2023-02-18
«Due ore in compagnia di Troisi il mio “fratello” dal carattere duro»
Il produttore del documentario con la regia di Mario Martone sull’attore napoletano: «Massimo Troisi credette subito in me. “Ricomincio da tre” ebbe un successo paranormale. Litigò con chi gli imputava l’uso del dialetto».Domani Massimo Troisi avrebbe compiuto 70 anni, ma il destino ci ha privati della possibilità di associare il suo volto di eterno ragazzo alla terza età. La morte prematura lo ha cristallizzato per sempre. Mario Martone, che ne condivide le origini partenopee e l’amore per il teatro, lo riporta tra noi con il documentario Laggiù qualcuno mi ama, che uscirà nelle sale il 23 febbraio, dopo la presentazione al Festival di Berlino. Artefice di quest’operazione è il produttore Mauro Berardi, per anni amico inseparabile del comico.Com’è nata l’idea del documentario?«Anni fa mi dissero che c’era un attore che imitava Troisi in modo eccezionale. Io presi questa indicazione sottogamba perché ci sono tanti che lo imitano, però siccome insistevano, ho detto: “Organizziamo una cena”. Questo attore è Fabio Troiano. Rimasi esterrefatto: mi vennero i brividi a sentirlo, era perfetto, eccezionale. Mi venne in mente di fare qualcosa su Massimo e ne parlai con Anna Pavignano, la sua sceneggiatrice e compagna. Incontrò Troiano e rimase pure lei colpita da questa imitazione. Le dissi di scrivere un film con Fabio protagonista. Anna scrisse una storia, a mio parere, bellissima, ma non riuscimmo a realizzarla».Dal film mancato come si è passati al documentario?«Un giorno, nella casa al mare del mio amico Giovanni Veronesi, a Castiglione della Pescaia, passammo il weekend insieme con Fabrizio Donvito di Indiana production, il quale a un certo punto mi chiese cosa stessi facendo e io gli parlai di questo progetto, che lo incuriosì. Dopo aver tentato anche con lui di portare avanti il film, optammo per un documentario e il progetto decollò quando accettò la regia Mario Martone, al quale avevamo già proposto di dirigere il film, ma in quel momento era troppo impegnato». Martone aveva conosciuto Troisi…«Sì, andò a trovarlo a Salina, erano diventati amici e avrebbero fatto un film assieme se Massimo non fosse morto». Che taglio ha il documentario?«Martone non ha voluto intervistare i familiari e gli amici di Massimo, che avrebbero raccontato aneddoti su di lui, ma piuttosto dialogare con personaggi, come Paolo Sorrentino e Ficarra e Picone, che sono idealmente vicini a Troisi. Fondamentalmente quello che abbiamo voluto fare è di passare due ore in compagnia di Massimo, rivedendo il suo cinema e riparlando del suo lavoro e della sua vita. Cerchiamo così di renderlo attuale. Martone e Anna Pavignano hanno fatto un lavoro eccezionale».Lei come aveva conosciuto Troisi?«L’avevo visto in televisione ed ero andato in teatro per incontrarlo, ma la prima volta mi fecero parlare solo con Lello Arena. Tanti registi e produttori gli stavano addosso dopo il suo exploit televisivo. Riuscii a convincere Lello a farmelo incontrare. Avevo appena prodotto, insieme a Fulvio Lucisano, Arrivano i bersaglieri di Luigi Magni. Durante le riprese Magni disse che voleva fare un film su Masaniello e io gli proposi: “Allora prendiamo Troisi”. Quindi lo contattai per questo progetto, anche se Magni non credeva in Massimo e non mi dava retta».Come fu l’incontro con Troisi?«Lui credette subito in me. La cosa che lo colpì è che avevo prodotto Casotto di Sergio Citti, un film di cui era innamorato, quindi mi diede ascolto per questa ragione. A un certo punto il progetto di Masaniello non si metteva in moto e allora gli dissi: “Massimo, scrivi un soggetto e ti faccio debuttare alla regia”. Era il periodo di Carlo Verdone che aveva avuto un grande successo con Un sacco bello. “Prendiamo un direttore della fotografia in gamba (Sergio D’Offizi, ndr) e vediamo se ci riusciamo». Proposi a Lucisano di produrlo insieme e lui fu intelligente a venirmi dietro. Così nacque Ricomincio da tre».Il film ebbe un successo incredibile.