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2021-09-13
Tre milioni coi sussidi attendono la pensione
A quasi tre anni dal suo lancio il Reddito di cittadinanza continua a presentare le stesse criticità del primo giorno: maglie troppo larghe che permettono ai furbetti di scroccarlo, pochi controlli a monte e un totale fallimento come strumento di attivazione del mercato del lavoro. Nel dibattito politico ci sono possibili modifiche. Ma le voci che ne chiedono l'abolizione cominciano a crescere. Anche perché costa un botto: stando ai dati del Centro studi di Unimpresa, nel triennio 2020-2022 sono stati destinati alle politiche passive per il lavoro (principalmente identificabili con il Reddito di cittadinanza) 25,9 miliardi di euro. Più che per l'università, alla quale sono andati circa 8,5 miliardi l'anno per complessivi 25,5 miliardi, e per la ricerca, che ha ottenuto risorse per quasi 4 miliardi l'anno.
Il governo italiano, insomma, da tre anni a questa parte investe sulle povertà. Secondo gli ultimi dati pubblicati dall'Inps e relativi a luglio 2021, le famiglie che ricevono il Reddito di cittadinanza sono 1.242.000, per un totale di 2.920.000 persone coinvolte. La Pensione di cittadinanza, la versione del Reddito di cittadinanza per gli anziani sopra i 67 anni, viene incassata invece da 133.000 famiglie, per un totale di 150.000 persone coinvolte. L'importo medio dell'assegno è di 578 euro. E va principalmente a nuclei familiari chiamati «monocomponenti», ovvero composti da una sola persona, che sono 610.000. L'importo medio è di 448 euro. Le famiglie con due componenti sono 269.000 e a loro va un assegno medio di 546 euro.
La scala sale fino ai nuclei familiari con sei o più componenti, che sono in totale 32.987, con un importo medio mensile di 683 euro. Ed è già a questo punto che ci si accorge della prima contraddizione: le famiglie numerose non ricevono l'assegno medio più alto, che invece viene assegnato ai nuclei con quattro componenti. Per loro l'assegno medio è di 703 euro. Il trimestre maggio-luglio è stato il più costoso in assoluto, probabilmente per effetto del numero crescente di domande che ha scatenato la pandemia. E, così, a maggio sono stati spesi 714 milioni di euro, a giugno 720 e a luglio 719.
I dati pubblicati dall'Inps, però, consentono solo un esame statistico su chi percepisce il Reddito di cittadinanza. Non su chi abbia trovato un lavoro mentre godeva della misura di sostegno. Per una stima approssimativa bisogna ricorrere a un report della Corte dei conti. Al 10 febbraio 2021, è scritto nello studio, a fronte di 1,6 milioni di persone convocate dai Centri per l'impiego, poco più di 1,05 milioni hanno dovuto sottoscrivere il patto per il lavoro: alcuni beneficiari, come i disabili o pensionati, non sono infatti vincolati ad accettare un'occupazione. Solo 152.673 hanno invece instaurato un rapporto di lavoro successivo alla data di presentazione della domanda, ovvero il 14,5% del totale.
Questi dati certificano il flop dei 2.549 navigator di Anpal servizi. Anche se la loro inutilità a oltre due anni dall'attivazione è ormai provata, hanno ottenuto una proroga dei contratti fino a fine anno. E per il futuro molti di loro si sfregano le mani, guardando a un posto fisso negli stessi uffici in cui operano, da precari, dall'estate del 2019. In molti, infatti, si stanno candidando per gli 11.600 posti banditi dalle Regioni nei Centri per l'impiego. D'altra parte, hanno finanche perso il loro padrino: il professore italo americano Mimmo Parisi, voluto nel 2019 dall'allora vicepremier Luigi Di Maio e osannato dai pentastellati, è stato messo alla porta dal governo di Mario Draghi con un commissariamento. Il solo portale Web MyAnpal, stando alle ammissioni di Parisi (dichiarate durante un'audizione in Commissione lavoro alla Camera), sarebbe costato oltre 100 milioni di euro.
Si tratta esclusivamente di un grande contenitore di informazioni per gli adempimenti amministrativi. Il sistema, infatti, non elabora l'enorme quantità di dati per sviluppare modelli utili ai servizi per l'impiego. Il suo uso, insomma, è molto ristretto rispetto ai fenomenali campi d'applicazione che erano stati propagandati. E alle casse dello Stato è costato il doppio rispetto ai furbetti. La guardia di finanza ha stimato che oltre 50 milioni di euro siano finiti nelle tasche di chi non ne aveva diritto. Circa 13 milioni, invece, sono stati messi al riparo perché, seppur richiesti, non erano ancora stati riscossi dai furbetti. Che a fine giugno 2021, ultimo dato utile, erano arrivati a quota 5.868.
Tra questi compaiono intestatari di ville e auto di lusso, evasori fiscali totali, persone dedite a traffici illeciti, criminali condannati per associazione di stampo mafioso. Sono stati tutti denunciati a piede libero. Ma il gruppo dei furbetti non è ristretto soltanto a chi si è beccato una segnalazione all'autorità giudiziaria. Solo nei primi sei mesi del 2021 il Reddito di cittadinanza è stato revocato a circa 67.000 nuclei familiari, mentre nell'intero anno 2020 erano stati 26.000. Dietro l'impennata c'è una ragione precisa: in entrambi gli anni presi in esame la maggior parte delle revoche è arrivata per «mancanza del requisito di residenza o cittadinanza». Nel 2020 ha rappresentato addirittura il 74% dei casi di revoca. Il che probabilmente è spiegato dal fatto che molti immigrati compilano la domanda sotto dettatura di un Caf.
A Genova, per esempio, la guardia di finanza ha scoperto l'irregolarità di 1.532 domande presentate nel 2020 da cittadini extracomunitari. Molti incassavano il Rdc pur essendo tornati nei Paesi d'origine. In questi casi sarà anche particolarmente difficoltoso recuperare le somme sottratte allo Stato. Nel 2021 le altre voci di revoca che pesano sono la «titolarità di autoveicoli, motoveicoli, navi e imbarcazioni da diporto» per il 24%, il «valore del patrimonio sopra soglia» per il 19% e «l'omessa dichiarazione dell'attività lavorativa» per il 17%. Oltre alla revoca è prevista anche la decadenza dal diritto. Se dopo l'accoglimento, l'Inps viene a conoscenza, in fase di accertamento, di un evento non comunicato dal nucleo richiedente, interviene la decadenza sanzionatoria.
