Ospite della nuova puntata del talk condotto da Daniele Capezzone negli studi Utopia, Luca Squeri di Forza Italia e Christian Di Sanzo del Pd.
Ospite della nuova puntata del talk condotto da Daniele Capezzone negli studi Utopia, Luca Squeri di Forza Italia e Christian Di Sanzo del Pd.
Emmanuel Macron e Vladimir Putin (Ansa)
Il presidente francese approfitta dello stallo nelle trattative a Miami, apre al Cremlino («parlarci è utile») e incassa il gradimento della controparte. Una mossa che avrebbe dovuto fare per prima la Meloni.
Finalmente qualcuno in Europa ha capito che l’Unione europea e l’asse dei volenterosi si stavano lentamente condannando alla irrilevanza. Perché al netto della retorica, i fatti ci dicono una cosa chiara da tempo: pensare di isolare Putin e rinunciare al dialogo era una «non mossa politica». E infatti il primo leader europeo che ha cercato apertamente il Cremlino è stato il presidente francese Macron, approfittando dello stallo delle trattative a Miami che puntavano su un trilaterale che portasse al tavolo America, Russia e Ucraina. Il presidente francese avrebbe fatto la prima mossa: del resto lui era stato l’ultimo a incontrarlo. Secondo le indiscrezioni Macron aveva già messo in moto la macchina diplomatica alla vigilia del suo viaggio in Cina, cercando lì una sponda; preferì però non forzare alla luce delle tensioni che il bilaterale stava portando a galla.
Stavolta è andato sul canale diretto. E infatti nella notte tra sabato e domenica il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, dichiarava all’agenzia Ria Novosti: «Il presidente russo Vladimir Putin è pronto al dialogo con il presidente francese Emmanuel Macron».
Ieri le intenzioni dell’Eliseo diventavano chiare a tutti attraverso le parole attribuite a fonti vicine a Macron dopo la dichiarazione di Peskov: «Ora che la prospettiva di un cessate il fuoco e di negoziati di pace sta diventando più chiara, è di nuovo utile parlare con Putin». Poco prima la presidenza francese aveva fatto sapere che le condizioni del colloquio tra Macron e il presidente della Federazione russa «saranno decise nei prossimi giorni». Di più: sempre secondo fonti vicine al presidente francese l’Eliseo ritiene «gradito» che Putin sia disposto a parlare con Macron.
Proviamo a capire lo scenario che c’è dietro.
1 Putin non è isolato. Si tratta della scommessa persa dall’Unione europea e dall’asse dei volenterosi, del quale Macron era colonna portante con Merz e con Starmer. Una posizione tenuta a galla nonostante i fatti andassero verso tutt’altra direzione: soprattutto in quest’ultimo anno di guerra la Russia ha rafforzato i suoi legami politici ed economici con la Cina (anche a costo di rimetterci rispetto al prezzo del gas e del petrolio venduto a Pechino), con l’India di Modi (il cui approvvigionamento di petrolio è stato riconfermato nonostante i dazi Usa; l’Italia compra dall’India il petrolio russo raffinato), con gli altri Paesi Brics, con la Turchia, con molti Paesi africani, con l’Iran e persino con la Siria. E, last but not least, il rapporto con l’America di Trump, con tanto di invito in Alaska, cerimonia di gran rispetto e un corollario di trattative commerciali e finanziarie affidate a tre uomini d’affari: a Witkoff (miliardario immobiliare e magnate delle criptovalute) e al genero di Trump Kushner per gli Usa, mentre per il fronte russo a Kirill Dmitriev, capo del fondo sovrano russo, ex McKinsey e Goldman Sachs. Insomma, solo l’Europa si ostinava a non voler parlare con Putin, preferendo la tara morale al cinismo della ragion politica ed economica.
