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2019-08-16
Tra Riad e Abu Dhabi l'idillio si è rotto
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Ansa
A livello generale, i rapporti di forza tra i due Stati sono indubitabilmente a favore di Riad. L'Arabia Saudita è attualmente al secondo posto a livello mondiale in termini di riserve petrolifere, rispetto alla posizione occupata dagli Emirati. Inoltre - secondo il Fondo Monetario Internazionale - se la prima nel 2018 ha registrato un prodotto interno lordo di oltre 782 miliardi di dollari, i secondi non hanno ottenuto la soglia dei 433 miliardi. Del resto, non bisogna trascurare la differenza territoriale tra i due Paesi, con l'Arabia Saudita che può vantare oltre due milioni di chilometri quadrati, contro i circa 80 degli Emirati Arabi Uniti.
Soprattutto negli ultimi anni i due Stati hanno mostrato una progressiva convergenza, principalmente dettata da una visione comune su alcune domande specifiche. Non solo entrambi hanno infatti perseguito una strategia geopolitica profondamente avversa all'Iran ma sono anche orientati verso un atteggiamento decisamente ostile nei confronti dell'Islam politico, sempre più inteso come una pericolosa fonte di destabilizzazione. Una linea, controllata, su cui ha esercitato un peso considerevole il cambio di strategia sulla questione, adottato negli Stati Uniti da Donald Trump rispetto all'amministrazione Obama. Tale condivisione d'intenti non è poi rimasta nella vaga astrattezza ma, anzi, ha avuto modo di concretizzarsi in una serie di scelte ben precise.
Nel 2014, per esempio, Riad e Abu Dhabi hanno appoggiato l'ascesa al potere, in Egitto, del generale al-Sisi, condividendo la sua avversione nei confronti dell'islamismo e - in particolare - della Fratellanza Musulmana: quella stessa Fratellanza Musulmana che , spalleggiato di fatto da Obama ai tempi delle Primavere Arabe, aveva non un caso espresso il precedente presidente egiziano, Mohamed Morsi. Questa è stata la volta del riad di Abu Dhabi e di un peggioramento delle relazioni con la Turchia di Erdogan, da sempre sostenitore dei Fratelli Musulmani. Un contesto aggiunto peggiorato negli anni successivi, visto che il Sultano ha per esempio accusato gli Emirati di avere un colpo di responsabilità in Turchia nel 2016. Anche sul fronte iraniano, poi, Riad e Abu Dhabi hanno la medesima linea. Nel 2015 gli emiratini sono entrati in una parte della coalizione a guida saudita nel conflitto dello Yemen contro i ribelli Huthi (spalleggiati da Teheran), occupandosi prevalentemente delle operazioni di terra. Inoltre, nel 2017, i due Stati hanno mostrato una piena convergenza nel rompere i rapporti diplomatici con il Qatar, da parte loro accusato di eccessiva accondiscendenza con l'Iran, oltre che da finanziare gruppi islamisti come la stessa Fratellanza Musulmana. Non a caso, quell'atto rinfocolò le tensioni tra Abu Dhabi e Ankara. da loro accusato di eccessiva accondiscendenza con l'Iran, oltre che da gruppi di islamisti come la stessa Fratellanza Musulmana. Non a caso, quell'atto rinfocolò le tensioni tra Abu Dhabi e Ankara. da loro accusato di eccessiva accondiscendenza con l'Iran, oltre che da gruppi di islamisti come la stessa Fratellanza Musulmana. Non a caso, quell'atto rinfocolò le tensioni tra Abu Dhabi e Ankara.
Ciononostante quella che appariva a tutti gli effetti come un'alleanza di ferro ha iniziato a scricchiolare negli ultimi tempi. In primo luogo, pur essendo formalmente una posizione critica verso l'Iran, Abu Dhabi ha iniziato a smorzare i toni, mostrando di aver fatto una linea più morbida. In occasione degli attacchi alle petroliere dello scorso 12 maggio, per esempio, gli Emirati hanno evitato di usare una retorica bellicosa contro Teheran e - con il prosieguo della crisi nel Golfo Persico - sono mostrati propensi più alla soluzione diplomatica che non alla postura aggressiva, assunta da Riad.
Tuttavia, il problema più significativo della questione risiede probabilmente nel disimpegno che Abu Dhabi ha iniziato ad attuare proprio nello scenario yemenita. Lo scorso luglio, ha effettivamente annunciato un parziale ritiro delle truppe attualmente impegnate sul territorio, invocando - non a caso - l'assunzione di un approccio incentrato sulla diplomazia. Una scelta che - secondo indiscrezioni riportate dal New York Times - Riad non segnalato più di tanto. D'altronde, alla base della mossa di Abu Dhabi possono essere ravvisate svariate motivazioni. Innanzitutto, nonostante le stime di crescita positive per il futuro elaborate dal Fondo monetario internazionale, il Paese sta riscontrando un rallentamento economico che ha determinato un aumento del tasso di disoccupazione: un tasso che, a partire dal 2015, ha riscontrato un aumento sempre più , raggiungendo il suo livello massimo proprio negli ultimi mesi. Una simile situazione potrebbe aver spinto Abu Dhabi a un passo indietro. Più che mai, se si arriva a una divisione dello Yemen (con gli Huthi a Nord e le forze filo-saudite a Sud), per gli Emirati si prospetterà una situazione tutt'altro che negativa. Un'ulteriore sfida potrebbe poi risiedere nel crescente timore di Abu Dhabi nei confronti di Teheran. La crisi del Golfo Persico sta diventando sempre più intensa, mentre la Casa Bianca ha mostrato una certa riluttanza al coinvolgimento diretto americano nello scacchiere iraniano. Un elemento che potrebbe aver spinto gli Emirati a richiamare i propri soldati anche a uno scopo difensivo.