Ma se in sede di rinnovo del Reddito di cittadinanza viene accertata la perdita dei requisiti, la domanda decade fisiologicamente. I dati: nel primo trimestre 2021 sono decaduti dal diritto 129.000 nuclei, ovvero quasi la metà di quelli decaduti nell'intero 2020, che ammontavano a 258.000. Mentre nel 2019 ne erano decaduti solo 80.000. La decadenza è prevista anche per chi rifiuta i lavori offerti nei 100 chilometri dal domicilio. In realtà sembra ne siano state prodotte ben poche. Ed è per questo che gli assessori regionali al Welfare hanno di recente inviato una proposta al ministro del Lavoro Andrea Orlando: far arrivare un'offerta di lavoro via sms o Whatsapp a chi percepisce il Reddito di cittadinanza. E se il beneficiario la ignora potrebbe perdere il sussidio.
O, forse, due. Perché è saltato fuori che 1.000 furbetti erano riusciti a incassare il doppio Reddito di cittadinanza. Uno in Italia e uno all'estero. Le mete preferite sarebbero Belgio, Germania e Olanda. In testa alla classifica ci sono i siciliani, seguiti da campani e pugliesi. Avrebbero chiesto il Reddito di cittadinanza in Italia per poi trasferirsi all'estero. E anche nel nuovo Paese di residenza avrebbero chiesto il sussidio statale. Che non è cumulabile. Per mettere a segno la furbata è bastato evitare la comunicazione della nuova residenza all'Aire, l'Anagrafe degli italiani residenti all'estero, un adempimento che comporta la contestuale cancellazione dall'anagrafe del Comune italiano di provenienza. Riuscendo a mantenere contemporaneamente le due residenze, quella italiana e quella estera, il gioco è fatto. In fondo, l'iscrizione all'Aire, per quanto sia obbligatoria, è legata a una dichiarazione volontaria del cittadino, che non è soggetta a controlli e che non prevede sanzioni.
«Tre milioni di persone più navigator senza prospettive di occupazione»
«Da reddito in attesa di lavoro a reddito in attesa della pensione e, nel mezzo, nemmeno un giorno di sudore». Enzo Summa, esperto della Fondazione studi dei consulenti del lavoro, analizza lo strumento che avrebbe dovuto sostenere chi è bisognoso di assistenza, ma anche rimettere in pista chi non trovare lavoro.
Si legge spesso di imprenditori che non riescono a trovare dipendenti perché si preferisce restare a casa con le poche centinaia di euro del sussidio e, magari, cercare qualche lavoretto a nero. Che impatto ha avuto sul mondo del lavoro il Reddito di cittadinanza?
«Intanto è bene scindere la questione in due fasi. La prima, quella assistenziale e di inserimento nella lista dei beneficiari, e una seconda, quella di inserimento nel mondo del lavoro. La seconda non ha funzionato affatto. Sotto il profilo meramente assistenziale la misura ha raggiunto il suo obiettivo, visti anche i dati dell'Osservatorio del ministero del Lavoro che, a fine 2020, evidenziava oltre 1 milione di famiglie e circa 3 milioni e mezzo di soggetti coinvolti nel sostegno governativo. Sul fronte dell'inserimento lavorativo, invece, è ancora ferma al palo, con decine di errori fatti in partenza che, ancora oggi, rallentano lo sviluppo della disciplina e nonostante la mole di fondi investiti».
Cosa non ha funzionato?
«Innanzitutto la disciplina prevedeva, e prevede, il cosiddetto patto per il lavoro, ovvero una sorta di collaborazione tra l'operatore addetto alla redazione del bilancio delle competenze e il beneficiario della misura nell'individuare la strada più agevole per un rapido inserimento nel mondo del lavoro, ovvero una sorta di matching tra le competenze maturate e maturande del beneficiario e l'offerta di lavoro delle imprese. Operazione, questa, persa in partenza laddove per aiutare i disoccupati a entrare nel mondo del lavoro sono stati chiamati altri disoccupati».
I navigator? Sono loro che hanno inceppato la macchina?
«Questi soggetti sono chiamati a trovare per altri un percorso lavorativo che non avevano trovato per sé stessi. Siamo al paradosso della norma. Il legislatore bene avrebbe fatto a evitare disoccupati su disoccupati scegliendo, magari, chi si occupa di politiche attive e di ingresso nel mondo del lavoro».
Bisognava quindi preferire personale specializzato? Magari degli esperti o, almeno, dei conoscitori del mondo del lavoro?
«Questo aspetto la categoria dei Consulenti del lavoro lo ha sottolineato sin dall'immediata approvazione del Reddito di cittadinanza, evidenziando che al sistema così strutturato mancava la parte più importante, ovvero una professionale intermediazione tra domanda e offerta di lavoro».
È per questo motivo che i ristoratori che cercano camerieri, per esempio, seppur pronti ad assumere con contratti regolari, non riescono a reclutarli?
«Bisogna premettere che l'omissione dell'importante figura del mediatore ha portato anche alla mancata attivazione dell'assegno di ricollocazione, ovvero una somma spendibile per l'assistenza e l'intermediazione nella ricerca del lavoro, considerato che la prima parte, ovvero quella del patto del lavoro, non è stata fatta ovvero è stata fatta male, perché senza alcuna velleità di raggiungere gli obiettivi prefissati dall'intervento. Allo stato sembra un puro adempimento burocratico».
Domanda e offerta, insomma, non si incontrano.
«I risultati sono ben visibili: alla data odierna permangono oltre 3 milioni di soggetti, oltre ai navigator, che percepiscono indennità senza alcuno sbocco lavorativo».
Ma, almeno in astratto, stando sempre alla legislazione attuale, ci sarebbero concrete possibilità di raggiungere un risultato accettabile?
