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2025-10-31
Meno dazi, più terre rare: tregua Usa-Cina
Donald Trump e Xi Jinping (Ansa)
È scoppiata la pace tra Stati Uniti e Cina? Forse sì, forse no. Se vogliamo, potremmo magari parlare di una «tregua armata». Ieri, a Busan, Donald Trump ha avuto un incontro con Xi Jinping. Il faccia a faccia, definito dallo stesso Trump come «veramente grandioso», si è protratto per due ore circa. «Abbiamo un accordo. Ora, ogni anno lo rinegozieremo, ma credo che durerà a lungo. Si tratta di un accordo di un anno e lo prorogheremo dopo un altro anno», ha dichiarato l’inquilino della Casa Bianca dopo il meeting, annunciando che visiterà la Cina in aprile. Ma che cosa prevede l’intesa raggiunta?
Pechino ha innanzitutto revocato le proprie restrizioni all’export di terre rare. «Quell’ostacolo è stato rimosso. Non c’è più alcun ostacolo sulle terre rare. Speriamo che sparisca dal nostro vocabolario per un po’», ha affermato Trump, il quale, dal canto suo, ha sospeso per un anno le tasse portuali speciali che colpiscono le navi cinesi che attraccano nei porti statunitensi. Dall’altra parte, secondo la Cnn, sembrerebbe che, almeno per ora, Washington non si sia formalmente impegnata ad allentare in modo sostanziale le proprie restrizioni all’esportazione di materiale altamente tecnologico verso la Cina. «Abbiamo discusso di chip e i cinesi parleranno con Nvidia e altri della possibilità di prendere i chip», ha affermato un po’ evasivamente Trump, precisando di non aver parlato con Xi di Blackwell: il microchip di Nvidia, il cui è export è sotto restrizioni da parte di Washington per ragioni di sicurezza nazionale.
In tutto questo, l’inquilino della Casa Bianca ha abbassato i dazi imposti alla Cina per la questione del fentanyl, portando l’aliquota complessiva delle tariffe contro il Dragone dal 57% al 47%. Nel frattempo, il segretario al Tesoro americano, Scott Bessent, ha reso noto che Pechino si è impegnata ad acquistare dodici milioni di tonnellate di soia statunitense nel breve termine e 25 milioni all’anno nell’arco del prossimo triennio. «A Kuala Lumpur abbiamo finalizzato l’accordo su TikTok per ottenere l’approvazione cinese e mi aspetto che ciò avvenga nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, e che finalmente vedremo una soluzione», ha anche affermato Bessent, specificando inoltre che l’accordo tra Stati Uniti e Cina verrà firmato «probabilmente già la prossima settimana».
Venendo invece alle questioni geopolitiche, Trump ha riferito che, durante il colloquio con Xi, il dossier di Taiwan «non è stato sollevato». I due presidenti non hanno parlato neanche del petrolio russo: un argomento spinoso, soprattutto dopo le recenti sanzioni che Washington ha imposto a Lukoil e Rosneft. Ricordiamo infatti che Pechino è il principale acquirente di petrolio da Mosca. Dall’altra parte, Trump ha raccontato che, nel corso del faccia a faccia, la questione ucraina è stata sollevata «con molta forza». «Lavoreremo entrambi insieme per vedere se possiamo ottenere qualcosa», ha detto, per poi aggiungere: «Siamo d’accordo sul fatto che le parti sono bloccate, combattono, e a volte bisogna lasciarle combattere, immagino. Pazzesco. Ma lui ci aiuterà e lavoreremo insieme sull’Ucraina».
Insomma, l’accordo tra Stati Uniti e Cina c’è. Ma, come detto, somiglia più a una tregua che a una pace vera e propria. D’altronde, al netto del parziale disgelo commerciale con Pechino, Trump, durante il suo tour asiatico, ha fatto chiaramente capire di continuare a vedere nel Dragone il rivale sistemico degli Usa. Non a caso, ha rafforzato i legami con Tokyo e Seul (anche) in funzione anticinese. Ha inoltre consolidato l’influenza americana sul Sudest asiatico, per contenderla a Pechino. Tutto questo, mentre, ieri, poco prima del vertice con Xi, il presidente americano ha ordinato al Pentagono «di iniziare a testare le nostre armi nucleari su base paritaria». «Tale processo inizierà immediatamente», ha aggiunto. «A causa dell’enorme potere distruttivo, odiavo farlo, ma non avevo scelta! La Russia è la seconda e la Cina è la terza, ma entro cinque anni ci raggiungerà», ha anche detto. È dal 1992 che gli Stati Uniti non effettuano test nucleari, prima che l’allora presidente George H. W. Bush annunciasse una moratoria al riguardo. Secondo Reuters, quello di Trump è stato un messaggio rivolto tanto a Xi quanto a Vladimir Putin. Pechino ha infatti raddoppiato il suo arsenale negli ultimi cinque anni, mentre Mosca ha recentemente testato un nuovo missile da crociera a propulsione nucleare.
