2024-02-18
«La terra e i suoi doni non spengono la sacrosanta nostalgia dell’eterno»
Massimo Morasso (Getty Images)
Il poeta Massimo Morasso: «Credo poco al visibile e molto più all’invisibile. La parola deve essere un antidoto al nullismo, in senso ascendente. Mentre la poesia oggi è sempre più autoreferenziale e punta al mercato di massa».Massimo Morasso (Genova, 1964) è poeta, saggista, traduttore e organizzatore culturale. Ha tradotto poeti e autori dal tedesco e dall’inglese, ha curato saggi sull’opera di Rilke, Benjamin, Campo e Congdon; è autore della Carta per la Terra e per l’Uomo (2001) firmata da intellettuali e premi Nobel, è autore di diverse opere poetiche tra le quali Il portavoce (1997-2003), Le poesie di Vivien Leigh (2005), L’opera in rosso (2016) e American dreams (2019). Per la sua opera ha ricevuto i premi Gozzano e Catullo. Da pochi giorni è in libreria la sua nuova raccolta di poesie, Frammenti di nobili cose (Passigli).Che cosa sono le nobili cose?«Sono una suggestione che viene dal Canzoniere di Petrarca. Il titolo originale del quale è Rerum vulgarium fragmenta. Ecco, io penso che nell’oggi della poesia ci si stia crogiolando un po’ troppo fra i frammenti di cose “volgari”. Ho idea, invece, che sia opportuno contrapporre un nuovo slancio verticale alla mania novecentesca, e poi novecentista, della de-sublimazione. Quello che ora sento di dover fare quando scrivo dei versi è sì raccontare attraverso la poesia la storia della mia vita interiore, dando fiato, ostinatamente, a una voce che altri potrebbero definire neolirica, ma andando in direzione contraria alla deriva psicologistica. La poesia è bene che sia un antidoto al nullismo e alla sua presupponenza scettica. E può esserlo, nel buon esercizio artigianale della forma, quando veicola un pensiero profondo, riccamente umano: sempre in movimento; sempre ascendente, e al contempo discendente; sorretto da un moto pendolare della mente che va dal mondo creato agli invisibilia e viceversa, e che comprende la realtà come un sacramento». Le poesie di questa raccolta ci raccontano di un indagare e di un setacciare inesausto tra tutte le cose: dall’hamburger di chianina a Dio. Che cosa ha trovato?«Niente di nuovo. Che tutti, cose e persone, siamo fatti della stoffa dei sogni. Come ha scritto Friedrich Schelling, che era un genio, il mondo è spirito pietrificato. Di qualunque cosa si parli, si è già nel bel mezzo di un mito. E il mito originario non è, in fondo, se non una fiaba. La questione è se ce ne accorgiamo, oppure no».In una poesia scrive: «Ora ho levato / il mondo e / vivo solo negli anfratti / meno esposti del reale: / sono una nostalgia celeste / ardentemente arresa al suo delirio». In un’altra poesia aggiunge: «La spaesatezza, / il sentimento celeste di un esilio.» Non si comprende se si tratti di un’accettazione di una propria personale e individuale resa al margine del mondo, o se sia una vocazione l’abitare il margine, la crepa, l’anfratto, l’esilio?«Di quelle che ha proposto scelgo la seconda opzione. Non parlerei, tuttavia, propriamente di vocazione. Quello che è certo è che non potrei mai dire che questa terra e i suoi doni mi bastano, per spegnere in me la mia sacrosanta nostalgia dell’eterno. Come Cristina Campo, io credo pochissimo al visibile, e molto all’invisibile, che, in ogni caso, è forse la cosa che mi interessa di più. Credo anche nella natura e nel destino catacombale del gesto poetico. Chi sta tentando di portare la poesia verso il mercato di massa, mi farebbe sorridere, se non lo riconoscessi come un araldo di un quasi-niente del pensiero che presuppone d’essere molto, e che, purtroppo, tuttavia, orienta i più. Dalla mia prospettiva, vedo bene che il margine, l’anfratto eccetera sono, dei luoghi di raccoglimento che si possono ritenere appunto marginali o che possono orientare la vita riflessa verso un Polo Nord immaginato e pur vero. Oggi, però, nelle nazioni scientifiche e industriali post moderne, la pratica in senso creativo dell’immaginazione costituisce soprattutto una fonte di malattie spirituali. Una delle cose più inquietanti è che fra i lettori di poesia più influenti c’è chi attribuisce una qualità visionaria a dei poeti, anche a dei sedicenti grandi poeti, che forse invece andrebbero messi in ridicolo sulla pubblica piazza, per quanto sono insulsi e terra terra. Provo una sensazione di fastidio di fronte alla poesia appagata, autoreferenziale, di taglio illuminista-immanentista, scritta come da sopra a un piedistallo. Quella, mi sembra, è una resa al margine del mondo. Un malvezzo, per la verità, che ha almeno il pregio di consegnare la poesia alla marginalità che le pertiene. Per me, la poesia, per essere poesia, dev’essere una fioritura del pensiero, e non una verbosa escrescenza dell’io che la scrive».Quanti libri oramai escono dedicati al mondo, al paesaggio, a Gea. Come mai tanti poeti sembrano rincorrere e imitare e voler incarnare modelli sociologici? Non è forse un segnale di povertà individuale? Possibile che così tanti poeti oramai sentano di dover parlare tutti delle stesse cose, di una vocazione per così dire spirituale ed estatica? Piccole minime illuminazioni tra erbe, fiori, cortecce e paesaggi ordinari?«Tanti libri di poesia sono senza valore, perché danno conto, in sostanza, di un itinerario nell’anima di corto cabotaggio. Mi sono accorto presto che le “piccole illuminazioni” alle quali ha accennato nella sua domanda sono, per così dire, il refugium peccatorum di molte persone che s’industriano a scrivere in versi, ma che, in effetti, non hanno alcuna autentica vocazione spirituale ed estatica. Se si vuole avere almeno una vaga idea di cosa significhino due parole essenziali come illuminazione ed estasi, occorre andare al di là della poesia per come troppi la fanno. Naturalmente trovo affinità con molti dei miei compagni di strada lungo la difficile via che porta alla poesia. Il mio amico-maestro Mario Luzi col suo lavoro mi ha fatto capire, una volta per tutte, che ancora oggi è possibile far “volare alta” la parola, per tentare di farle toccare “il nadir e lo zenith della sua significazione”. Il che, sia chiaro, non vuol dire affatto desensibilizzarla e abbandonarla alle astrattezze della metafisica, ma restituirla al suo gradiente simbolico».
Jose Mourinho (Getty Images)