«Il provvedimento, così com'è, è puramente assistenzialistico e necessita di essere ricalibrato, magari prevedendo nel mezzo una serie di attività professionali che consentano qualificazione, riqualificazione e ingresso nel mondo lavorativo dei beneficiari della misura pre agevolativa. Basti pensare che il datore di lavoro che assume un percettore del reddito di cittadinanza può beneficiare di un esonero contributivo fino a un massimo di 18 mensilità e per un importo corrispondente all'ammontare mensile percepito. Il tutto, come emerso anche da un studio della Fondazione studi dei consulenti del lavoro, passa da un maggior coinvolgimento dei servizi privati e da un immediato utilizzo dei percettori anche in attività di servizi di pubblica utilità».
Quali?
«Penso alla manutenzione del verde, ad attività sociali all'interno della propria comunità, o in percorsi attivi nel mondo lavorativo anche cominciando con tirocini che, contemporaneamente, permettano di avviare un inserimento nel mondo del lavoro del percettore della misura. Questo permetterebbe alle figure che devono occuparsi di mediare tra la domanda e l'offerta di lavoro di comprendere meglio le competenze sulle quali intervenire. Insomma sostegno sì, ma con un obiettivo lavorativo e non puramente assistenzialistico».
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Per i 5 stelle che l'hanno inventato, doveva essere lo strumento per dare impiego. Ma si è rivelato, come prevedibile, una misura assistenzialistica che ha premiato fannulloni, furbetti e truffatori.Enzo Summa, esperto dei consulenti del lavoro: «Da assegno in attesa di impiego a sussidio in attesa della pensione e in mezzo nemmeno una goccia di sudore. Bisognerebbe almeno affidare loro i servizi di pubblica utilità».Lo speciale contiene due articoli.A quasi tre anni dal suo lancio il Reddito di cittadinanza continua a presentare le stesse criticità del primo giorno: maglie troppo larghe che permettono ai furbetti di scroccarlo, pochi controlli a monte e un totale fallimento come strumento di attivazione del mercato del lavoro. Nel dibattito politico ci sono possibili modifiche. Ma le voci che ne chiedono l'abolizione cominciano a crescere. Anche perché costa un botto: stando ai dati del Centro studi di Unimpresa, nel triennio 2020-2022 sono stati destinati alle politiche passive per il lavoro (principalmente identificabili con il Reddito di cittadinanza) 25,9 miliardi di euro. Più che per l'università, alla quale sono andati circa 8,5 miliardi l'anno per complessivi 25,5 miliardi, e per la ricerca, che ha ottenuto risorse per quasi 4 miliardi l'anno.Il governo italiano, insomma, da tre anni a questa parte investe sulle povertà. Secondo gli ultimi dati pubblicati dall'Inps e relativi a luglio 2021, le famiglie che ricevono il Reddito di cittadinanza sono 1.242.000, per un totale di 2.920.000 persone coinvolte. La Pensione di cittadinanza, la versione del Reddito di cittadinanza per gli anziani sopra i 67 anni, viene incassata invece da 133.000 famiglie, per un totale di 150.000 persone coinvolte. L'importo medio dell'assegno è di 578 euro. E va principalmente a nuclei familiari chiamati «monocomponenti», ovvero composti da una sola persona, che sono 610.000. L'importo medio è di 448 euro. Le famiglie con due componenti sono 269.000 e a loro va un assegno medio di 546 euro.La scala sale fino ai nuclei familiari con sei o più componenti, che sono in totale 32.987, con un importo medio mensile di 683 euro. Ed è già a questo punto che ci si accorge della prima contraddizione: le famiglie numerose non ricevono l'assegno medio più alto, che invece viene assegnato ai nuclei con quattro componenti. Per loro l'assegno medio è di 703 euro. Il trimestre maggio-luglio è stato il più costoso in assoluto, probabilmente per effetto del numero crescente di domande che ha scatenato la pandemia. E, così, a maggio sono stati spesi 714 milioni di euro, a giugno 720 e a luglio 719.I dati pubblicati dall'Inps, però, consentono solo un esame statistico su chi percepisce il Reddito di cittadinanza. Non su chi abbia trovato un lavoro mentre godeva della misura di sostegno. Per una stima approssimativa bisogna ricorrere a un report della Corte dei conti. Al 10 febbraio 2021, è scritto nello studio, a fronte di 1,6 milioni di persone convocate dai Centri per l'impiego, poco più di 1,05 milioni hanno dovuto sottoscrivere il patto per il lavoro: alcuni beneficiari, come i disabili o pensionati, non sono infatti vincolati ad accettare un'occupazione. Solo 152.673 hanno invece instaurato un rapporto di lavoro successivo alla data di presentazione della domanda, ovvero il 14,5% del totale. Questi dati certificano il flop dei 2.549 navigator di Anpal servizi. Anche se la loro inutilità a oltre due anni dall'attivazione è ormai provata, hanno ottenuto una proroga dei contratti fino a fine anno. E per il futuro molti di loro si sfregano le mani, guardando a un posto fisso negli stessi uffici in cui operano, da precari, dall'estate del 2019. In molti, infatti, si stanno candidando per gli 11.600 posti banditi dalle Regioni nei Centri per l'impiego. D'altra parte, hanno finanche perso il loro padrino: il professore italo americano Mimmo Parisi, voluto nel 2019 dall'allora vicepremier Luigi Di Maio e osannato dai pentastellati, è stato messo alla porta dal governo di Mario Draghi con un commissariamento. Il solo portale Web MyAnpal, stando alle ammissioni di Parisi (dichiarate durante un'audizione in Commissione lavoro alla Camera), sarebbe costato oltre 100 milioni di euro.Si tratta esclusivamente di un grande contenitore di informazioni per gli adempimenti amministrativi. Il sistema, infatti, non elabora l'enorme quantità di dati per sviluppare modelli utili ai servizi per l'impiego. Il suo uso, insomma, è molto ristretto rispetto ai fenomenali campi d'applicazione che erano stati propagandati. E alle casse dello Stato è costato il doppio rispetto ai furbetti. La guardia di finanza ha stimato che oltre 50 milioni