto - verso gli esperimenti di ingegneria istituzionale di marca neoconservatrice. Una posizione significativa, soprattutto dopo che - qualche giorno fa - l'ex consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, era tornato ad invocare un cambio di regime a Teheran. Nel discorso di ieri, il presidente americano è tornato poi a parlare dell'accordo sul nucleare, siglato da Barack Obama nel 2015: Trump ha definito «folle» quell'intesa e ha chiesto esplicitamente a Regno Unito, Germania, Francia, Russia e Cina di stracciarla. Tuttavia - anziché chiudere completamente al dialogo - è tornato alla sua classica proposta di una rinegoziazione. «Dobbiamo lavorare tutti insieme per fare un accordo con l'Iran che renda il mondo un posto più sicuro e più pacifico», ha dichiarato. Insomma, postura aggressiva e disponibilità al dialogo convivono nella stessa linea. Una linea che non sembra lasciare spazio, almeno al momento, a una rappresaglia militare da parte di Washington. Che fosse questa l'intenzione della Casa Bianca lo si era del resto già capito qualche ora prima della conferenza stampa di Trump, quando un notorio falco anti iraniano come il senatore repubblicano Lindsey Graham aveva affermato: «Una ritorsione per il gusto di una ritorsione non è necessaria a questo punto.» Negli ultimi giorni, Trump, dipinto dai media progressisti come uno sprovveduto che schiaccia bottoni di lancio nella war room, ha ottenuto due obiettivi. In primo luogo, ha ristabilito la deterrenza anti iraniana con l'eliminazione di Soleimani dopo l'assalto all'ambasciata americana di Baghdad: eliminazione che lo ha portato nei fatti a decapitare un pezzo importantissimo della classe dirigente di Teheran, che forse stava ritagliandosi uno spazio di azione personale inviso agli stessi ayatollah. In secondo luogo, Trump sembra aver evitato un'escalation militare che avrebbe potuto spingerlo nel pericoloso pantano di un conflitto mediorientale: uno scenario particolarmente temuto da un presidente che ha sempre fatto della lotta alle «guerre senza fine» uno dei propri fiori all'occhiello. Questo presidente che una certa vulgata tende ancora a dipingere come un lunatico incompetente sembra quindi riuscito a fiaccare il suo principale avversario nella regione mediorientale. Che Teheran si trovi in estrema difficoltà è d'altronde testimoniato da una serie di elementi. Innanzitutto troviamo il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif che, poco dopo l'attacco missilistico, si affretta a dire di non volere un'escalation. In seconda battuta, non dimentichiamo che, in base a quanto reso noto dal premier iracheno Adil Abdul Mahdi, l'Iran avesse preventivamente avvertito dell'aggressione Baghdad e che quest'ultima - ha riportato Cnn - potrebbe avere a sua volta allertato gli Stati Uniti. Trump ha quindi creato le condizioni per aprire una trattativa negoziale con l'Iran, potendosi però adesso permettere una forza contrattuale incredibilmente più grande: una forza contrattuale che sgorga direttamente dall'eliminazione di Soleimani e dalle nuove sanzioni annunciate ieri. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/trump-posa-il-bastone-e-inizia-la-trattativa-2644606813.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="e-leclissi-della-mezzaluna-sciita-i-pasdaran-ora-sono-rimasti-isolati" data-post-id="2644606813" data-published-at="1758216496" data-use-pagination="False"> È l’eclissi della mezzaluna sciita. I Pasdaran ora sono rimasti isolati L'attacco missilistico iraniano della notte scorsa contro due basi americane in territorio iracheno ha messo in evidenza un plastico isolamento della Repubblica Islamica nell'area mediorientale. Nella giornata di ieri, l'ayatollah Ali Khamenei aveva voluto ribadire l'ambizione dell'Iran di proporsi come punto di riferimento in funzione anti americana, tuonando: «La presenza degli americani nella regione deve finire. Gli americani diffondono distruzione e corruzione nella regione e per questo motivo la loro presenza deve finire». Eppure l'appoggio che Teheran ha incassato ieri dagli altri attori regionali è stato abbastanza scarso: a partire proprio dall'Iraq, territorio su cui notoriamente l'Iran vanta un'influenza notevole. Certo: il premier iracheno Adel Abdul Mahdi ha reso noto ieri di essere stato informato dall'Iran poco prima dell'attacco e - secondo Cnn - Baghdad potrebbe avere a sua volta allertato gli Stati Uniti. Resta tuttavia il fatto che il premier abbia emesso un comunicato, in cui si legge: «L'Iraq rifiuta qualunque violazione della propria sovranità e qualsiasi attacco sul proprio territorio». Insomma, non esattamente un endorsement al lancio missilistico iraniano. Un altro elemento da sottolineare è il silenzio del presidente siriano, Bashar al Assad: una figura notoriamente molto vicina alla Repubblica Islamica. Parole caute sono invece quelle giunte dal vertice di Istanbul tra Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan: sebbene i due leader abbiano espresso critiche nei confronti di Washington, hanno cercato di allentare le turbolenze. «Alla luce degli attacchi missilistici balistici da parte dell'Iran contro le basi militari della coalizione in Iraq l'8 gennaio 2020, riteniamo che lo scambio di attacchi e l'uso della forza da parte di qualsiasi fazione non contribuiscano a trovare soluzioni ai complessi problemi in Medio Oriente», hanno affermato in una dichiarazione congiunta. Anche in questo caso, nonostante la freddezza verso Washington, non ci sono stati endorsement nei confronti dell'attacco missilistico di Teheran. Un fattore significativo. Non solo infatti la Russia rappresenta un alleato molto stretto dell'Iran ma anche la Turchia gli si era parzialmente avvicinata dalla fine del 2017: da quando, cioè, Donald Trump aveva annunciato di voler spostare l'ambasciata statunitense in Israele a Gerusalemme. La stessa Cina, che insieme alla Russia ha tenuto con l'Iran recentemente delle esercitazioni navali nel Golfo di Oman, ha preferito presentarsi come mediatrice tra Washington e Teheran, anziché difendere la Repubblica Islamica. «Il peggioramento della situazione nella regione del Medio Oriente non è nell'interesse di nessuna parte», ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Geng Shuang. Insomma, l'Iran sembra abbastanza isolato in questo frangente. E la causa di una tale situazione potrebbe essere duplice. È innanzitutto plausibile che l'attacco della scorsa notte venga interpretato come una rappresaglia di facciata, priva di effettivo contenuto dal punto di vista bellico e strategico. Ma soprattutto è anche possibile che l'eliminazione di Soleimani possa aver lasciato un segno profondo sulla politica regionale iraniana: non dimentichiamo che il generale fosse il grande architetto delle ambizioni geopolitiche mediorientali di Teheran e che costituisse la figura di riferimento per i vari gruppi sciiti filoiraniani sparsi nell'area. L'uccisione di Soleimani potrebbe quindi aver assestato un duro colpo alla politica estera della Repubblica Islamica e preludere a un mutamento di assetti interno al Paese nei prossimi mesi.
Emanuele Orsini e Dario Scannapieco
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