2 Le grandi partite energetiche. La minaccia di ritorsioni da parte di Putin rispetto alle grandi aziende anche europee presenti in Russia ha fatto emergere un dietro le quinte di cui si sa ma su cui si preferisce inserire la sordina: l’Europa continua a fare affari in Russia, nonostante le sanzioni. Ci sono fior di multinazionali che operano lì e fanno business in ogni settore: molte operano con sedi in loco, tante altre si limitano a triangolazioni. Tra le multinazionali presenti a Mosca c’è la francese TotalEnergies, la quale ha importanti quote nella società petrolifera Novatek (19,4%) e in quella del gas Yamal Lng (20%), per un valore di oltre 10 miliardi di euro. Si tratta di due delle società energetiche russe che Trump aveva messo nel mirino delle sanzioni ma che poi ha silenziosamente e progressivamente salvato. E qui c’è il nodo della grande partita energetica, nella quale la Francia non può restare isolata.
3 Total, Exxon e le company energetiche russe. Uno dei punti che più interessano agli analisti finanziari americani riguarda il risiko delle società. Secondo il Wall Street Journal le trattative tra Usa e Russia avrebbero un coté di tutto rispetto all’estrazione di terre rare e all’energia. Sempre secondo il giornale americano, il vicepresidente della Exxon Mobil, Neil Chapman, avrebbe incontrato in segreto a Doha Igor Sachin, ex compagno di Putin nel Kgb e oggi capo del colosso pubblico del petrolio Rosneft, per discutere il ritorno della major americana nei grandi progetti di investimento. Secondo diversi analisti specializzati, Trump vorrebbe tentare anche una zampata che sarebbe letale per il mercato europeo: usare Exxon (attraverso una nuova società con i russi) come centrale d’acquisto dell’energia russa da vendere a prezzi maggiori rispetto a quelli che ieri l’Europa e oggi la Cina ha strappato a Mosca. Putin sarebbe ben lieto di fare questo sgambetto alle nostre economie. In uno scenario del genere la Total rischierebbe di restare a guardare il risiko composto sull’asse Usa-Russia. Per questo avrebbe mosso il presidente in scadenza Macron al fine di ripristinare i contatti.
4 Il governo italiano. Alla Meloni va riconosciuto il merito di aver vinto la partita sul non impiego degli asset russi congelati. Proprio per questo avrebbe dovuto cercare di attivare i collegamenti con il Cremlino e bruciare sul tempo Macron con dichiarazioni esplicite. E lasciare così alla Commissione il cerino delle dichiarazioni deliranti contro la Russia. L’ha fatto Macron, aprendo una partita nuova.
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Olesya Ilashchuk, ambasciatrice ucraina in Bulgaria. Nel riquadro, la vittima Danilo Kuzmin
Il rampollo del vicesindaco di Kharkiv torturato e ucciso. Accusato il figlio di un oligarca e di un’ambasciatrice «sessuologa»: «Voleva farsi consegnare 50.000 euro in cripto».
Rispetto alla storia dei torturatori killer ucraini a Vienna, quella dei cessi d’oro per i funzionari corrotti quasi sbiadisce.
Qualche giorno fa, il Tribunale di Kiev ha disposto la custodia cautelare in carcere per due cittadini, uno di 19 e l’altro di 45 anni, accusati del brutale assassinio di un ventunenne, che è stato commesso meno di un mese fa nella capitale austriaca. La vittima era Danilo Kuzmin, figlio di Serhij, il vicesindaco di Kharkiv, una delle città simbolo della resistenza agli invasori russi. Il giovane finito in manette, invece, si chiama Bogdan Rinzhuk ed è il rampollo dell’oligarca Ivan, nonché figliastro di Olesya Ilashchuk, ambasciatrice ucraina in Bulgaria, nominata a dicembre 2022 da Volodymyr Zelensky benché, almeno sui suoi profili social, vantasse un curriculum da sessuologa anziché una carriera diplomatica.
