2025-05-27
Il vero obiettivo di Trump è fare a pezzi il Green deal
Donald Trump (Getty Images)
La nuova scadenza della trattativa Ue-Casa Bianca non serve solo per le tariffe: gli Usa vogliono smontare le norme su emissioni, auto e industria che hanno distrutto noi e penalizzato i loro prodotti. Approfittiamone.Guarire dalla follia. La terapia chock di Donald Trump nei confronti dell’Unione europea sui dazi non è determinata da psicolabilità caratteriale, ma da un disegno strategico che ha un obiettivo preciso: arginare e annacquare (se non annientare) il Green deal. Accelerazioni e frenate - l’ultima, domenica scorsa con il ritorno al 9 luglio come deadline delle trattative - sono semplicemente funzionali allo scopo di convincere la Commissione a riprendere in mano i dossier e a rivedere le decisioni turbo-progressiste in salsa Greta Thunberg prese negli anni del delirio messianico azteco da «salviamo il pianeta dall’uomo».Che i dazi fossero un mezzo e non un fine era chiaro quasi da subito, quando l’amministrazione americana aveva fatto trapelare l’importanza delle «tariffe indirette da ripensare», con nel mirino l’impianto regolatorio che grava sui prodotti Ue fatti all’interno dell’Unione e pure fuori, per via delle delocalizzazioni. E quando aveva sparato alto per poi negoziare con Giappone, India e Messico accordi economico-politici su ben altri argomenti, come l’importazione delle vetture (con Tokyo), il ritorno a casa delle big tech, soprattutto Apple (con New Delhi), la lotta ai clandestini e al micidiale fentanyl che avvelena la gioventù americana (con Città del Messico che tollera i cartelli della droga). Allora si parlava di dazi, in realtà suonavano sveglie.Non molto diverso è il pressing sull’Europa, con Trump contento di spingere perché le trattative non finiscano in una palude ma al tempo stesso favorevole a non tirare la corda. Ieri ha sottolineato su Truth: «Ho detto sì alla proroga dell’entrata in vigore delle tariffe al 50%, che è stata fissata al 9 luglio. È stato un privilegio per me farlo. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha affermato che i colloqui inizieranno rapidamente». Traduzione: il ritmo era considerato frustrante dai delegati di Washington e il colpo di fucile nell’accampamento semiaddormentato era necessario. In realtà l’unico nemico con il quale gli americani intendono giocare fino in fondo la partita di dazi puri e semplici è la Cina, rivale geopolitico planetario, in un braccio di ferro destinato a durare nel tempo.Con l’Europa la storia è un’altra e parla di dazi come merce di scambio politico. È tutta riassunta nelle 31 pagine dedicate all’Unione europea, contenute nel librone che Trump ha palleggiato sul palco durante il primo dei suoi interventi con la ruspa. Le norme che penalizzano gli Stati Uniti e il cui indebolimento (se non proprio smantellamento) è il cuore del dossier dazi, sono quelle sulle etichette, sul packaging, sui pesticidi, sulle rinnovabili, sui gas serra, sul biotech agricolo, sulla camicia di forza dell’agro-alimentare. E poi il Digital service act, il Digital market act e il contestatissimo meccanismo di adeguamento del carbonio (Cbam), studiato da Bruxelles per evitare importazioni da aree che non rispettino i nostri rigidissimi standard. Decreti talvolta pure autolesionistici perché non impediscono comunque ai cinesi di invadere i mercati europei dell’automotive senza dover rispettare parametri in regime di reciprocità. Il segnale di un cambiamento di rotta sarebbe decisivo. Per ora la Commissione, dopo aver minacciato l’uso di «un bazooka» che non esiste, fischietta alla luna. E Trump è stato costretto all’ultimo ruggito. Peraltro la virata per allontanarsi dal fanatismo ideologico da permafrost dovrebbe essere naturale, visto che l’hanno chiesta i cittadini europei nelle elezioni di un anno fa, quando hanno determinato la discesa dei socialisti, la sconfitta dei Verdi e il successo dei conservatori più pragmatici ed equilibrati. Un cambiamento sarebbe nel solco anche dei desiderata del centrodestra italiano e rappresenterebbe una convergenza con tutti coloro che vedono nel Green deal un salto nel vuoto. Una situazione chiara in tutto il continente, con politiche energetiche in rapido mutamento (a partire dalla Germania) un po’ ovunque, tranne che nel luna park spagnolo con Pedro Sánchez alla cassa, dove i blackout epocali sono il prezzo del biglietto. È curioso notare come, sul tema, anche Mario Draghi sia sceso in campo per auspicare prudenza, per consigliare di evitare il «muro contro muro» e per criticare l’impianto regolatorio di quelli che ha chiamato «autodazi». Se gli euroburocrati provano fastidio davanti ai loro cittadini e ai governi sovrani che fanno parte dell’Unione, tengano almeno in considerazione il verbo del drago. Perché l’Europa vira piano la prua? Perché fatica a discostarsi da un’ideologia ormai considerata perdente? Perché la Commissione è guidata da Von der Leyen, la stessa presidente che si intestò la follia negli ultimi cinque anni (do you remember i diktat di Frans Timmermans?). E perché a sorreggerla sono ancora commissari infatuati dal Green deal e dalla via cinese alla felicità. Una realtà distante anni luce dalla filosofia trumpiana e da quel ritorno alle solide basi dell’economia di prodotto. Da qui gli svegliarini e le minacce, da qui «le discese ardite e le risalite» per impedire all’Europa di tirare a campare, con il rischio di tirare le cuoia.
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