Tutto questo chiarisce come, nell’ottica di Trump, la competizione geopolitica con la Cina resti prioritaria. La politica di potenza è ormai tornata in auge. E il presidente americano è deciso a incrementare la capacità di deterrenza degli Stati Uniti nei confronti tanto di Pechino quanto di Mosca. Non a caso, ieri, sia la Cina che la Russia hanno reagito con una certa irritazione all’annuncio del presidente americano sui test nucleari. «Se qualcuno abbandona la moratoria sui test nucleari, la Russia agirà di conseguenza», ha dichiarato il Cremlino, mentre il ministero degli Esteri cinese ha affermato che «la Cina spera che gli Stati Uniti rispettino seriamente gli obblighi del trattato sulla messa al bando totale dei test nucleari e il loro impegno a vietare i test nucleari». Al momento, è la Russia a detenere il principale arsenale nucleare al mondo, mentre quello degli Stati Uniti è leggermente inferiore. La Cina è invece al terzo posto ma sta guadagnando rapidamente terreno. La tregua commerciale di Busan, insomma, è senza dubbio importante. Ma il duello tra Washington e Pechino non si è affatto fermato.
Mosca osserva, l’Europa ottimista. «Ma non è una svolta strutturale»
L’incontro tra Donald Trump e Xi Jinping, tenutosi la notte del 29 ottobre a Busan, ha segnato un primo allentamento nella lunga tensione commerciale tra Stati Uniti e Cina. Una tregua, come l’ha definita lo stesso Trump, «un grande successo». Ma dietro i sorrisi e i comunicati ottimistici, la diplomazia internazionale resta cauta: nessuno, tra i leader occidentali, crede a una svolta definitiva. Il cancelliere tedesco Friedrich Merz, da Ankara con Recep Tayyip Erdogan, ha accolto la notizia con prudenza. «Posso offrire solo una valutazione preliminare», ha detto, auspicando «una disputa commerciale più pacifica». La Germania, potenza esportatrice, è tra le più colpite dalle tensioni tra Washington e Pechino: «Siamo direttamente interessati dalle decisioni cinesi, soprattutto sulle esportazioni di materie prime», ha ricordato. Da Firenze, la presidente della Bce Christine Lagarde ha parlato di «progressi che mitigano i rischi al ribasso della crescita», pur avvertendo che «l’incertezza del commercio globale resta un fattore di vulnerabilità». Da Mosca, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha osservato che «un incontro tra Putin e Xi non è attualmente previsto, ma può essere organizzato rapidamente», segno che il Cremlino monitora la dinamica a tre tra Pechino, Washington e Mosca. Il commissario europeo al Commercio Maros Sefcovic ha avvertito che l’intesa «avrà implicazioni dirette per l’Ue», spiegando di essere «in costante contatto con il segretario Usa Howard Lutnick». Obiettivo: «Gestire un partenariato sempre più sfidante con la Cina, soprattutto sulle terre rare». Dalla Commissione, il portavoce Olof Gill ha dichiarato: «Accogliamo con favore ogni sviluppo che rimuova barriere ai flussi commerciali». Domani a Bruxelles sono previsti colloqui tecnici tra delegazioni Ue e cinesi. In Italia, Lorenzo Riccardi, presidente della Camera di commercio italiana in Cina, ha sottolineato come «l’intesa riduca le incertezze geopolitiche e agevoli le esportazioni e gli investimenti». Settori come meccanica strumentale e lusso, ha aggiunto, «potranno beneficiare di un contesto più stabile e prevedibile». Ma è l’ambasciatore Ettore Sequi, già segretario generale della Farnesina, a offrire la lettura più lucida: «Tra Trump e Xi c’è una tregua tattica, non una svolta strutturale». Sull’isola, osserva, «l’elefante fuori dalla stanza è stato Taiwan: non ne hanno parlato, e questo ha aiutato il clima dell’incontro. Ma l’elefante resta lì». Infine, un dettaglio passato quasi inosservato: «Il riferimento di Trump alla ripresa dei test nucleari ha rafforzato la diffidenza cinese sulle intenzioni americane», conclude Sequi, «È un segnale che rende difficile separare il canale commerciale da quello strategico». Da Washington arrivano le parole più dure del leader democratico Chuck Schumer, che demolisce la narrativa trionfale di Trump: «Non c’è nessuna vittoria per l’America. Trump si è inchinato davanti a Xi». Sul fronte del fentanyl, accusa, «non si è assicurato azioni chiare da parte della Cina per fermare il traffico di sostanze chimiche». Ma il colpo più pesante riguarda l’accordo sui chip: «Non è America First, ma China First. Trump consegna a Pechino le chiavi dell’intelligenza artificiale dei prossimi anni». Insomma, la stretta di mano di Busan sembra più un cessate il fuoco temporaneo che un trattato di pace. Una tregua tattica, utile a entrambe le potenze per tirare il fiato e ricordare che, tra Washington e Pechino, ogni concessione ha sempre un prezzo.