di euro siano finiti nelle tasche di chi non ne aveva diritto. Circa 13 milioni, invece, sono stati messi al riparo perché, seppur richiesti, non erano ancora stati riscossi dai furbetti. Che a fine giugno 2021, ultimo dato utile, erano arrivati a quota 5.868.Tra questi compaiono intestatari di ville e auto di lusso, evasori fiscali totali, persone dedite a traffici illeciti, criminali condannati per associazione di stampo mafioso. Sono stati tutti denunciati a piede libero. Ma il gruppo dei furbetti non è ristretto soltanto a chi si è beccato una segnalazione all'autorità giudiziaria. Solo nei primi sei mesi del 2021 il Reddito di cittadinanza è stato revocato a circa 67.000 nuclei familiari, mentre nell'intero anno 2020 erano stati 26.000. Dietro l'impennata c'è una ragione precisa: in entrambi gli anni presi in esame la maggior parte delle revoche è arrivata per «mancanza del requisito di residenza o cittadinanza». Nel 2020 ha rappresentato addirittura il 74% dei casi di revoca. Il che probabilmente è spiegato dal fatto che molti immigrati compilano la domanda sotto dettatura di un Caf.A Genova, per esempio, la guardia di finanza ha scoperto l'irregolarità di 1.532 domande presentate nel 2020 da cittadini extracomunitari. Molti incassavano il Rdc pur essendo tornati nei Paesi d'origine. In questi casi sarà anche particolarmente difficoltoso recuperare le somme sottratte allo Stato. Nel 2021 le altre voci di revoca che pesano sono la «titolarità di autoveicoli, motoveicoli, navi e imbarcazioni da diporto» per il 24%, il «valore del patrimonio sopra soglia» per il 19% e «l'omessa dichiarazione dell'attività lavorativa» per il 17%. Oltre alla revoca è prevista anche la decadenza dal diritto. Se dopo l'accoglimento, l'Inps viene a conoscenza, in fase di accertamento, di un evento non comunicato dal nucleo richiedente, interviene la decadenza sanzionatoria.Ma se in sede di rinnovo del Reddito di cittadinanza viene accertata la perdita dei requisiti, la domanda decade fisiologicamente. I dati: nel primo trimestre 2021 sono decaduti dal diritto 129.000 nuclei, ovvero quasi la metà di quelli decaduti nell'intero 2020, che ammontavano a 258.000. Mentre nel 2019 ne erano decaduti solo 80.000. La decadenza è prevista anche per chi rifiuta i lavori offerti nei 100 chilometri dal domicilio. In realtà sembra ne siano state prodotte ben poche. Ed è per questo che gli assessori regionali al Welfare hanno di recente inviato una proposta al ministro del Lavoro Andrea Orlando: far arrivare un'offerta di lavoro via sms o Whatsapp a chi percepisce il Reddito di cittadinanza. E se il beneficiario la ignora potrebbe perdere il sussidio.O, forse, due. Perché è saltato fuori che 1.000 furbetti erano riusciti a incassare il doppio Reddito di cittadinanza. Uno in Italia e uno all'estero. Le mete preferite sarebbero Belgio, Germania e Olanda. In testa alla classifica ci sono i siciliani, seguiti da campani e pugliesi. Avrebbero chiesto il Reddito di cittadinanza in Italia per poi trasferirsi all'estero. E anche nel nuovo Paese di residenza avrebbero chiesto il sussidio statale. Che non è cumulabile. Per mettere a segno la furbata è bastato evitare la comunicazione della nuova residenza all'Aire, l'Anagrafe degli italiani residenti all'estero, un adempimento che comporta la contestuale cancellazione dall'anagrafe del Comune italiano di provenienza. Riuscendo a mantenere contemporaneamente le due residenze, quella italiana e quella estera, il gioco è fatto. 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Si legge spesso di imprenditori che non riescono a trovare dipendenti perché si preferisce restare a casa con le poche centinaia di euro del sussidio e, magari, cercare qualche lavoretto a nero. Che impatto ha avuto sul mondo del lavoro il Reddito di cittadinanza? «Intanto è bene scindere la questione in due fasi. La prima, quella assistenziale e di inserimento nella lista dei beneficiari, e una seconda, quella di inserimento nel mondo del lavoro. La seconda non ha funzionato affatto. Sotto il profilo meramente assistenziale la misura ha raggiunto il suo obiettivo, visti anche i dati dell'Osservatorio del ministero del Lavoro che, a fine 2020, evidenziava oltre 1 milione di famiglie e circa 3 milioni e mezzo di soggetti coinvolti nel sostegno governativo. Sul fronte dell'inserimento lavorativo, invece, è ancora ferma al palo, con decine di errori fatti in partenza che, ancora oggi, rallentano lo sviluppo della disciplina e nonostante la mole di fondi investiti». Cosa non ha funzionato? «Innanzitutto la disciplina prevedeva, e prevede, il cosiddetto patto per il lavoro, ovvero una sorta di collaborazione tra l'operatore addetto alla redazione del bilancio delle competenze e il beneficiario della misura nell'individuare la strada più agevole per un rapido inserimento nel mondo del lavoro, ovvero una sorta di matching tra le competenze maturate e maturande del beneficiario e l'offerta di lavoro delle imprese. Operazione, questa, persa in partenza laddove per aiutare i disoccupati a entrare nel mondo del lavoro sono stati chiamati altri disoccupati». I navigator? Sono loro che hanno inceppato la macchina? «Questi soggetti sono chiamati a trovare per altri un percorso lavorativo che non avevano trovato per sé stessi. Siamo al paradosso della norma. Il legislatore bene avrebbe fatto a evitare disoccupati su disoccupati scegliendo, magari, chi si occupa di politiche attive e di ingresso nel mondo del lavoro». Bisognava quindi preferire personale specializzato? Magari degli esperti o, almeno, dei conoscitori del mondo del lavoro? «Questo aspetto la categoria dei Consulenti del lavoro lo ha sottolineato sin dall'immediata approvazione del Reddito di cittadinanza, evidenziando che al sistema così strutturato mancava la parte più importante, ovvero una professionale intermediazione tra domanda e offerta di lavoro». È per questo motivo che i ristoratori che cercano camerieri, per esempio, seppur pronti ad assumere con contratti