La ricostruzione dell’omicidio lascia sconcertati. Il 25 novembre, i due indagati organizzano un incontro con il malcapitato, che, come Rinzhuk, studia a Vienna. Nessuno dei tre è al fronte: gli universitari sono giustificati, visto che la coscrizione scatta a 25 anni; sul quarantacinquenne non si hanno informazioni precise. È un disertore? Godeva di qualche esenzione? Fatto sta che, nel parcheggio sotterraneo di un hotel di lusso, i presunti assassini aggrediscono Kuzmin, lo picchiano con ferocia, gli fanno letteralmente saltare i denti. Il loro scopo è farsi trasferire su un conto una somma in criptovalute di cui, incautamente, il ragazzo aveva rivelato l’esistenza. Alcune fonti parlano di un colpo da 50.000 euro, altre di 90.000 dollari, cioè quasi 77.000 euro, su un totale di 170.000. Se, memori dell’ultimo scandalo mazzette, vi state chiedendo come sia possibile che la famiglia di un vicesindaco possegga somme del genere in moneta digitale, siete maliziosi ma vi state ponendo la domanda giusta.
Dopo l’estorsione, i sospettati chiudono Danilo nel bagagliaio di una Mercedes, cospargono il corpo e la vettura con la benzina di due taniche comprate prima in una stazione di servizio e gli danno fuoco. Secondo l’autopsia, al momento del rogo la vittima è già morta o è incosciente. Le autorità austriache impiegano 24 ore a identificare i possibili autori del delitto; nella stanza d’albergo che i due hanno occupato, trovano contanti, indumenti, telefoni cellulari; loro sono già fuggiti in Ucraina. Vengono arrestati il 29 novembre a Odessa, anche grazie al supporto di Europol. Finché, qualche giorno fa, i giudici confermano la carcerazione.
L’omicidio impressiona per l’efferatezza, perché è stato commesso in una metropoli dell’Europa occidentale e, ovviamente, per il rango delle persone coinvolte. Come hanno spiegato le testate bulgare - la nazione in cui si è stabilita l’ambasciatrice Ilashchuk - il padre del diciannovenne arrestato è Ivan Rinzhuk, grosso imprenditore di Cernivci. Città che, ironia della sorte, per il suo passato austroungarico si è guadagnata il soprannome di Piccola Vienna. Nel 2011, Rinzhuk venne accusato di corruzione, reato contestato piuttosto di frequente in Ucraina. In ballo c’erano una tangente da 250.000 dollari e il sequestro di gioielli del valore di circa 48 milioni di euro.
Tra il 2011 e il 2015, fu proprio la matrigna del presunto killer a prendere le redini della compagnia dell’oligarca. Ilashchuk fu molto chiacchierata in patria, sia per gli intrecci tra la sua professione e la sua vita familiare, sia quando Zelensky le conferì l’incarico a Sofia. Il 28 dicembre 2022, European Pravda, giornale online ucraino cofinanziato dall’Unione europea, la presentò in termini tutt’altro che lusinghieri. Parlava di una «sconosciuta» al resto del corpo diplomatico, ma nota come «psicoterapeuta», «terapeuta della Gestalt e sessuologa», sebbene non avesse «un titolo di studio medico». Si sarebbe però laureata nel 2005 in relazioni internazionali. «Certe nomine politiche», scriveva il quotidiano, «sono assolutamente inaccettabili. Nella storia dell’Ucraina, non c’è mai stato un simile esempio» di «scarsa professionalità». Eppure, nella storia dell’Ucraina, non erano mancate gestioni personalistiche del potere, tipo quella di Zelensky.
Adesso, la donna ha chiesto di giudicare la vicenda dell’omicidio in Austria solo sulla base di «dati ufficiali e decisioni della Corte», evitando di collegare l’indagine sul figliastro al suo «servizio diplomatico, o di avallare interpretazioni politiche della situazione». Chissà se gli ucraini, almeno sul garantismo, sono in linea con i «nostri valori».