«Non incredibile, paranormale! La gente lo vedeva cinque-sei volte perché cercava di capire bene quello che diceva. Una volta pronta la sceneggiatura, erano subito iniziate le avversità verso il fatto che il suo personaggio parlasse in napoletano stretto. Lucisano era furioso per questa cosa: “Digli di parlare un po’ più in italiano”. Lo accennai a Massimo, ma lui non ne volle sapere: “Io parlo così, voglio fare in questo modo”». Alla fine il problema della lingua aiutò il film, creando curiosità?«Lo aiutò moltissimo, tranne a Padova, dove non fece una lira! Dopo quel successo, andammo in America, in una sorta di vacanza-premio, e venne con noi la moglie di Lucisano che parlava l’inglese perché Massimo non lo sapeva, io così così».Lucisano non venne?«No, non venne, anche perché, una volta finito il film, erano cominciati i malumori contro di lui da parte di Massimo, che questa cosa del napoletano non l’aveva digerita. Non volle più lavorare con lui». Decise di andare avanti solo con lei?«Solo con me. Questa è stata la sua grandezza nei miei confronti, cosa che non hanno fatto altri registi che ho aiutato a debuttare».In America cosa avete fatto?«Visitammo parecchie città, fino ad arrivare a Disneyland. Superato il cancello di ingresso, dove la gente entrava dentro a frotte, prima di arrivare alle attrazioni c’era un giardinetto. Massimo si sedette su una panchina e non si mosse da lì per tutta la giornata. A un certo punto tornai indietro e mi misi accanto a lui: “Che stai a fare seduto da solo su ’sta panchina, a Disneyland?”. Non se le sentiva fisicamente e gli era sfiorita pure la voglia di capire cosa ci fosse al di là del giardinetto: “Tanto so’ marionette!”».Poi avete fatto Scusate il ritardo, titolo dettato dall’attesa dopo l’esordio trionfale di Ricomincio da tre.«Aveva avuto questo grande successo e diceva: “Stiamo calmi”. Mettere in piedi un film è impegnativo, poi lui faceva anche gli spettacoli in giro per l’Italia, quindi doveva preparare gli sketches».Lei entrava nel merito della sceneggiatura?«Sono sempre entrato anche sul set e nel montaggio. In Non ci resta che piangere la lettera a Savonarola Massimo e Roberto Benigni non la volevano girare perché sembrava troppo simile a quella di Totò e Peppino De Filippo. Gli dissi: “Voi giratela comunque, anche se non la volete montare” e l’hanno girata. Ma non avevano bisogno di tanti consigli perché sapevano tutto, quindi non c’era molto da dire».Com’era nato Non ci resta che piangere?«Massimo e Roberto erano molti amici e ci vedevamo spesso insieme. Decisero loro due di girarlo e diedero a me l’opportunità di fare il produttore del film, insieme a Ettore Rosboch, che era il produttore di fiducia di Benigni, una persona meravigliosa. Pensa che il finale, con Leonardo da Vinci che arriva col treno e dice: “33, 33 e 33”, l’abbiamo girato due mesi dopo che avevamo finito le riprese perché non avevano ancora trovato il finale giusto».Fu un trionfo leggendario. In quel momento lei e il suo ex socio Gianfranco Piccioli avevate in mano mezzo cinema italiano, lei Troisi e lui Francesco Nuti…«Gianfranco ha fatto un bel lavoro su Nuti, sono stati fortunati e intelligenti tutti e due. Ero stato io a lanciarmi su Francesco, andando a vederlo a teatro con Lucisano, poi capii che c’era un po’ di gelosia con Massimo e glielo passai a Piccioli. Gianfranco è morto qualche mese fa: è un dolore che mi porto ancora addosso. Siamo cresciuti assieme a Ostia. Facevamo i bagnini! Pensa che Non ci resta che piangere fu distribuito da Paolo Ferrari, che quando eravamo ragazzi era il direttore del Drive-in a Casal Palocco. Per pagare meno biglietti, ci nascondevamo nel portabagagli della macchina, poi, una volta entrati, uscivamo a uno a uno!».Le strade con Massimo si sono divise fatalmente con Le vie del Signore sono finite. «Bel film, meno comico, un po’ cupo».Aveva capito che era un film meno commerciale?«No, avevo capito che c’era un po’ una fase calante di Massimo, nelle idee, nella scrittura. Benigni mi aveva chiamato a produrre il Piccolo diavolo e nacque un po’ di disaccordo tra me e Massimo».Cosa le disse Troisi?