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Vertice distensivo in Corea del Sud, il tycoon riduce al 47% le imposte sui beni del Dragone in America. L’omologo comunista toglie le restrizioni sull’export di minerali. E si impegna ad acquistare soia. Resta il nodo sui chip. «Accordo di almeno un anno».L’ambasciatore Ettore Sequi è prudente: «Clima sereno perché ai tavoli mancava Taiwan».Lo speciale contiene due articoli.È scoppiata la pace tra Stati Uniti e Cina? Forse sì, forse no. Se vogliamo, potremmo magari parlare di una «tregua armata». Ieri, a Busan, Donald Trump ha avuto un incontro con Xi Jinping. Il faccia a faccia, definito dallo stesso Trump come «veramente grandioso», si è protratto per due ore circa. «Abbiamo un accordo. Ora, ogni anno lo rinegozieremo, ma credo che durerà a lungo. Si tratta di un accordo di un anno e lo prorogheremo dopo un altro anno», ha dichiarato l’inquilino della Casa Bianca dopo il meeting, annunciando che visiterà la Cina in aprile. Ma che cosa prevede l’intesa raggiunta?Pechino ha innanzitutto revocato le proprie restrizioni all’export di terre rare. «Quell’ostacolo è stato rimosso. Non c’è più alcun ostacolo sulle terre rare. Speriamo che sparisca dal nostro vocabolario per un po’», ha affermato Trump, il quale, dal canto suo, ha sospeso per un anno le tasse portuali speciali che colpiscono le navi cinesi che attraccano nei porti statunitensi. Dall’altra parte, secondo la Cnn, sembrerebbe che, almeno per ora, Washington non si sia formalmente impegnata ad allentare in modo sostanziale le proprie restrizioni all’esportazione di materiale altamente tecnologico verso la Cina. «Abbiamo discusso di chip e i cinesi parleranno con Nvidia e altri della possibilità di prendere i chip», ha affermato un po’ evasivamente Trump, precisando di non aver parlato con Xi di Blackwell: il microchip di Nvidia, il cui è export è sotto restrizioni da parte di Washington per ragioni di sicurezza nazionale.In tutto questo, l’inquilino della Casa Bianca ha abbassato i dazi imposti alla Cina per la questione del fentanyl, portando l’aliquota complessiva delle tariffe contro il Dragone dal 57% al 47%. Nel frattempo, il segretario al Tesoro americano, Scott Bessent, ha reso noto che Pechino si è impegnata ad acquistare dodici milioni di tonnellate di soia statunitense nel breve termine e 25 milioni all’anno nell’arco del prossimo triennio. «A Kuala Lumpur abbiamo finalizzato l’accordo su TikTok per ottenere l’approvazione cinese e mi aspetto che ciò avvenga nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, e che finalmente vedremo una soluzione», ha anche affermato Bessent, specificando inoltre che l’accordo tra Stati Uniti e Cina verrà firmato «probabilmente già la prossima settimana».Venendo invece alle questioni geopolitiche, Trump ha riferito che, durante il colloquio con Xi, il dossier di Taiwan «non è stato sollevato». I due presidenti non hanno parlato neanche del petrolio russo: un argomento spinoso, soprattutto dopo le recenti sanzioni che Washington ha imposto a Lukoil e Rosneft. Ricordiamo infatti che Pechino è il principale acquirente di petrolio da Mosca. Dall’altra parte, Trump ha raccontato che, nel corso del faccia a faccia, la questione ucraina è stata sollevata «con molta forza». «Lavoreremo entrambi insieme per vedere se possiamo ottenere qualcosa», ha detto, per poi aggiungere: «Siamo d’accordo sul fatto che le parti sono bloccate, combattono, e a volte bisogna lasciarle combattere, immagino. Pazzesco. Ma lui ci aiuterà e lavoreremo insieme sull’Ucraina».Insomma, l’accordo tra Stati Uniti e Cina c’è. Ma, come detto, somiglia più a una tregua che a una pace vera e propria. D’altronde, al netto del parziale disgelo commerciale con Pechino, Trump, durante il suo tour asiatico, ha fatto chiaramente capire di continuare a vedere nel Dragone il rivale sistemico degli Usa. Non a caso, ha rafforzato i legami con Tokyo e Seul (anche) in funzione anticinese. Ha inoltre consolidato l’influenza americana sul Sudest asiatico, per contenderla a Pechino. Tutto questo, mentre, ieri, poco