2019-03-19
«Trump è un eroe tragico ma vero. Ha fatto tanto, gli manca solo il fisco»
Lo storico che ha scritto un libro sulle ragioni strutturali che hanno condotto il magnate alla Casa Bianca: «Osteggiato dalle élite, ha un difetto: non lascia che i suoi successi parlino per sé e battibecca su Twitter».A sentire la maggior parte dei mass media, sembrerebbe che la base elettorale di Donald Trump sia prevalentemente costituita da pericolosi ambienti vicini all'estrema destra. Che questo presidente sia un pasticcione lunatico. Che gli Stati Uniti risultino ormai sull'orlo del baratro e sprofondati nel caos dell'incompetenza. Una visione condivisa anche da alcuni altolocati circoli di Washington, che vedono il magnate newyorchese come una sorta di zotico usurpatore, fondamentalmente indegno della poltrona su cui siede.Di questo avviso non è Victor Davis Hanson. Storico presso lo Hoover institute, il professore nutre sentimenti conservatori e non ha mai nascosto la propria vicinanza al Partito repubblicano. Pochi giorni fa, ha pubblicato The Case for Trump: un libro dedicato alle ragioni strutturali che hanno condotto il magnate newyorchese alla Casa Bianca, e che propone anche un bilancio di questi primi due anni di presidenza. Da queste pagine emerge un'immagine fortemente controcorrente dell'attuale presidente. Un'immagine che è lo stesso Hanson a confermare in un'intervista a La Verità.Professor Hanson, nel suo ultimo libro lei considera Donald Trump un «eroe». In che senso?«Si tratta di un eroe tragico piuttosto che tradizionale. Trump ha interrotto la trasformazione pianificata da Obama e Hillary Clinton per sedici anni in senso progressista del Paese. E lo ha fatto senza un grande aiuto da parte del suo partito. È più un eroe tragico per il fatto che i suoi risultati probabilmente non gli verranno riconosciuti nel dovuto modo. Gli saranno invece riconosciuti i difetti personali almeno fin quando le acque non si saranno calmate. Apprezziamo il fatto che il presidente sia stato capace di raggiungere una crescita annuale del Pil del 3%. Eppure, con il miglioramento dell'economia, alcuni si sentono sempre più infastiditi dal comportamento di Trump: accade quello che succede nei film western, quando i contadini chiamano l'outsider minaccioso a battersi contro i proprietari terrieri e, dopo che ha vinto, gli chiedono cortesemente di levare le tende».Secondo lei, perché la classe lavoratrice del Midwest ha votato per Trump nel 2016?«Per una serie di fattori che sono stati ignorati dagli altri candidati alle primarie del 2016. Innanzitutto la possibilità per i “deprecabili" (come definì Hillary gli elettori di Trump, ndr) di ritornare al precedente primato manifatturiero e industriale. In secondo luogo, la sovranità è impossibile senza confini sicuri e senza la fine dell'immigrazione clandestina. In terzo luogo, la Cina non è destinata a raggiungere il dominio internazionale e il suo mercantilismo può essere messo sotto controllo. Infine, gli interventi militari opzionali non hanno tradotto il successo sul campo di battaglia in vantaggio strategico. Senza poi trascurare che l'élite repubblicana sia fuori dal mondo e giochi con le regole politiche arcaiche del marchese di Queensberry, come se preferisse perdere nobilmente piuttosto che vincere in modo brutto. La classe lavoratrice ha considerato Trump autentico. Il suo accento, il suo aspetto e il suo comportamento non sono cambiati in base al pubblico di riferimento, come invece ha fatto Hillary Clinton, che ha adottato accenti e maniere diversi in base alle differenti tipologie di elettorato. In questo modo, la base ha considerato il magnate autentico ed empatico. Era singolare che Trump usasse il possessivo “nostro", quando si riferiva a lavoratori, agricoltori, veterinari, ecc. Andò nel West Virginia e parlò di “bel carbone pulito"; al contrario, Hillary andò e parlò di porre fine all'industria del carbone e ai suoi lavoratori».Può descrivermi l'élite che si oppone a Trump?