«Niente. Non andavamo più d’accordo su certe cose riguardanti il nostro lavoro e sfiorì questa grande amicizia e collaborazione. Succede spesso nel cinema: si lavora insieme per anni, poi la situazione si sfalda perché nel cinema nascono mille dubbi».Avevate una società assieme…«Sì, l’Esterno Mediterraneo film. Mi sono tirato fuori ed è passata a Massimo e al suo amico Gaetano Daniele. Di questo passaggio io ho sempre parlato con Gaetano, con Massimo mai. È stato brutto».Per un periodo non vi siete più frequentati?«Non ci siamo più frequentati fino alla sua morte. Massimo, quando decideva una cosa, era durissimo. L’ho incontrato a Venezia quando vinse la Coppa Volpi per Che ora è di Ettore Scola (con Marcello Mastroianni nell’edizione del 1989 della Mostra del Cinema di Venezia, ndr) e mi misi a piangere. Ci stringemmo a vicenda. Io non ho mai litigato con lui, anche perché Massimo non litigava: chiudeva i rapporti. Lo ha fatto con tanti. Poi non l’ho più visto fino alla sua morte».Come seppe la notizia?«Lo seppi dalla radio o dalla televisione. Ero a Parigi, presi un aereo e tornai subito a Roma. Andai subito nella casa all’Infernetto dove era morto. Sapevo che stava male, nell’ambiente erano girate delle voci. Gli ho voluto molto bene, ce l’ho ancora impresso nel cuore: mi manca come un fratello perché così mi ha trattato lui. Da fratelli siamo stati assieme per anni, dalla mattina alla sera. Abbiamo fatto di tutto».I suoi familiari li ha conosciuti? «Tutti. Mi vogliono ancora bene. A Napoli conobbi anche suo padre, un vecchio ferroviere, con una saggezza sua, un uomo all’antica ma amabile. Massimo diceva che una delle sorelle era molto più comica di lui, ma non voleva fare niente. Il senso dell’humour evidentemente ce l’avevano nel sangue».
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo
Sempre più risparmiatori scelgono i Piani di accumulo del capitale in fondi scambiati in borsa per costruire un capitale con costi chiari e trasparenti. A differenza dei fondi tradizionali, dove le commissioni erodono i rendimenti, gli Etf offrono efficienza e diversificazione nel lungo periodo.
Il risparmio gestito non è più un lusso per pochi, ma una realtà accessibile a un numero crescente di investitori. In Europa si sta assistendo a una vera e propria rivoluzione, con milioni di risparmiatori che scelgono di investire attraverso i Piani di accumulo del capitale (Pac). Questi piani permettono di mettere da parte piccole somme di denaro a intervalli regolari e il Pac si sta affermando come uno strumento essenziale per chiunque voglia crearsi una "pensione di scorta" in modo semplice e trasparente, con costi chiari e sotto controllo.
«Oggi il risparmio gestito è alla portata di tutti, e i numeri lo dimostrano: in Europa, gli investitori privati detengono circa 266 miliardi di euro in etf. E si prevede che entro la fine del 2028 questa cifra supererà i 650 miliardi di euro», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert SCF. Questo dato conferma la fiducia crescente in strumenti come gli etf, che rappresentano l'ossatura perfetta per un PAC che ha visto in questi anni soprattutto dalla Germania il boom di questa formula. Si stima che quasi 11 milioni di piani di risparmio in Etf, con un volume di circa 17,6 miliardi di euro, siano già attivi, e si prevede che entro il 2028 si arriverà a 32 milioni di piani.
Uno degli aspetti più cruciali di un investimento a lungo termine è il costo. Spesso sottovalutato, può erodere gran parte dei rendimenti nel tempo. La scelta tra un fondo con costi elevati e un Etf a costi ridotti può fare la differenza tra il successo e il fallimento del proprio piano di accumulo.
«I nostri studi, e il buon senso, ci dicono che i costi contano. La maggior parte dei fondi comuni, infatti, fallisce nel battere il proprio indice di riferimento proprio a causa dei costi elevati. Siamo di fronte a una realtà dove oltre il 90% dei fondi tradizionali non riesce a superare i propri benchmark nel lungo periodo, a causa delle alte commissioni di gestione, che spesso superano il 2% annuo, oltre a costi di performance, ingresso e uscita», sottolinea Gaziano.