regolari, non riescono a reclutarli? «Bisogna premettere che l'omissione dell'importante figura del mediatore ha portato anche alla mancata attivazione dell'assegno di ricollocazione, ovvero una somma spendibile per l'assistenza e l'intermediazione nella ricerca del lavoro, considerato che la prima parte, ovvero quella del patto del lavoro, non è stata fatta ovvero è stata fatta male, perché senza alcuna velleità di raggiungere gli obiettivi prefissati dall'intervento. Allo stato sembra un puro adempimento burocratico». Domanda e offerta, insomma, non si incontrano. «I risultati sono ben visibili: alla data odierna permangono oltre 3 milioni di soggetti, oltre ai navigator, che percepiscono indennità senza alcuno sbocco lavorativo». Ma, almeno in astratto, stando sempre alla legislazione attuale, ci sarebbero concrete possibilità di raggiungere un risultato accettabile? «Il provvedimento, così com'è, è puramente assistenzialistico e necessita di essere ricalibrato, magari prevedendo nel mezzo una serie di attività professionali che consentano qualificazione, riqualificazione e ingresso nel mondo lavorativo dei beneficiari della misura pre agevolativa. Basti pensare che il datore di lavoro che assume un percettore del reddito di cittadinanza può beneficiare di un esonero contributivo fino a un massimo di 18 mensilità e per un importo corrispondente all'ammontare mensile percepito. Il tutto, come emerso anche da un studio della Fondazione studi dei consulenti del lavoro, passa da un maggior coinvolgimento dei servizi privati e da un immediato utilizzo dei percettori anche in attività di servizi di pubblica utilità». Quali? «Penso alla manutenzione del verde, ad attività sociali all'interno della propria comunità, o in percorsi attivi nel mondo lavorativo anche cominciando con tirocini che, contemporaneamente, permettano di avviare un inserimento nel mondo del lavoro del percettore della misura. Questo permetterebbe alle figure che devono occuparsi di mediare tra la domanda e l'offerta di lavoro di comprendere meglio le competenze sulle quali intervenire. Insomma sostegno sì, ma con un obiettivo lavorativo e non puramente assistenzialistico».
Eugenia Roccella, ministro per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità (Ansa)
A testimoniare tale consapevolezza sarebbero «il percorso psicoterapico seguito con costanza, le terapie ormonali praticate con successo e la matura gestione del disagio sociale conseguente al processo di cambiamento». A prima vista tutto appare molto chiaro, molto trasparente, molto informato e molto scientifico. Il fatto, però, è che in Italia riguardo al cambiamento di sesso dei minori la situazione è tutto tranne che chiara e trasparente.
Nel 2024 è stato istituito il Tavolo tecnico interministeriale sui minori con disforia di genere, una struttura di fatto consultiva che ha proprio l’obiettivo di mettere un po’ d’ordine nell’attuale caos. Tanto per capirsi: a oggi non si sa nemmeno quanti minori abbiano intrapreso percorsi di cambiamento di sesso, a quanti e per quanto tempo vengano somministrati i farmaci cosiddetti bloccanti della pubertà, quanti e con che conseguenze si sottopongano a trattamenti ormonali. Non sono chiare nemmeno le linee guida seguite dalle varie strutture ospedaliere, dato che non esistono indicazioni ministeriali. Questo tavolo si riunirà ancora a gennaio e dovrebbe produrre una relazione che aiuti ad avere qualche informazione in più, ma non sfornerà nulla di risolutivo.
Maggiori passi avanti dovrebbero arrivare grazie al disegno di legge presentato dai ministri Eugenia Roccella e Orazio Schillaci che introduce disposizioni per la appropriatezza prescrittiva e il corretto utilizzo dei farmaci per la disforia di genere, cioè bloccanti della pubertà come la triptorelina e poi ormoni. Si tratterebbe di un giro di vite fondamentale, perché il ddl - benché non possa bloccare la somministrazione dei farmaci come avvenuto in altre nazioni - può stabilire dei paletti chiari. Tanto per cominciare istituirebbe un registro delle somministrazioni: finalmente si saprebbe chi prescrive un farmaco, per quanto tempo e a fronte di quali evidenze. Poi - elemento ancora più rilevante - dovrebbe essere un comitato etico a validare ogni nuova somministrazione.
Attualmente il ddl è in discussione nella commissione affari sociali della Camera, dove si sono svolte negli ultimi mesi varie audizioni, alcune delle quali estremamente rilevanti. Per la prima volta, ad esempio, hanno preso la parola alcune madri di minori con disforia di genere, alcuni dei quali hanno scelto di non proseguire nel percorso di cambiamento di sesso o hanno cambiato idea dopo averlo iniziato.
In particolare sono state audite le rappresentanti di Generazione D, una «associazione culturale apartitica, aconfessionale e priva di scopi di lucro, il cui obiettivo è informare in merito alle problematiche della disforia/incongruenza di genere in bambini, adolescenti e giovani adulti».
La presidente dell’associazione in commissione ha fornito alcuni dettagli sull’associazione. «Oggi tra i nostri figli troviamo bambini dagli 11 anni, adolescenti e giovani adulti con percorsi molto diversi: alcuni sono seguiti da psicologi senza interventi medici, altri hanno iniziato terapie ormonali e altri ancora hanno già subito interventi chirurgici. Registriamo inoltre numerosi casi di desistenza e detransizione, che ci permettono di avere una visione diretta di tutti gli stadi del percorso. Per la quasi totalità, la disforia è insorta improvvisamente in adolescenza, spesso durante o subito dopo il lockdown, periodo nel quale numerosi studi rilevano un aumento generale del disagio giovanile. In tale contesto, la disforia sembra talvolta assumere forme di contagio sociale, alimentate dalla sovraesposizione a social network e influencer. Osserviamo inoltre un aumento di maschi con neurodivergenze o disturbi psichiatrici che manifestano un’identificazione transgender solo in adolescenza, senza segnali precedenti».