prima del vertice con Xi, il presidente americano ha ordinato al Pentagono «di iniziare a testare le nostre armi nucleari su base paritaria». «Tale processo inizierà immediatamente», ha aggiunto. «A causa dell’enorme potere distruttivo, odiavo farlo, ma non avevo scelta! La Russia è la seconda e la Cina è la terza, ma entro cinque anni ci raggiungerà», ha anche detto. È dal 1992 che gli Stati Uniti non effettuano test nucleari, prima che l’allora presidente George H. W. Bush annunciasse una moratoria al riguardo. Secondo Reuters, quello di Trump è stato un messaggio rivolto tanto a Xi quanto a Vladimir Putin. Pechino ha infatti raddoppiato il suo arsenale negli ultimi cinque anni, mentre Mosca ha recentemente testato un nuovo missile da crociera a propulsione nucleare.Tutto questo chiarisce come, nell’ottica di Trump, la competizione geopolitica con la Cina resti prioritaria. La politica di potenza è ormai tornata in auge. E il presidente americano è deciso a incrementare la capacità di deterrenza degli Stati Uniti nei confronti tanto di Pechino quanto di Mosca. Non a caso, ieri, sia la Cina che la Russia hanno reagito con una certa irritazione all’annuncio del presidente americano sui test nucleari. «Se qualcuno abbandona la moratoria sui test nucleari, la Russia agirà di conseguenza», ha dichiarato il Cremlino, mentre il ministero degli Esteri cinese ha affermato che «la Cina spera che gli Stati Uniti rispettino seriamente gli obblighi del trattato sulla messa al bando totale dei test nucleari e il loro impegno a vietare i test nucleari». Al momento, è la Russia a detenere il principale arsenale nucleare al mondo, mentre quello degli Stati Uniti è leggermente inferiore. La Cina è invece al terzo posto ma sta guadagnando rapidamente terreno. La tregua commerciale di Busan, insomma, è senza dubbio importante. Ma il duello tra Washington e Pechino non si è affatto fermato.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/tregua-usa-cina-2674252090.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="mosca-osserva-leuropa-ottimista-ma-non-e-una-svolta-strutturale" data-post-id="2674252090" data-published-at="1761857974" data-use-pagination="False"> Mosca osserva, l’Europa ottimista. «Ma non è una svolta strutturale» L’incontro tra Donald Trump e Xi Jinping, tenutosi la notte del 29 ottobre a Busan, ha segnato un primo allentamento nella lunga tensione commerciale tra Stati Uniti e Cina. Una tregua, come l’ha definita lo stesso Trump, «un grande successo». Ma dietro i sorrisi e i comunicati ottimistici, la diplomazia internazionale resta cauta: nessuno, tra i leader occidentali, crede a una svolta definitiva. Il cancelliere tedesco Friedrich Merz, da Ankara con Recep Tayyip Erdogan, ha accolto la notizia con prudenza. «Posso offrire solo una valutazione preliminare», ha detto, auspicando «una disputa commerciale più pacifica». La Germania, potenza esportatrice, è tra le più colpite dalle tensioni tra Washington e Pechino: «Siamo direttamente interessati dalle decisioni cinesi, soprattutto sulle esportazioni di materie prime», ha ricordato. Da Firenze, la presidente della Bce Christine Lagarde ha parlato di «progressi che mitigano i rischi al ribasso della crescita», pur avvertendo che «l’incertezza del commercio globale resta un fattore di vulnerabilità». Da Mosca, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha osservato che «un incontro tra Putin e Xi non è attualmente previsto, ma può essere organizzato rapidamente», segno che il Cremlino monitora la dinamica a tre tra Pechino, Washington e Mosca. Il commissario europeo al Commercio Maros Sefcovic ha avvertito che l’intesa «avrà implicazioni dirette per l’Ue», spiegando di essere «in costante contatto con il segretario Usa Howard Lutnick». Obiettivo: «Gestire un partenariato sempre più sfidante con la Cina, soprattutto sulle terre rare». Dalla Commissione, il portavoce Olof Gill ha dichiarato: «Accogliamo con favore ogni sviluppo che rimuova barriere ai flussi commerciali». Domani a Bruxelles sono previsti colloqui tecnici tra delegazioni