Gli Etf, al contrario, sono noti per la loro trasparenza e i costi di gestione (Ter) che spesso non superano lo 0,3% annuo. Per fare un esempio pratico che dimostra il potere dei costi, ipotizziamo di investire 200 euro al mese per 30 anni, con un rendimento annuo ipotizzato del 7%. Due gli scenari. Il primo (fondo con costi elevati): con un costo di gestione annuo del 2%, il capitale finale si aggirerebbe intorno ai 167.000 euro (al netto dei costi). Il secondo (etf a costi ridotti): Con una spesa dello 0,3%, il capitale finale supererebbe i 231.000 euro (al netto dei costi).
Una differenza di quasi 64.000 euro che dimostra in modo lampante come i costi incidano profondamente sul risultato finale del nostro Pac. «È fondamentale, quando si valuta un investimento, guardare non solo al rendimento potenziale, ma anche e soprattutto ai costi. È la variabile più facile da controllare», afferma Salvatore Gaziano.
Un altro vantaggio degli Etf è la loro naturale diversificazione. Un singolo etf può raggruppare centinaia o migliaia di titoli di diverse aziende, settori e Paesi, garantendo una ripartizione del rischio senza dover acquistare decine di strumenti diversi. Questo evita di concentrare il proprio capitale su settori «di moda» o troppo specifici, che possono essere molto volatili.
Per un Pac, che per sua natura è un investimento a lungo termine, è fondamentale investire in un paniere il più possibile ampio e diversificato, che non risenta dei cicli di mercato di un singolo settore o di un singolo Paese. Gli Etf globali, ad esempio, che replicano indici come l'Msci World, offrono proprio questa caratteristica, riducendo il rischio di entrare sul mercato "al momento sbagliato" e permettendo di beneficiare della crescita economica mondiale.
La crescente domanda di Pac in Etf ha spinto banche e broker a competere offrendo soluzioni sempre più convenienti. Oggi, è possibile costruire un piano di accumulo con commissioni di acquisto molto basse, o addirittura azzerate. Alcuni esempi? Directa: È stata pioniera in Italia offrendo un Pac automatico in Etf con zero costi di esecuzione su una vasta lista di strumenti convenzionati. È una soluzione ideale per chi vuole avere il pieno controllo e agire in autonomia. Fineco: Con il servizio Piano Replay, permette di creare un Pac su Etf con la possibilità di ribilanciamento automatico. L'offerta è particolarmente vantaggiosa per gli under 30, che possono usufruire del servizio gratuitamente. Moneyfarm: Ha recentemente lanciato il suo Pac in Etf automatico, che si aggiunge al servizio di gestione patrimoniale. Con versamenti a partire da 10 euro e commissioni di acquisto azzerate, si posiziona come una valida alternativa per chi cerca semplicità e automazione.
Ma sono sempre più numerose le banche e le piattaforme (Trade Republic, Scalable, Revolut…) che offrono la possibilità di sottoscrivere dei Pac in etf o comunque tutte consentono di negoziare gli etf e naturalmente un aspetto importante prima di sottoscrivere un pac è valutare i costi sia dello strumento sottostante che quelli diretti e indiretti come spese fisse o di negoziazione.
La scelta della piattaforma dipende dalle esigenze di ciascuno, ma il punto fermo rimane l'importanza di investire in strumenti diversificati e con costi contenuti. Per un investimento di lungo periodo, è fondamentale scegliere un paniere che non sia troppo tematico o «alla moda» secondo SoldiExpert SCF ma che rifletta una diversificazione ampia a livello di settori e Paesi. Questo è il miglior antidoto contro la volatilità e le mode del momento.
«Come consulenti finanziari indipendenti ovvero soggetti iscritti all’Albo Ocf (obbligatorio per chi in Italia fornisce consigli di investimento)», spiega Gaziano, «forniamo un’ampia consulenza senza conflitti di interesse (siamo pagati solo a parcella e non riceviamo commissioni sui prodotti o strumenti consigliati) a piccoli e grandi investitore e supportiamo i clienti nella scelta del Pac migliore a partire dalla scelta dell’intermediario e poi degli strumenti migliori o valutiamo se già sono stati attivati dei Pac magari in fondi di investimento se superano la valutazione costi-benefici».
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