Sono elementi, questi, decisamente importanti, che contribuiscono a smontare l’immagine della disforia o incongruenza di genere quale questione monolitica da affrontare in un modo preciso. «I genitori che si rivolgono a noi - circa due a settimana - sono spaventati, disorientati e spesso delusi dalle risposte ricevute nei centri specializzati, dove la disforia viene presentata come una condizione innata e immutabile da assecondare subito per evitare rischi suicidari. In molti casi viene persino rivolto loro, anche davanti ai figli, il quesito: «Preferisce un figlio morto o una figlia trans?» o viceversa, generando una pressione emotiva che ostacola una valutazione serena e realmente informata», dicono ancora gli esponenti dell’associazione. Secondo Generazione D è dunque necessaria «una maggiore cautela nella medicalizzazione dei minori, ricordando che tutti i Paesi pionieri dell’approccio affermativo stanno rivedendo le proprie linee guida. Senza un’adeguata esplorazione psicologica, la disforia di genere rischia di diventare un ombrello diagnostico sotto il quale comorbidità importanti restano invisibili e non trattate». La commissione parlamentare ha ovviamente udito anche voci differenti, tra cui quelle degli attivisti trans. Nota a margine: proprio da profili social legati all’attivismo trans sono arrivati attacchi e insulti online alle madri di Generazione D che hanno scelto di esporsi.
Il dato importante, comunque, è che per la prima volta in Aula siano state raccontate storie vere e diverse dalla consueta narrazione che pone la transizione di genere come unica via per affrontare ogni problema legato all’identità sessuale. Purtroppo, bisogna anche constatare che tale narrazione è ancora molto (troppo diffusa) persino fra le società scientifiche che si occupano del tema. Pochi giorni fa, otto realtà italiane tra cui la Società italiana di endocrinologia (Sie), la Società italiana di endocrinologia e diabetologia pediatrica (Siedp) e l’Osservatorio nazionale identità di genere (Onig) hanno firmato un appello contro il ddl attualmente in discussione, sostenendo che la legge «rischia di limitare fortemente l’accesso alle cure sanitarie per le persone minorenni transgender». Come spesso accade, a questo appello è stata data grande rilevanza, ma giustamente Generazione D fa notare che «appare doveroso ricondurre il documento alla sua reale portata rappresentativa. In Italia operano centinaia di associazioni e società scientifiche delle professioni sanitarie: secondo gli elenchi pubblicati dal ministero della Salute, il numero supera ampiamente le quattrocento. A fronte di tale pluralità, il comunicato in oggetto è firmato da sole sei società scientifiche, di cui appena due di area pediatrica, affiancate da una federazione e da una associazione culturale che, per definizione, non hanno funzione di produzione di linee guida cliniche». Inoltre, dice ancora Generazione D, «le società firmatarie rivendicano l’esistenza di evidenze scientifiche, ma non producono dati italiani, né su accessi, né su trattamenti, né su esiti clinici. Eppure criticano un decreto che istituisce un registro nazionale dei farmaci, che rappresenterebbe lo strumento minimo indispensabile per iniziare a raccogliere tali informazioni».
Il punto è tutto qui. In Italia sono concesse decisioni allucinanti come quella di La Spezia in totale assenza di dati chiari, di linee guida certe e di consenso scientifico sul tema e alcune realtà che si definiscono tecniche fanno politica e battagliano contro il governo che cerca di mettere ordine.
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Il Napoli festeggia la Supercoppa italiana dopo aver battuto il Bologna 2-0 a Riyadh (Ansa)
A Riyadh il Napoli conquista la seconda Supercoppa italiana della sua storia battendo 2-0 il Bologna. La finale si decide tra la fine del primo tempo e l’inizio della ripresa con la doppietta del brasiliano. Conte: «I ragazzi trasudavano voglia di vincere questo trofeo. Voglia di mettere in bacheca e di continuare a scrivere la storia». Italiano: «Non ho nulla da recriminare ai ragazzi. Questa esperienza ci farà crescere».
Il Napoli è supercampione d’Italia. A Riyadh gli azzurri battono 2-0 il Bologna e conquistano la seconda Supercoppa italiana della loro storia, chiudendo la finale già all’inizio della ripresa con la doppietta di Neres. In una finale mai realmente sfuggita al controllo degli azzurri è stata la squadra di Antonio Conte a confermarsi supercampione d’Italia. Il Bologna è rimasto in gara soltanto nel primo tempo fino al momento in cui il lampo di Neres ha abbagliato prima Ravaglia e poi tutti i 17.869 spettatori del Al-Awwal park, compresi i cosiddetti figuranti che durante la partita non hanno comunque fatto mancare la propria partecipazione da una parte e dall’altra urlando «Napuli, Napuli, Napuli» o «Bulugna, Bulugna, Bulugna»; ma che arrivato il triplice fischio di Colombo hanno pensato bene di abbandonare in fretta e furia lo stadio senza godersi nemmeno lo spettacolo della premiazione.
Fermo restando che il bilancio degli spettatori presenti alla finalissima ha comunque superato di circa un migliaio quello della semifinale di venerdì tra Bologna e Inter, va al tempo stesso sottolineato per dovere di cronaca che per evitare un colpo d’occhio non da finale le due curve del secondo anello sono state coperte con teloni raffiguranti il logo della Supercoppa e quelli dei club. Ma lo spettacolo è stato soprattutto quello confezionato dalla Lega Serie A prima del calcio d’inizio, con la passerella sul prato per alcune leggende del calcio italiano, da Roberto Baggio e Alessandro Del Piero a Fabio Capello, Christian Vieri e Marco Materazzi, Leonardo Bonucci, Ciro Ferrara, Vincent Candela e Christian Panucci. A completare lo show prepartita un mix di giochi di luci laser, getti di fuoco a bordo campo e fuochi d’artificio a illuminare il cielo di Riyadh. Finito lo spettacolo, finalmente il campo.
Conte non ha toccato nulla rispetto alla semifinale vinta contro il Milan e ha confermato l’undici titolare con Neres e McTominay ad agire alle spalle di Hojlund. Vincenzo Italiano, privo di Bernardeschi, ha inserito Cambiaghi e rilanciato Ferguson in mediana al posto di Moro. Per gran parte del primo tempo il Bologna ha provato a reggere l’urto generato dalle fiammate napoletane con attenzione difensiva, con la coppia dei centrali Heggem-Lucumi praticamente perfetta e un Ravaglia ancora una volta protagonista assoluto come contro l’Inter. La prima vera occasione è arrivata al 10’, quando Elmas è entrato in area da sinistra e ha calciato fuori a tu per tu con Ravaglia. È il segnale di un dominio territoriale che si è consolidato col passare dei minuti. Il Bologna ha tenuto, ma ha faticato a ripartire e si è affidato soprattutto alle iniziative di Orsolini. Al 31’ McTominay è andato vicino al vantaggio, poi al 37’ Spinazzola ha provato lo scavetto, trovando ancora la risposta del portiere rossoblù. Il muro, però, è crollato al 39’: Neres ha ricevuto su una rimessa laterale apparentemente innocua, si è spostato il pallone sul mancino e ha disegnato una traiettoria imparabile sotto l’incrocio. È l’1-0 che ha indirizzato la finale in maniera decisiva.