Ue e cinesi. In Italia, Lorenzo Riccardi, presidente della Camera di commercio italiana in Cina, ha sottolineato come «l’intesa riduca le incertezze geopolitiche e agevoli le esportazioni e gli investimenti». Settori come meccanica strumentale e lusso, ha aggiunto, «potranno beneficiare di un contesto più stabile e prevedibile». Ma è l’ambasciatore Ettore Sequi, già segretario generale della Farnesina, a offrire la lettura più lucida: «Tra Trump e Xi c’è una tregua tattica, non una svolta strutturale». Sull’isola, osserva, «l’elefante fuori dalla stanza è stato Taiwan: non ne hanno parlato, e questo ha aiutato il clima dell’incontro. Ma l’elefante resta lì». Infine, un dettaglio passato quasi inosservato: «Il riferimento di Trump alla ripresa dei test nucleari ha rafforzato la diffidenza cinese sulle intenzioni americane», conclude Sequi, «È un segnale che rende difficile separare il canale commerciale da quello strategico». Da Washington arrivano le parole più dure del leader democratico Chuck Schumer, che demolisce la narrativa trionfale di Trump: «Non c’è nessuna vittoria per l’America. Trump si è inchinato davanti a Xi». Sul fronte del fentanyl, accusa, «non si è assicurato azioni chiare da parte della Cina per fermare il traffico di sostanze chimiche». Ma il colpo più pesante riguarda l’accordo sui chip: «Non è America First, ma China First. Trump consegna a Pechino le chiavi dell’intelligenza artificiale dei prossimi anni». Insomma, la stretta di mano di Busan sembra più un cessate il fuoco temporaneo che un trattato di pace. Una tregua tattica, utile a entrambe le potenze per tirare il fiato e ricordare che, tra Washington e Pechino, ogni concessione ha sempre un prezzo.
(Getty Images)
Lo so che vi ho già raccontato l’incredibile sentenza di cui sono vittima in quanto direttore di Panorama, ma passato il giorno e la sorpresa per la condanna, mi rendo conto che le querele minacciano la libertà di stampa più di quanto possa fare la politica o un editore. Può un sostantivo valere 80.000 euro? Può il diritto di critica verso operazioni dichiaratamente politiche essere negato con sanzioni pecuniarie? È evidente che nessuno degli attori dell’azione giudiziaria ha avuto un danno reputazionale, perché non è stato accusato di alcun orrendo delitto e ha potuto continuare a operare liberamente come prima e forse più di prima. E allo stesso tempo è lampante la sproporzione fra una critica e il risarcimento disposto in favore di chi non era neppure chiamato in causa, perché il suo nome non compariva sulla copertina del settimanale. Di questo passo, se io critico le aziende farmaceutiche per le procedure poco trasparenti sui vaccini, legittimo tutte le imprese del mondo che si occupano di sieri a fare causa, come ad esempio ha fatto una Ong tedesca, il cui rappresentante neppure parla l’italiano.
Tanto per farvi comprendere quanto sia assurdo ciò che è capitato, pensate che per ingiusta detenzione lo Stato riconosce a un innocente messo in galera 235,82 euro per ogni giorno passato dietro le sbarre. Una parola ritenuta fuori posto come «pirata» e perciò giudicata diffamatoria, pur se espressa una sola volta in una edizione, è stata invece sanzionata con 10.000 euro a testa in favore dei querelanti, più spese legali, con il risultato che il risarcimento assomma a oltre 80.000 euro, ovvero molto di più di quanto può incassare un povero cristo che si è visto mettere in prigione per un anno, avendo la vita e la reputazione rovinata prima di essere riconosciuto innocente.
Per incassare 80.000 euro Panorama deve vendere 30.000 copie in più rispetto a quelle che settimanalmente vengono acquistate all’edicola. Ed è abbastanza facile capire che bastano alcune sentenze come quella emessa dal tribunale per mandare in fallimento una testata. I giornali vivono di ciò che vendono, non dei soldi che incassano dalle querele. Anche quando viene data loro ragione, nessuno li risarcisce per la denuncia temeraria. Se va bene si vedono riconosciute le spese legali, che a volte non riescono a coprire l’intera parcella degli avvocati.