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Luca Zaia (Getty Images)
L’ex governatore: «Io referente per il Nord nella Lega? Se ne può parlare in un congresso, ma senza mettere in discussione Salvini. La Meloni è il miglior premier possibile, sta dando all’Italia prestigio internazionale».
Luca Zaia, ex governatore del Veneto, lo scorso giovedì ha aperto la prima seduta del Consiglio regionale.
«Alle 9.30 spaccate».
Ha sfoderato piglio asburgico.
«Il popolo guarda e giudica. Abbiamo grandi aspettative. In aula si sono sentiti interventi alti e nessuna tromboneria».
È stato inflessibile con i colleghi.
«Il mio compito è dirigere in modo super partes, senza sforare».
Ha imposto il voto per alzata di mano.
«Sono un uomo del digitale. Amo le nuove tecnologie. Devono funzionare, però. Allora, ho detto: “Spegniamo i computer. Non perdiamo altro tempo”».
Urge velocizzare.
«Su quattro ore, alla fine abbiamo splafonato di qualche minuto. Sono un manager e ottimizzo il processo. Cerco di far bene il nuovo mestiere».
Dopo tre legislature da presidente.
«Ci siamo impegnati con un bel programma, in continuità con i miei quindici anni e mezzo. Bisogna fare le leggi, per dar modo alla giunta di essere operativa».
Pochi credono che un fuoriclasse come Zaia rimarrà a lungo a Palazzo Ferro Fini.
«Cerco di prendermi poco sul serio. Occorre relativizzare quello che succede. Dopo la pioggia, arriva sempre il sereno».
Fuor di metafora?
«Ogni nuovo percorso può diventare un’opportunità. Ce l’ho nel sangue: qualsiasi roba, anche la più piccola, devo farla al meglio. Non sono uno di quelli che sta lì, a sbattere la testa contro il muro. Citando il titolo di un mio libro: I pessimisti non fanno fortuna. Dopodiché, ovviamente mi guardo intorno».
L’odierno ruolo potrebbe essere un buon allenamento per diventare presidente della Camera o del Senato?
«A ‘sto punto, fatto trenta facciamo trentuno: aggiungiamoli a sindaco di Venezia, presidente dell’Eni, parlamentare e futuro ministro. Ho sei possibilità, allora. Grasso che cola, eh».
Snoccioliamo le singole ipotesi.
«Ma no, lasciatemi prendere fiato. Sono stati anni impegnativi. L’acqua alta a Venezia, la grande alluvione, un terremoto nel Polesine, il Covid».
E dopo aver rifiatato?
«Restano tutte possibilità di cui si comincerà a discutere tra marzo e maggio».
Nell’attesa, avrà tempo da dedicare alla Lega.
«Sono un militante storico, nel partito più vecchio del Parlamento. Le nostre battaglie rimangono epocali. Come quella di Salvini con Open Arms».
È stato appena assolto dall’accusa di aver impedito lo sbarco della Ong spagnola.
«Matteo ha dato voce a tutti quei cittadini che si ritrovano assediati nelle loro città, per colpa dell’accoglienza senza se e senza ma. Non significa mancanza di compassione o solidarietà. Ma quello è un modello sbagliatissimo, che è stato portato avanti per anni».
Si continua a parlare di un nuovo Carroccio ispirato al modello tedesco, dove l’identitaria Csu bavarese è federata con i conservatori della Cdu.
«Non è certo una novità. Ne avevo già parlato anni fa con Salvini. E l’ho rifatto, recentemente, a Pontida. A ragion venuta: l’autonomia nasce con me, in Veneto».
Quindi?
«Dico semplicemente questo: ci sono due Italie. Il fallimento del modello centralista, nato il primo gennaio del 1948, è evidente. Trovo immorale che un bambino abbia un futuro diverso, se nasce a Milano piuttosto che a Crotone. O che ci siano ancora cittadini costretti a far le valigie per andare negli ospedali del Nord».