«Il fronte intellettuale, accademico, politico e mediatico di New York e Washington non apprezza naturalmente gli outsider, in particolare quelli che non vantano una precedente esperienza militare o politica, e che hanno fatto campagna contro la “palude" o il deep state o l'élite trincerata di Washington. Il comportamento, l'accento e l'aspetto di Trump non si adattavano ai tradizionali profili presidenziali. Il suo successo ha rappresentato una naturale accusa contro gli esperti più accreditati che non sono riusciti a ottenere un successo economico adeguato. L'élite di consulenti di entrambi i partiti si è sentita minacciata dall'agenda contro lo status quo di Trump. La sinistra ha invece capito che il magnate ha distrutto la “trasformazione fondamentale" di Obama e Hillary Clinton. Poi ci sono stati gli antitrumpisti di destra, che sono rimasti senza una ragione sensata per opporsi a ciò che un tempo sostenevano, semplicemente perché le loro bandiere sono state fatte proprie da Trump».Ritiene che Trump stia trasformando la natura del Partito repubblicano?«Sì. Va comunque ricordato che il suo messaggio è all'80% di carattere repubblicano conservatore, cioè taglio delle tasse, incremento della difesa, deregulation, conservatorismo culturale, lotta all'aborto. Tuttavia il 20% che risulta non ortodosso - la sfida alla Cina, la preferenza del commercio equo al commercio libero, la fine degli interventi militari senza vantaggio strategico - ha messo in discussione l'intero ordine del dopoguerra e l'ortodossia dottrinaria del libero mercato: il tutto, per attirare il consenso da parte di alcuni importanti Stati in bilico del Midwest che avrebbero determinato l'esito delle elezioni».Quali sono i principali risultati di Trump? E quali i suoi errori?«Tra i principali risultati cito soprattutto il bassissimo tasso di disoccupazione, la crescita del Pil, la produzione record di gas e petrolio, una politica estera realista, la nomina di giudici conservatori, la deregulation e gli sforzi per rendere più sicuri i confini. Quello che manca finora è invece la disciplina fiscale, in cui continuiamo a seguire il modello di Bush e Obama: una tendenza che - per la terza amministrazione consecutiva - è sulla buona strada per raddoppiare il debito esistente. Inoltre, Trump non lascia che i suoi grandiosi successi parlino per sé stessi. Invece si fa ogni tanto sviare da inutili battibecchi su Twitter».Trump intrattiene da sempre rapporti commerciali complicati con Europa e Cina. Qual è la sua opinione a tal proposito?«Se l'Europa abbandonasse la sua follia pavloviana anti Trump, capirebbe che gli Stati Uniti ora stanno dicendo e facendo cose nei confronti della Cina che sono nell'interesse dell'Europa e che potrebbero essere rafforzate da un fronte occidentale unito contro il ladrocinio commerciale, il colonialismo e la concorrenza sleale condotti da Pechino».Secondo lei, Trump ha effettive possibilità di essere rieletto nel 2020?«Ci sono buone possibilità per una serie di ragioni. Innanzitutto, Trump ha raggiunto ottimi risultati in economia e in politica estera. Poi, sul modello della Rivoluzione francese o magari della campagna di George McGovern nel 1972, l'opposizione del 2020 potrebbe offrire uno sgradevole programma fatto di frontiere aperte, Green new deal, infanticidi legalizzati, imposta sul patrimonio, Medicare per tutti. Inoltre, lo stile e il team amministrativo di Trump sono migliorati dal 2017 e potrebbero quindi contribuire a condurre una campagna meglio finanziata e più scaltra rispetto al 2016. Infine, in forza del suo successo economico e del suo populismo, il presidente potrebbe attrarre il voto delle minoranze: voto che i democratici - visto il loro spregevole abbandono della classe lavoratrice bianca - non possono permettersi di perdere».
Matteo Salvini e Giorgia Meloni (Ansa)
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