È questa la vera minaccia alla libertà di stampa, questo il bavaglio che si cerca di imporre a chi canta fuori dal coro. Il risultato è che gran parte dei giornali annacqua notizie e giudizi decidendo spesso di non pubblicare quelli scomodi. Sapete quante volte mi è capitato di sentirmi dire da colleghi che lavorano in altre testate: beati voi che potete scrivere liberamente, senza avere i limiti imposti dagli editori, dalle relazioni politiche e pure dalle minacce delle sentenze? Molte. Però non so in che cosa consista la nostra beatitudine, forse nell’incoscienza di non volerci fare imporre la mordacchia. Sta di fatto che per noi vale una regola semplice: pubblichiamo tutto, anche quello che gli altri preferiscono nascondere. E diciamo ciò che pensiamo, senza imbarazzi e senza censure. È successo con i vaccini e con il green pass e di recente con le frasi del consigliere di Sergio Mattarella che auspicava un «provvidenziale scossone» per cambiare la situazione politica. Succederà ancora. Perché come La Verità anche Panorama è un vascello corsaro, che non ha paura di chiamare le cose con il loro nome e non si fa fermare da chi vorrebbe impedirci di scriverle.
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Matteo Salvini e Galeazzo Bignami (Ansa)
Scende in campo in prima persona il leader della Lega, Matteo Salvini, vicepremier e ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti: «Solidarietà a Panorama e al direttore Maurizio Belpietro», sottolinea Salvini, «condannati per aver detto la verità sulle Ong. La libertà di stampa e di opinione sono sacre e non possono essere imbavagliate: faremo tutto il possibile per aiutare Panorama e la sua redazione». Dal Carroccio arrivano numerose prese di posizione: «Il Tribunale di Milano», argomenta il deputato Igor Iezzi, «ha condannato Maurizio Belpietro e Panorama a risarcire, con 80.000 euro, sette Ong per diffamazione. Il motivo? Un titolo di copertina dove venivano definiti “I nuovi pirati”. Siamo alla follia. Al direttore e al settimanale la nostra piena solidarietà. Siamo certi che gli italiani non si siano dimenticati le dichiarazioni dei vari Casarini e Rackete che poco hanno a che vedere con la legalità e molto con un approccio da “corsaro”. Per la Lega la stampa deve essere libera, e si schiererà sempre contro chi vuole imbavagliarla, soprattutto quando ad essere imbavagliati sono sempre i giornalisti che non si schierano a sinistra». «Esprimo la mia convinta solidarietà a Maurizio Belpietro e alla redazione di Panorama», sottolinea il senatore Gianluca Cantalamessa, «è incredibile che sia stata definita diffamatoria una copertina che indicava come “i nuovi pirati” soggetti che dichiarano apertamente di voler violare le leggi italiane e disobbedire alle autorità quando navigano nel Mediterraneo alla ricerca di migranti. Una decisione del Tribunale di Milano che lascia sconcerto per l’entità della sanzione. Colpisce, come ricorda lo stesso Belpietro, l’enorme disparità di trattamento rispetto ad altri casi: mentre per aver dato dei “bastardi” a Giorgia Meloni e Matteo Salvini», ricorda Cantalamessa, «lo scrittore Roberto Saviano è stato condannato a pagare 1.000 euro, qui ci troviamo di fronte a una cifra molto alta che ha il sapore di un bavaglio alla libera stampa. Non si può essere perseguitati per aver esercitato il diritto di critica verso chi rivendica la violazione delle norme dello Stato». «Piena solidarietà al direttore di Panorama, Maurizio Belpietro, e a tutta la redazione», dichiara il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alessandro Morelli, «per l’assurda decisione del Tribunale di Milano che ha condannato la testata a risarcire sette Ong per un titolo critico nei loro confronti. Una decisione che non è degna di un Paese democratico e che lede il principio sacrosanto della libertà di stampa tutelato dalla Costituzione. La Lega ed il governo tutto, sono dalla loro parte». Anche Fratelli d’Italia scende in campo ai massimi livelli per far sentire la propria vicinanza a Belpietro e a Panorama, e per esprimere lo sdegno del partito di maggioranza relativa nei confronti di una decisione incomprensibile: «Solidarietà al direttore Belpietro ed a tutta la redazione di Panorama», dice il capogruppo di Fdi alla Camera, Galeazzo Bignami, «che, come racconta in un articolo, è stata condannata a pagare dal Tribunale di Milano 80.000 euro ad alcune Ong come risarcimento per il titolo di una copertina, in cui sotto il titolo “Pirati” si criticava il loro operato attraverso la pubblicazione di documenti riservati. Una vicenda incredibile resa assurda dal fatto che non una parola dell’articolo è stata contestata. Ha ragione il direttore Belpietro, è evidente il tentativo da parte di queste organizzazioni di “tappare la bocca” a chi da tempo denuncia l’operato di alcune Ong in aperta violazione con le leggi nazionali ed a sostegno dei mercanti di uomini. Per questo siamo ancora più vicini al direttore Belpietro e a Panorama e censuriamo con forza questa incredibile condanna». Da Montecitorio a Palazzo Madama, interviene il capogruppo di Fdi al Senato, Lucio Malan: «Manifesta solidarietà a Maurizio Belpietro e alla redazione di Panorama», argomenta Malan, «per l’incredibile vicenda della condanna. Una sorta di lesa maestà delle Ong. La Costituzione tutela la libertà di espressione e queste Ong hanno spesso dichiarato, anche in audizioni in Parlamento, le motivazioni ideologiche e politiche nella loro attività di raccogliere migranti per farli sbarcare in Italia. Se è punibile usare un’espressione, chiaramente evocativa e non letterale, per criticare determinate posizioni politiche, cessa la possibilità di discussione degna di un Paese libero e democratico». Sulla stessa lunghezza d’onda tanti altri esponenti di Fdi, tra i quali il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro e i parlamentari Sara Kelany, Grazia Di Maggio, Emanuele Loperfido, Alessandro Amorese, Paolo Marcheschi, Riccardo De Corato.