Nella ripresa il Napoli è infatti ripartito forte. Ravaglia ha salvato su Hojlund e Rrahmani, ma il Bologna può recriminare per non aver sfruttato la più grande occasione per rimettersi in carreggiata: al 55’ Orsolini ha sfondato a destra e servito Ferguson, che di testa non è riuscito però ad angolare, facilitando la presa di Milinkovic-Savic. È l’episodio che avrebbe potuto riaprire la gara. Un minuto dopo, invece, è arrivato il colpo del ko. Il raddoppio è un mix di pressione e errore: Heggem ha appoggiato corto, Ravaglia ha giocato male su Lucumi e Neres si è avventato sul pallone, anticipando tutti e superando il portiere con un tocco sotto per la doppietta personale. La finale è finita lì. Conte ha gestito, Italiano ha provato a cambiare uomini ma non l’inerzia. Il Napoli ha sfiorato anche il 3-0 nel finale, mentre il Bologna si è spento progressivamente, con qualche tentativo velleitario di Rowe.
Al fischio finale è festa azzurra sotto le luci dell’Al-Awwal Park, con il trofeo sollevato al cielo di Riyadh da Di Lorenzo sulle note di ’O surdato ’nnammurato. Secondo trofeo per Conte alla guida del Napoli, conferma di una squadra che ha saputo trasformare la Supercoppa in una naturale estensione della stagione precedente.
Nelle parole dei protagonisti c’è la fotografia della serata. Conte ha celebrato la voglia di vincere dei suoi e ha reso onore al Bologna: «Siam venuti qui per difendere lo Scudetto sulla maglia e difendere il motivo perchè abbiamo lo Scudetto sulla maglia. Abbiamo fatto un’ottima semifinale contro il Milan che è una grandissima squadra. Oggi abbiamo battuto il Bologna, non parlerei di rivincita ma faccio i complimenti ai ragazzi perché trasudavano voglia di vincere questo trofeo. Voglia di mettere in bacheca e di continuare a scrivere la storia. Complimenti a loro quindi. Però nella vittoria vorrei sottolineare ciò che sta facendo il Bologna: complimenti a loro, sono cresciuti tantissimo, una certezza è diventata, come l’Atalanta. Ha eliminato l’Inter, in campionato ci ha battuto e grande merito a Vincenzo Italiano e onore non solo ai vincitori ma anche a chi non ha vinto. Non mi piace dire sconfitti. Vanno i miei più grandi complimenti». Italiano, invece, ha fatto i complimenti ai suoi ragazzi e rivendicato il percorso: «Non ho nulla da recriminare ai ragazzi. Merito al Napoli. Noi ci dobbiamo portare dentro questa bellissima esperienza e secondo me cresceremo ancora perché dobbiamo affrontare altre tre competizioni importanti e questa esperienza ci insegnerà tanto. Mi dispiace per la nostra gente, ma noi abbiamo dato il massimo, ma ripeto merito al nostro avversario che è una squadra fortissima che oggi secondo me ha over performato e ha fatto una partita straordinaria. Noi abbiamo dato e di questo nessuno può dire nulla. Cercheremo di fare meglio in futuro».
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I servizi di emergenza polacchi sul luogo dell'incidente di un drone nel villaggio di Wohyn, nella Polonia orientale, lo scorso 10 settembre (Ansa)
Qualche volta le paure finiscono addirittura nel ridicolo, come nel caso di un’incursione aerea nei cieli di Varese. Nella primavera scorsa il sistema di sicurezza del centro di ricerca della commissione europea di Ispra aveva segnalato l’incursione di un drone sopra la sede della divisione elicotteri di Leonardo, a Vergiate. Subito era scattato l’allarme e si era ipotizzato che il velivolo fosse stato fatto sorvolare dai russi, allo scopo di carpire i segreti della principale azienda italiana impegnata nel settore della Difesa. A distanza di mesi, l’inchiesta ha invece accertato che non si trattava di un’attività spionistica di agenti al servizio di Putin, ma semplicemente di un’interferenza generata da un software difettoso, perché usato senza rispettare le indicazioni del produttore, e di un amplificatore di segnale Gsm, comprato su Amazon da un ignaro italiano che voleva aumentare la ricezione del suo cellulare tra le mura della sua casa. Sì, il pericolo non arrivava da Mosca né dalle mire espansionistiche del Cremlino, ma da una villetta di Ispra il cui segnale disturbava i rilevatori dell’istituto di ricerca della Commissione europea. Insomma, tanta paura per nulla.Ma se si riavvolge il nastro degli ultimi mesi, non si tratta della prima volta in cui i fischi vengono scambiati per fiaschi. Il ministro della Difesa danese Troels Lund Poulsen di recente ha dovuto ammettere che le incursioni di velivoli senza pilota su vari aeroporti del Paese al momento non sono riconducibili alla Russia. Nelle settimane scorse era infatti scattato l’allarme per il timore di un attacco ibrido, ma poi si è scoperto che i droni non erano arrivati da lontano, ma erano decollati localmente. Dunque, a meno di ipotizzare la presenza di spie al soldo di Putin a pochi chilometri da Copenaghen, quella che pareva una minaccia in realtà era più probabilmente l’azione di qualche privato, un po’ come nel caso della villetta di Ispra. Del resto, quelle che negli ultimi mesi sono state presentate come operazioni russe di disturbo, quasi sempre dopo qualche settimana sono state ridimensionate a incidenti o errori. Prendete il drone sulla Polonia caduto a fine settembre. Subito si era parlato di un velivolo russo, ma poi si è scoperto che a sfondare il tetto di un’abitazione a Wyryki-Wola, nella regione di Lublino, non era un aereo senza pilota lanciato dai russi, ma un missile polacco difettoso, sparato da un F-16 per abbattere alcuni droni entrati nello spazio aereo di Varsavia, probabilmente perché la loro traiettoria era stata deviata dai sistemi elettronici di Kiev. Sì, insomma, non un attacco ma un incidente provocato dalla difesa ucraina e polacca. A inizio settembre c’era poi stato «l’attacco» al volo su cui viaggiava il presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Anche allora le principali testate parlarono di una manovra di sabotaggio del sistema aereo da parte della Russia, notizia rivelatasi poi priva di fondamento e smentita da Bruxelles. La sindrome dell’aggressione gioca dunque brutti scherzi, o forse qualcuno sta provando a forzare la mano perché a forza di lanciare allarmi capiti un incidente, magari con una risposta preventiva a un presunto attacco. Del resto, non è quello che ha detto l’ammiraglio Cavo Dragone, immaginando non una reazione di difesa, ma una di offesa per dare un segnale ai russi. Che cosa voglia dire un intervento preventivo ve lo potete immaginare. Di solito è così che cominciano le guerre. In fondo non c’è un motto secondo cui chi colpisce per primo colpisce due volte? A quanto pare è la strategia militare a cui si ispirano alcuni comandanti che non vedono l’ora di fare la guerra invece che la pace.