Bisognerà ovviamente vedere in che modo si svilupperà la situazione. Tuttavia alcune di quelle che potrebbero essere delle ripercussioni per gli americani è già possibile intravederle. A livello di rapporti tra Stati le cose potrebbero mutare poco, qualora si consumasse una rottura tra Riad e Abu Dhabi. Nonostante Trump intrattenga con i sauditi una forte alleanza, questo non gli ha comunque impedito di rinsaldare pragmaticamente i propri rapporti per esempio con il Qatar (che con loro è attualmente ai ferri corti). Il problema maggiore per il quadrilatero della Casa Bianca potrebbe sorgere nella guerra dello Yemen. Il parziale disimpegno degli emiratini potrebbe indebolire non poco la coalizione militare a guida saudita. Una notizia non troppo positiva per Trump che, negli scorsi mesi, ha difeso l'intervento che l'America ha fornito questa coalizione dagli "attacchi" del Congresso. Trump punta infatti a mantenere in piedi un fronte di pressione sull'Iran, senza tuttavia un coinvolgimento militare coinvolto nel conflitto. Un modo, quindi, per spingere Teheran a trattare per la rinegoziazione registrata sul nucleare, altrimenti - il rischio - restare impelagato nell'ennesimo scenario caldo mediorientale. Infine, con la mossa di Abu Dhabi, Trump teme probabilmente anche problemi sul fronte economico. Gli Emirati Arabi Uniti hanno sempre acquistato considerevoli quantità di armamenti dagli Stati Uniti: soltanto lo scorso febbraio, lo Stato ha concesso appalti per quasi due miliardi di dollari a colossi americani come Lockheed Martin e Raytheon.
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Le relazioni tra Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno partecipato a traballare. Si tratta di un fattore significativo, soprattutto se letto alla luce delle crescenti turbolenze che stanno sempre più caratterizzando lo scacchiere mediorientale.A livello generale, i rapporti di forza tra i due Stati sono indubitabilmente a favore di Riad. L'Arabia Saudita è attualmente al secondo posto a livello mondiale in termini di riserve petrolifere, rispetto alla posizione occupata dagli Emirati. Inoltre - secondo il Fondo Monetario Internazionale - se la prima nel 2018 ha registrato un prodotto interno lordo di oltre 782 miliardi di dollari, i secondi non hanno ottenuto la soglia dei 433 miliardi. Del resto, non bisogna trascurare la differenza territoriale tra i due Paesi, con l'Arabia Saudita che può vantare oltre due milioni di chilometri quadrati, contro i circa 80 degli Emirati Arabi Uniti.Soprattutto negli ultimi anni i due Stati hanno mostrato una progressiva convergenza, principalmente dettata da una visione comune su alcune domande specifiche. Non solo entrambi hanno infatti perseguito una strategia geopolitica profondamente avversa all'Iran ma sono anche orientati verso un atteggiamento decisamente ostile nei confronti dell'Islam politico, sempre più inteso come una pericolosa fonte di destabilizzazione. Una linea, controllata, su cui ha esercitato un peso considerevole il cambio di strategia sulla questione, adottato negli Stati Uniti da Donald Trump rispetto all'amministrazione Obama. Tale condivisione d'intenti non è poi rimasta nella vaga astrattezza ma, anzi, ha avuto modo di concretizzarsi in una serie di scelte ben precise.Nel 2014, per esempio, Riad e Abu Dhabi hanno appoggiato l'ascesa al potere, in Egitto, del generale al-Sisi, condividendo la sua avversione nei confronti dell'islamismo e - in particolare - della Fratellanza Musulmana: quella stessa Fratellanza Musulmana che , spalleggiato di fatto da Obama ai tempi delle Primavere Arabe, aveva non un caso espresso il precedente presidente egiziano, Mohamed Morsi. Questa è stata la volta del riad di Abu Dhabi e di un peggioramento delle relazioni con la Turchia di Erdogan, da sempre sostenitore dei Fratelli Musulmani. Un contesto aggiunto peggiorato negli anni successivi, visto che il Sultano ha per esempio accusato gli Emirati di avere un colpo di responsabilità in Turchia nel 2016. Anche sul fronte iraniano, poi, Riad e Abu Dhabi hanno la medesima linea. Nel 2015 gli emiratini sono entrati in una parte della coalizione a guida saudita nel conflitto dello Yemen contro i ribelli Huthi (spalleggiati da Teheran), occupandosi prevalentemente delle operazioni di terra. Inoltre, nel 2017, i due Stati hanno mostrato una piena convergenza nel rompere i rapporti diplomatici con il Qatar, da parte loro