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Maurizio Landini e Rosy Bindi (Ansa)
L’iniziativa con cui scende in campo il sindacato di Maurizio Landini, oggi presso l’Istituto Luigi Sturzo, in via delle Coppelle a Roma «vede coinvolte tantissime associazioni e organizzazioni, a partire da Acli, Anpi, Arci, Libera», come spiega il Comitato, «ed è aperta a tutte le realtà e le personalità della società civile, e ai singoli cittadini che vogliono partecipare e dare un contributo per respingere la legge Nordio». Obiettivo della conferenza stampa illustrare ruoli e funzioni del Comitato, presentate le ragioni, i contenuti e i valori che saranno portati avanti nella campagna referendaria «per fermare il tentativo di colpire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, minando l’equilibrio e il bilanciamento dei poteri disegnato dalle madri e dai padri costituenti». Il Comitato «A difesa della Costituzione e per il No al referendum», già attivo da alcune settimane, per «sensibilizzare l’opinione pubblica sui rischi derivanti dalla riforma costituzionale sulla separazione delle carriere e sull’importanza di preservare l’attuale sistema di garanzie a tutela dei diritti dei cittadini» ha scelto una figura che da anni sostiene di non voler fare più politica e di essersi allontanata dal Pd, Rosy Bindi. Accanto a lei, nel comitato in veste di presidente, anche Giovanni Bachelet, figlio di Vittorio Bachelet, assassinato dalle Brigate Rosse. Non mancano figure pubbliche note, come il premio Nobel Giorgio Parisi, Fiorella Mannoia e l’attore Massimiliano Gallo.
Intanto ieri pomeriggio, sempre nella Capitale, è nato il maxi comitato vicino al centrodestra che sostiene il sì al referendum sulla separazione delle carriere. Si chiama «Sì Riforma» ed è promosso da magistrati, componenti di organi rappresentativi delle giurisdizioni, docenti universitari e avvocati. L’obiettivo è sostenere le ragioni della riforma, che prevede la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, l’istituzione di una Corte disciplinare per i magistrati e il sorteggio dei componenti del Consiglio superiore della magistratura. La professione forense è rappresentata ai più alti livelli, dal presidente Cnf Francesco Greco, dal consigliere Vittorio Minervini, che è anche vicepresidente della Fondazione avvocatura italiana, dal coordinatore di Ocf Fedele Moretti e dai presidente delle Camere civili, Alberto Del Noce. Tra i 33 firmatari del Comitato anche Luigi Salvato, che fino a pochi mesi fa ha ricoperto la carica di procuratore generale della Cassazione, e Nicolò Zanon (professore ordinario di Diritto costituzionale ed ex vicepresidente della Corte Costituzionale). Il ruolo di portavoce del comitato è stato attribuito ad Alessandro Sallusti.
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(IStock)
Per certe toghe gli attivisti possono tutto
Solidarietà al direttore Belpietro e a Panorama. Ricordo quell’articolo di Fausto Biloslavo sulle Ong. Per questi «giudici» schierati, sinistroidi, i compagni delle Ong possono dire ciò che vogliono e compiere azioni sovversive, ma se un giornale scrive che sono «pirati» è reato, non un’opinione. Una vergogna. Una parte di giudici dovrebbe essere buttata fuori.
