
The Donald sposa l’idea di Elon Musk di incrementare i visti per i lavoratori altamente specializzati e scontenta l’ala più nazionalista dei suoi sostenitori. Una mossa, però, in scia con il totem Franklin D. Roosevelt.A poche settimane dall’insediamento di Donald Trump, si è sviluppato un interessante dibattito tra le due anime dell’America First: un dibattito che riguarda i visti H-1B, quelli, cioè, riservati ai lavoratori altamente specializzati. Se l’ala imprenditoriale e ipertecnologica si dice favorevole a un loro incremento, i settori più nazionalisti del trumpismo hanno espresso contrarietà. A suonare la carica a favore di un aumento di questi visti sono stati Elon Musk e Vivek Ramaswamy, che Trump ha messo a capo del nuovo Dipartimento per l’efficienza governativa, il Doge. A esprimersi contro sono invece stati i trumpisti più tendenti al nazionalismo, come Steve Bannon e Laura Loomer. E così, dopo giorni di tensione, è stato lo stesso presidente in pectore a scendere in campo, schierandosi de facto con Musk. «Ho molti visti H-1B nelle mie proprietà. Sono sempre stato un sostenitore dell’H-1B. L’ho utilizzato molte volte. È un programma fantastico», ha affermato, prendendo in parte le distanze dalla sua precedente amministrazione che, a ottobre 2020, aveva annunciato alcune restrizioni a questi visti.La questione è complessa. E, per capirla adeguatamente, dobbiamo comprendere le ragioni delle due parti. Musk pone un tema di fondamentale importanza: la necessità per l’America di attrarre eccellenze in campi strategici come quello dell’alta tecnologia. Un discorso, questo, che non può essere derubricato semplicisticamente agli interessi privati del magante. Nel Novecento, gli Stati Uniti sono diventati tecnicamente un impero. E gli imperi storicamente tendono a cooptare menti brillanti per promuovere la propria competitività a livello geopolitico. Pensiamo soltanto al ruolo cruciale che, nella storia statunitense, hanno svolto figure come Enrico Fermi o Wernher von Braun. In tal senso, non dobbiamo trascurare i legami che il Pentagono intrattiene con varie aziende private: la stessa SpaceX di Musk vanta significativi contratti d’appalto con il Dipartimento della Difesa. In quest’ottica, per Trump, America First significa far sì che Washington possa adeguarsi alle sfide geopolitiche del futuro. Non a caso, il tycoon ha paragonato il Doge al Progetto Manhattan.Detto questo, vanno considerate anche le preoccupazioni dell’altra ala trumpista. Nel 2017, Cbs effettuò un’inchiesta in cui si dimostravano abusi del programma H-1B, perpetrati da alcune grandi aziende a discapito dei lavoratori americani. Non è d’altronde un mistero che uno dei cavalli di battaglia storici del trumpismo sia sempre stato quello di limitare gli impatti socioeconomici negativi dell’immigrazione. Inoltre, alcune frange del movimento trumpista temono che i magnati dell’alta tecnologia, schieratisi col tycoon, vogliano portare avanti politiche di ribasso salariale volte a danneggiare i colletti bianchi statunitensi. In questo senso, America First significa protezione dei lavoratori americani: dai colletti blu della Rust Belt ai lavoratori altamente specializzati.La domanda, a questo punto è: sarà possibile trovare un’armonia tra queste due anime dell’America First? C’è chi dice di no. E invece forse la risposta è sì. Del resto, pur mutatis mutandis, potrebbe venire in aiuto una figura: quella di Franklin D. Roosevelt. Fu lui a coniare l’espressione, poi ripresa da Trump, del «forgotten man». Fu lui a creare una coalizione elettorale che trovava nella working class il proprio cuore pulsante. E fu sotto la sua presidenza che, nel 1942, venne avviato il Progetto Manhattan. Le sfide che attendono Trump non sono semplici. Ma non è affatto impossibile che il presidente in pectore riesca a trovare un bilanciamento tra due esigenze che, più che opposte, potrebbero rivelarsi complementari. America First significa tanto il rilancio degli Usa sul piano geopolitico quanto la tutela della working class americana.A lasciare perplessi sono piuttosto certi giornalisti che stanno deridendo questo dibattito, parlando di uno scontro tra oligarchi e pazzoidi. Spesso si tratta degli stessi giornalisti che tifavano per Kamala Harris: una che, in quanto a sostegno oligarchico, non si faceva certo mancare niente (aveva rastrellato la bellezza di un miliardo di dollari). In secondo luogo, questi critici dovrebbero fare pace con sé stessi: prima dicevano che i trumpisti erano un branco di lobotomizzati. Adesso che stanno portando avanti un confronto serio, non va bene comunque. In realtà, quello che qualcuno non capisce è che questo dibattito dovrebbe teoricamente appartenere a quella sinistra, ormai esauritasi per inseguire un impopolare e inconcludente settarismo liberal. Piaccia o meno, è il trumpismo, oggi, a essere centrale nelle principali discussioni politiche, sociali e strategiche. Il Partito democratico, di contro, appare sempre più irrilevante. Si sta infatti progressivamente riducendo all’ombra di sé stesso.
La poetessa russa Anna Achmatova. Nel riquadro il libro di Paolo Nori Non è colpa dello specchio se le facce sono storte (Getty Images)
Nel suo ultimo libro Paolo Nori, le cui lezioni su Dostoevskij furono oggetto di una grottesca polemica, esalta i grandi della letteratura: se hanno sconfitto la censura sovietica, figuriamoci i ridicoli epigoni di casa nostra.
Obbligazionario incerto a ottobre. La Fed taglia il costo del denaro ma congela il Quantitative Tightening. Offerta di debito e rendimenti reali elevati spingono gli operatori a privilegiare il medio e il breve termine.
Alice ed Ellen Kessler nel 1965 (Getty Images)
Invece di cultura e bellezza, la Rai di quegli anni ha promosso spettacoli ammiccanti, mediocrità e modelli ipersessualizzati.
Il principe saudita Mohammad bin Salman Al Sa'ud e il presidente americano Donald Trump (Getty)
Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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