La Lega dovrebbe adeguarsi?
«Questo Paese, volente o nolente, cambierà. Così come i partiti: le istanze del militante del Pd di Campione d’Italia sono diverse da quelle del militante di Canicattì. Tutti indosseranno una veste più federale. Sarà inevitabile. Non possiamo riempirci la bocca di nazione e Costituzione, senza prima riconoscere l’ovvio: c’è una questione meridionale che non si può risolvere con l’assistenzialismo».
I governatori del Carroccio sollevano pure la «questione settentrionale».
«Dobbiamo smettere di pensare che sia da egoisti parlarne. Le quattro regioni del Nord guidate dalla Lega hanno un residuo fiscale attivo. Bisogna ascoltarle».
Tanti nel partito la vorrebbero referente per il Nord.
«Sono temi da affrontare, eventualmente, in un congresso. E comunque, non mettono in discussione la figura del segretario».
Gli ex colleghi sono venuti a omaggiarla dopo il trionfo. Tifano per «il Doge».
«Con loro, conservo un rapporto straordinario. Come Salvini sa benissimo, la Lega ha la fortuna di avere una squadra di governatori eccezionali, amati dal popolo. I nostri amministratori sono il vero patrimonio del partito. Lo spartiacque tra movimento di protesta e proposta furono proprio i nostri sindaci. Ci hanno permesso di crescere e prendere un sacco di consensi. Penso innanzitutto a Gentilini».
Lo «sceriffo» di Treviso.
«C’è una Lega prima Gentilini e una Lega dopo Gentilini. Quelli come lui ci hanno sdoganato come forza di governo. Anche i grillini riempivano le piazze, dicendo che avrebbero fatto sfracelli. Una volta messi alla prova, li hanno cacciati. Noi, invece, siamo qui da trent’anni».
Dopo il veto sulla sua lista civica, a metà ottobre, lei è sbottato: «Se sono un problema, vedrò di diventarlo davvero».
«Poi mi sono candidato e abbiamo preso il 36%, stravolgendo ogni sondaggio che ci dava punto a punto con Fratelli d’Italia».
Era un messaggio all’alleato?
«La campagna elettorale è finita. Ognuno ha fatto la sua corsa. Loro, in consiglio regionale, dimostrano grande lealtà. E considero Giorgia Meloni il migliore presidente del Consiglio possibile. Sta dando al Paese un prestigio internazionale che non si vedeva dai tempi di Berlusconi. Ha investito nella politica estera, in un mondo sempre più piccolo. Una scelta intelligente».
L’opposizione eccepisce.
«Se avessimo lo spread a 200 punti, sarebbero scesi in piazza con i cartelli. Invece, il differenziale è ai minimi storici. Non si tratta di un primato teorico. Vuol dire pagare meno il debito pubblico e avere risorse da investire per gli italiani, a cominciare dalla sanità».
Alle ultime regionali ha preso oltre 200.000 voti. Un record assoluto. Le piacerebbe cimentarsi in un’elezione nazionale?
«Non anticipo nulla, per ora sono concentrato sul mio nuovo incarico. Questo non è un parcheggio. Ho ancora un elenco interminabile di cittadini che vogliono incontrarmi».
Cosa le chiedono?
«Mi raccontano pure della lite con il vicino. Come dico a tutti: non ho la sfera di cristallo, ma ascolto e cerco di consigliare».
Il suo vittorioso slogan è stato: «Dopo Zaia, scrivi Zaia».
«Ho vissuto in mezzo al popolo per oltre quindici anni, prendendo decisioni non sempre facili: pandemie, catastrofi, alluvioni... Ma io sono un uomo da pantano. È il terreno in cui mi muovo meglio».
Il ricordo più lieto, invece?
«Aver portato le Olimpiadi invernali in Veneto. La candidatura di Cortina l’ho inventata io».