Pasquale Ciaccio
Nelle aule latita ogni giustizia
Panorama e il direttore Belpietro condannati perché hanno sottolineato delle verità, definendo le Ong «nuovi pirati». Siamo arrivati ormai oltre il limite della decenza. I verdetti «politici» dilagano in spregio ai più elementari canoni del diritto. D’altra parte, sentenze e giustizia sono da tempo profondamente divise; a questo punto si può togliere dalle aule dei tribunali anche la scritta «la legge è uguale per tutti». Credo che la riforma Nordio in atto sia sicuramente un passo in avanti, ma finché non arriveremo alla responsabilità «diretta» del magistrato, non estirperemo mai definitivamente questo male.
Roberto Lenzi, Milano
Ora ho capito perché votare al referendum
Ho letto la sentenza che impone di pagare 80.000 euro a Panorama per la sua copertina dove le Ong si definivano i «I nuovi pirati», mentre per la dichiarazione di Saviano che definito Matteo Salvini e Giorgia Meloni dei «bastardi» i giudici hanno condannato lo scrittore a risarcire con 1.000 euro di danni entrambi. Se prima avevo dei dubbi a votare sì alla riforma della giustizia, oggi non ho più dubbi. Se questa è giustizia!
Bruno D’Arpino
«Pirati»? Si cerchi il termine in un dizionario
Il giudice di Milano che condanna Panorama a causa dell’uso del termine «pirata» evidentemente non ha consultato i dizionari. Se lo avesse fatto si sarebbe accorto che tale sostantivo viene esteso a chiunque commetta azioni violente in spregio delle leggi tant’è che abbiamo i «pirati dell’aria» e i «pirati della strada». A seguire le indicazioni di tale magistrato allora ogni qualvolta un giornale usa tali denominazioni il soggetto al momento interessato potrebbe ricorrere al tribunale per tutelare la propria reputazione, la cosa sembra un po’ tirata per i capelli. Senza considerare poi che i presunti «diffamati» hanno pubblicamente affermato di operare in spregio delle leggi che essi non riconoscono e che la giustizia, però, dovrebbe far rispettare, indipendentemente dalle visioni personali di chi è chiamato a sentenziare.
Fulvio Bellani
Libertà di parola, due pesi e due misure
Solidarietà al direttore Maurizio Belpietro e alle sue redazioni, gravati da un’ammenda di 80.000 euro per aver definito, nell’esercizio del diritto di cronaca, «pirati» le Organizzazioni non governative che favoriscono l’afflusso incontrollato di clandestini nel Paese. Se il soccorso in mare resta un dovere umanitario imprescindibile, esso diviene tuttavia il corollario di un’immigrazione di massa priva di regole, che finisce per eludere proprio quel quadro normativo che dovrebbe disciplinarla. È difficile non ravvisare una palese asimmetria nell’applicazione del diritto: laddove l’apologia del massacro del 7 ottobre da parte di un imam viene derubricata a legittima espressione del pensiero, l’appellativo di «nuovi pirati» viene sanzionato come un abuso, negando a quest’ultimo quella medesima libertà di stampa che della libera espressione deve essere pilastro fondante. Un paradosso quantomeno singolare.
Carmine Barone
Grave attacco da parte della cricca
La mia più incondizionata solidarietà per l’attacco alla libertà di parola e alla verità dei fatti da voi subito da parte delle cricche immigrazioniste, che operano per la «grande sostituzione dei popoli», e della schieratissima magistratura. A Maurizio Belpietro, a Fausto Biloslavo, a tutti voi: grazie e non mollate.
Antonio de Felip
Vicinanza dal Movimento diritti civili
A nome del Movimento diritti civili, esprimo tutta la mia solidarietà al direttore di Panorama e della Verità, Maurizio Belpietro, per l’ingiusta e assurda condanna che considero pericolosa per la libertà di stampa nel nostro Paese perché non si può condannare, addirittura con una pena pecuniaria così elevata, un giornalista e un giornale per una semplice battuta (quella sui pirati), a cui è stata dedicata una copertina del settimanale. Vorrei dire che non mi sento assolutamente offeso da questa battuta io che, da una vita, sono accanto al popolo dei migranti, un simbolo delle lotte a loro favore, che tanti di loro ho negli ultimi 30 anni salvato (anche in qualche caso collaborando con una Ong), che sono, da oltre 10 anni, dalla tragedia di Lampedusa del 3 ottobre 2013, impegnato a Tarsia, in un luogo fortemente simbolico, vicino l’ex campo di concentramento di Ferramonti, a realizzare la più grande opera umanitaria legata alla tragedia dell’immigrazione, il Cimitero internazionale dei migranti, che darà dignità alla morte delle vittime dei tragici naufragi.
Franco Corbelli
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