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In un battibaleno, si è sgretolata l’inquietante spy story dalla Russia con amore: i tentativi di spionaggio erano, in realtà, un pasticciaccio elettronico. I pm hanno chiesto l’archiviazione. E il quotidiano di via Solferino ha relegato la notizia in un trafiletto. Al contrario, quando un apparecchio acquistato sul Web e un programma sino-lituano hanno generato una sfilza di falsi allarmi, i media, a titolo unificato, denunciavano l’ennesima incursione dei velivoli di Vladimir Putin.
Come lo scorso settembre a Copenaghen e Oslo, quando gli scali delle due capitali erano stati chiusi dopo l’avvistamento di «droni di grandi dimensioni». Passato qualche giorno, il ministro della Difesa danese è stato costretto a rettificare: nessuna prova che Mosca fosse coinvolta; gli apparecchi non erano arrivati «da una lunga distanza», anzi, erano stati lanciati «localmente». Il capo della diplomazia norvegese, intanto, escludeva «collegamenti» tra gli episodi capitati nei due Paesi scandinavi.
Non c’era la «mano russa» (per citare l’Ansa) nemmeno nell’incidente di tre mesi fa in Polonia, nella regione di Lublino. A sfondare il tetto di un’abitazione nel villaggio di Wyryki-Wola, per fortuna senza provocare vittime, era stato un aria-aria difettoso, scagliato da un F-16 decollato per abbattere i droni russi penetrati nello spazio aereo di Varsavia. Con ogni probabilità, erano stati dirottati dai meccanismi di difesa ucraini. «Tutto indica che si sia trattato di un missile partito da un nostro caccia», aveva dichiarato il coordinatore degli 007 polacchi, Tomasz Siemoniak. Il razzo farlocco costava 850.000 euro. Leggere i resoconti della stampa non ha prezzo. Il Sole24Ore, ad esempio, enfatizzava il monito di Sergio Mattarella: «Ci si muove su un crinale dal quale si può scivolare in un baratro di violenza incontrollato». Il capo dello Stato, evocando lo «scoppio della prima guerra mondiale, nel luglio 1914», parlava di un episodio «gravissimo». Ma sarebbe stato difficile invocare l’articolo 5 della Nato, sulla mutua assistenza bellica in caso di attacco, visto che l’attacco era un auto-attacco.
La Polonia era già stata teatro di un tragico equivoco. A novembre 2022, un ordigno, lì per lì identificato come russo, era caduto nel paesino di Przewodow, uccidendo due persone. «Mosca sotto accusa», segnalava Repubblica. Anche quella volta, però, la firma non era dello zar: «L’indagine condotta dalla Procura polacca», comunicò mesi dopo il ministro della Giustizia, «ha portato all’emissione di un parere che indica categoricamente che quel missile era ucraino». Ma «di produzione sovietica o russa», eh.
Per collegare il Cremlino all’esplosione del Nord Stream, a settembre 2022, era stata sufficiente la presenza, riportata ad esempio dal Messaggero, di «navi russe» nella zona dei gasdotti. I tedeschi, poi, avrebbero scoperto che in verità la «mano» era ucraina. Secondo lo Spiegel, uno dei presunti sabotatori, Serhij Kuznietzov, arrestato mentre si trovava a Rimini, al momento dell’attentato era in servizio in un’unità speciale dell’esercito di Kiev. Quasi quasi, toccava invocarlo davvero, l’articolo 5.
Pericolose interferenze, oltre che mettere in agitazione i siti di Leonardo in Lombardia, a inizio settembre hanno trasformato in un incubo un volo di Ursula von der Leyen, atterrato a Sofia con un’ora di ritardo. «Hacker manomettono il Gps dell’aereo», raccontava il Sole. I pirati informatici, naturalmente, battevano bandiera moscovita: «I russi mandano in tilt il Gps del volo di Von der Leyen», annunciava l’Ansa. Pure il Corriere riferiva, senza tema di smentita, di «interferenze dei russi». Peccato che le autorità bulgare avessero smentito: il jet, confermava in Parlamento il premier, non aveva subito «né interferenze né disturbi prolungati». Alla fine, la Commissione Ue stessa ha dovuto precisare di non aver «mai detto» che si fosse trattato di «un attacco rivolto «espressamente» contro la presidente. Autocrate che vai, trasporti che trovi: col Duce, i treni arrivavano in orario; con Putin, i voli atterrano in ritardo. O sconfinano in Estonia per 12 minuti, finendo intercettati dagli F-35 italiani; o si «avvicinano» alla Lettonia e vengono agganciati dai caccia ungheresi.
Adesso che la polizia tedesca ha censito oltre 1.000 incursioni di droni nel 2025, alla lista mancava solo un blitz della fanteria. Finalmente, la settimana scorsa, tre soldati russi in uniforme hanno attraversato il confine estone e sono rimasti in territorio Nato «per mezz’ora». L’invasione è cominciata. All’armi!
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