Presenzierà o guarderà da lontano?
«Qualche ora fa mi hanno invitato alla cerimonia d’apertura a Milano, il 6 febbraio».
Ora anche le sue strade potrebbero portare a Roma. Proprio mentre Attilio Fontana avverte sul rischio della politica «all’amatriciana».
«Quella politica l’ho già conosciuta da giovane, quando fui chiamato all’Agricoltura. Il presidente Napolitano mi chiese: “Che ministro sarà?”. Io risposi: “Con le scarpe sporche di terra”. In quegli anni non partecipai mai a un convegno, giravo le aziende e incontravo i contadini. Alla fine, tutto si riduce a un problema di interpretazione».
Tranquillizziamo il governatore lombardo.
«A Roma l’autoreferenzialità diventa un pericolo reale, ma non c’è politica senza rapporto con il popolo».
Non si strugge per il potere?
«Ho sempre vissuto con spirito di servizio. Anche la parola ministro vuol dire servitore. Ripartiamo dall’etimologia».
Intanto, presiede il consiglio veneto.
«Mai si dovrà dire che l’ho gestito male».
Nel frattempo?
«Riordino le idee».
In che modo?
«Cammino. Faccio sette chilometri al giorno».
Medita sul suo luminoso domani?
«Seneca scrive che non è la vita a essere breve. È l'uomo che l’accorcia, sperando nel futuro senza vivere il presente».
A cosa pensa, allora?
«Sono figlio di un meccanico e una casalinga. Penso a quelli che non arrivano a fine mese».
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La sede di Radio Blackout a Torino (Ansa)
Radio Blackout paga meno della metà del prezzo (6.965 euro).
Se c’è una cosa a cui il Partito democratico e la sinistra istituzionale si sono dimostrati allergici in questi anni è il dissenso. Tra richieste di censura, commissioni di sorveglianza e demonizzazioni feroci nei riguardi di presunti razzisti, no vax e putiniani assortiti, hanno condotto una battaglia senza quartiere contro la libertà di espressione. Curiosamente, tuttavia, in qualche occasione i sinceri democratici si riscoprono tolleranti e inclusivi, e si ergono addirittura a baluardo delle posizioni dissenzienti. Emblematico in tal senso è il caso della torinese Radio Blackout, emittente dell’antagonismo piemontese, che si è distinta negli ultimi tempi per il grande sostegno offerto ad Askatasuna, con cui condivide per lo meno la cultura politica e forse pure qualche militante. Piccolo esempio. Una delle voci di Radio Blackout, Cibele, ha concesso il 3 dicembre una intervista a Radio Onda d’urto per commentare il noto attacco alla sede della Stampa. Ha sostenuto che l’azione fosse «formalmente non violenta» e che «si è parlato molto impropriamente di un assalto squadrista». Sono opinioni personali e persino legittime pure queste, per carità, ma fanno capire quale sia l’ambiente e quale l’ideologia.
In questi giorni l’emittente ha seguito con estrema attenzione le vicende del centro sociale, mobilitandosi sin dai momenti appena successivi allo sgombero. «Nella giornata del 18 dicembre abbiamo assistito a un’ingente operazione di polizia che ha portato allo sgombero del centro sociale Askatasuna», si legge sul sito della radio. «Un’operazione che riguarda l’attacco allo spazio sociale e allo stesso tempo alle lotte sociali del capoluogo piemontese e non solo». Blackout ha molto sponsorizzato anche il corteo di sabato, di cui ha dato conto con attenzione, in parte agendo come facevano le radio antagoniste degli anni Settanta, cioè dando indicazioni ai militanti su come muoversi e fornendo un puntuale resoconto degli scontri e dell’andamento del corteo.