accusato di eccessiva accondiscendenza con l'Iran, oltre che da finanziare gruppi islamisti come la stessa Fratellanza Musulmana. Non a caso, quell'atto rinfocolò le tensioni tra Abu Dhabi e Ankara. da loro accusato di eccessiva accondiscendenza con l'Iran, oltre che da gruppi di islamisti come la stessa Fratellanza Musulmana. Non a caso, quell'atto rinfocolò le tensioni tra Abu Dhabi e Ankara. da loro accusato di eccessiva accondiscendenza con l'Iran, oltre che da gruppi di islamisti come la stessa Fratellanza Musulmana. Non a caso, quell'atto rinfocolò le tensioni tra Abu Dhabi e Ankara.Ciononostante quella che appariva a tutti gli effetti come un'alleanza di ferro ha iniziato a scricchiolare negli ultimi tempi. In primo luogo, pur essendo formalmente una posizione critica verso l'Iran, Abu Dhabi ha iniziato a smorzare i toni, mostrando di aver fatto una linea più morbida. In occasione degli attacchi alle petroliere dello scorso 12 maggio, per esempio, gli Emirati hanno evitato di usare una retorica bellicosa contro Teheran e - con il prosieguo della crisi nel Golfo Persico - sono mostrati propensi più alla soluzione diplomatica che non alla postura aggressiva, assunta da Riad.Tuttavia, il problema più significativo della questione risiede probabilmente nel disimpegno che Abu Dhabi ha iniziato ad attuare proprio nello scenario yemenita. Lo scorso luglio, ha effettivamente annunciato un parziale ritiro delle truppe attualmente impegnate sul territorio, invocando - non a caso - l'assunzione di un approccio incentrato sulla diplomazia. Una scelta che - secondo indiscrezioni riportate dal New York Times - Riad non segnalato più di tanto. D'altronde, alla base della mossa di Abu Dhabi possono essere ravvisate svariate motivazioni. Innanzitutto, nonostante le stime di crescita positive per il futuro elaborate dal Fondo monetario internazionale, il Paese sta riscontrando un rallentamento economico che ha determinato un aumento del tasso di disoccupazione: un tasso che, a partire dal 2015, ha riscontrato un aumento sempre più , raggiungendo il suo livello massimo proprio negli ultimi mesi. Una simile situazione potrebbe aver spinto Abu Dhabi a un passo indietro. Più che mai, se si arriva a una divisione dello Yemen (con gli Huthi a Nord e le forze filo-saudite a Sud), per gli Emirati si prospetterà una situazione tutt'altro che negativa. Un'ulteriore sfida potrebbe poi risiedere nel crescente timore di Abu Dhabi nei confronti di Teheran. La crisi del Golfo Persico sta diventando sempre più intensa, mentre la Casa Bianca ha mostrato una certa riluttanza al coinvolgimento diretto americano nello scacchiere iraniano. Un elemento che potrebbe aver spinto gli Emirati a richiamare i propri soldati anche a uno scopo difensivo.Bisognerà ovviamente vedere in che modo si svilupperà la situazione. Tuttavia alcune di quelle che potrebbero essere delle ripercussioni per gli americani è già possibile intravederle. A livello di rapporti tra Stati le cose potrebbero mutare poco, qualora si consumasse una rottura tra Riad e Abu Dhabi. Nonostante Trump intrattenga con i sauditi una forte alleanza, questo non gli ha comunque impedito di rinsaldare pragmaticamente i propri rapporti per esempio con il Qatar (che con loro è attualmente ai ferri corti). Il problema maggiore per il quadrilatero della Casa Bianca potrebbe sorgere nella guerra dello Yemen. Il parziale disimpegno degli emiratini potrebbe indebolire non poco la coalizione militare a guida saudita. Una notizia non troppo positiva per Trump che, negli scorsi mesi, ha difeso l'intervento che l'America ha fornito questa coalizione dagli "attacchi" del Congresso. Trump punta infatti a mantenere in piedi un fronte di pressione sull'Iran, senza tuttavia un coinvolgimento militare coinvolto nel conflitto. Un modo, quindi, per spingere Teheran a trattare per la rinegoziazione registrata sul nucleare, altrimenti - il rischio - restare impelagato nell'ennesimo scenario caldo mediorientale. Infine, con la mossa di Abu Dhabi, Trump teme probabilmente anche problemi sul fronte economico. Gli Emirati Arabi Uniti hanno sempre acquistato considerevoli quantità di armamenti dagli Stati Uniti: soltanto lo scorso febbraio, lo Stato ha concesso appalti per quasi due miliardi di dollari a colossi americani come Lockheed Martin e Raytheon.
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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