Per carità, tutto già visto e nemmeno troppo sconvolgente. C’è però un piccolo particolare non trascurabile. La radio degli antagonisti, aperta dal 1992, si trova in via Cecchi, in un edificio pubblico di cui è responsabile la circoscrizione 7. Tutto questo grazie a una concessione che le giunte comunali di sinistra hanno sempre rinnovato. Nel 2023 Fratelli d’Italia chiese di cancellare la concessione all’emittente dei centri sociali per destinare gli spazi occupati dalla radio alla Casa del quartiere. Richiesta comprensibile: si trattava di restituire ai cittadini spazi gestiti a piacimento dalla sinistra radicale. Michela Favaro, vice del sindaco dem Stefano Lorusso, si mostrò fortemente contraria. «Questa concessione è stata costituta nel 1995 con finalità sociali e di comunicazione radiofonica, audiovisiva e informatica», disse. La Favaro fornì anche alcuni dati. Un contratto di concessione, disse, è stato firmato il 6 settembre 2016 per quattro anni (scadenza il 30 giugno 2019). È stato poi siglato un ulteriore contratto il 29 settembre 2019 a un canone di 6.965 euro all’anno (valore di mercato del canone: 14.075 euro), per ulteriori quattro anni (scadenza: 31 ottobre 2025). A quanto risulta, dunque, il contratto sarebbe pure scaduto. Ma la radio rimane al suo posto.
«Radio Blackout trasmette su una frequenza riconosciuta dal ministero ed è iscritta come testata giornalistica al tribunale», disse ancora la Favaro. «Le considerazioni per cui non è opportuno dare i locali comunali della circoscrizione 7 a canone ridotto, sono politiche. Non mi sento di sospendere questa concessione, diventerebbe una sorta di censura: non ritengo che sia una cosa che un’amministrazione possa fare. In democrazia si può anche contestare». Ma pensa, in qualche caso in democrazia si può anche contestare. Ebbe a ribadirlo pure Lorenza Patriarca, consigliere del Pd: «Il contratto può essere revocato per giusta causa, non per motivazioni politiche». Già: una concessione si può dare per motivi politici, ma non revocare. Dubitiamo infatti che il Comune avrebbe agito allo stesso modo con una radio di estrema destra.
Del resto il Pd è lo stesso partito che, almeno sul territorio torinese, ha decisamente criticato lo sgombero di Askatasuna. «Scelta fatta per superficialità o, peggio, per volontà di consegnare la città al disagio», l’hanno definita Gianna Pentenero e Nadia Conticelli. I dem sono appena più moderati di Avs, i cui consiglieri hanno partecipato ai cortei di protesta degli antagonisti, compreso quello di sabato finito con scontri, botte e feriti.
«L’ambiguità politica del centrosinistra con gli antagonisti di Askatasuna ha radici profonde nella concessione in affitto a canone politico dei locali dove ha sede la radio che gli autonomi torinesi condividono con gli anarchici, Radio Blackout», dice l’assessore regionale di Fdi Maurizio Marrone, che dopo lo sgombero è stato destinatario di minacce e intimidazioni da parte degli antagonisti. «Anche qui dietro alle frottole sulla libertà di dissenso si nasconde un’emittente che dà istruzioni pratiche durante i cortei su come attaccare o aggirare le forze dell’ordine, agli immigrati clandestini e spacciatori come evitare retate e controlli, ai tossicodipendenti come continuare a drogarsi in sicurezza. Uno schifo che ora deve essere messo fuori dal centro civico frequentato anche da famiglie e bambini».
A quanto pare, a Torino si gioca alla rivoluzione negli spazi concessi dal Comune, che ha interrotto il patto con Askatasuna malvolentieri (il sindaco Lorusso ha spiegato che lo sgombero non è dipeso da lui) e che continua a dare agli antagonisti supporto per le loro attività di «controinformazione». Con tutta evidenza, ai dem piace il dissenso quando porta qualche frutto politico. Tanto se esplode il caos in strada a rimetterci sono sempre altri.
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