2025-02-24
«Temo un esercito comune Ue. Tuteliamo la nostra sovranità»
Il generale Marco Bertolini: «Prevedibile la sconfitta di Kiev. Ora il nostro interesse è mantenere Mosca agganciata all’Europa. Trump riconosce che il mondo è multipolare, come dice Putin».Generale Marco Bertolini, secondo Sun Tzu quella della guerra è un’arte. Ma se invece fosse una scienza, probabilmente sarebbe pure esatta. Lei come esperto, assieme ad altri (pochi) prestigiosi colleghi, aveva esattamente previsto fin dall’inizio che l’Ucraina non avrebbe potuto fare più di ciò che ha fatto. E ora siamo di fatti arrivati alla sua resa.«Sicuramente fin dall’inizio questo esito poteva essere previsto. Bastava affidarsi a un metro oggettivo: quello delle rispettive forze in campo. Uomini e arsenali in prima battuta. E per molti giocava un ruolo il pregiudizio illusorio secondo il quale la nostra tecnologia di Paesi democratici non potesse che prevalere. Ma come ha detto la guerra non è solo scienza. Ma anche arte. E qui entrano in gioco altri fattori essenziali, quali soprattutto il morale e la motivazione dei combattenti. Un esito diverso in cui fosse l’Ucraina a prevalere poteva essere sperato, più che previsto. Resta che si tratta di un conflitto tra due Paesi che non sono né nella Ue né nella Nato, per il quale non possiamo sacrificare la nostra sopravvivenza. A questo si aggiunga il classico cigno nero, l’elezione di Trump, che ha cambiato definitivamente il corso degli eventi mischiando caoticamente le posizioni delle diverse sfumature delle destre e delle sinistre nostrane».Nel dibattito sulla guerra in Ucraina nessuno osa mai toccare il tema del macabro bilancio delle vittime sul campo. Lei in proposito, generale, si è fatta un’idea?«Ci si può fare un’idea consultando molteplici fonti da entrambe le parti. Ma quello che trovo rilevante, al di là della triste contabilità, spesso utilizzata strumentalmente per fini di parte, è la valutazione che possiamo trarre dalla semplice osservazione dei fatti. Se i russi sul territorio continuano ad avanzare significa che sul campo hanno perdite minori rispetto a quelle della parte avversa. A questo si aggiunga che il conto non può essere fatto solo sui morti. Ci sono anche i feriti, che devono essere curati e gestiti. E questo è un peso non indifferente per chiunque. Si aggiungano i prigionieri, di cui non si parla mai, e i disertori che nelle file ucraine sono aumentati, condizionando inevitabilmente l’esito del conflitto che vediamo».Da esperto di geopolitica oltreché di guerra, quale significato dà al fatto che le delegazioni americana e russa hanno scelto di confrontarsi in Arabia Saudita invece della classica Ginevra?«Conferma che il Medio Oriente è un’area centrale per gli interessi di entrambi i Paesi che mirano a una normalizzazione dei rapporti reciproci in quell’area dopo i traumatici eventi degli ultimi due anni. Dal conflitto Israele-Hamas e poi con Hezbollah alla caduta del regime siriano sostituito con quello di un signore che fino a qualche settimana prima veniva da tutti riconosciuto come un terrorista. L’Arabia Saudita ha una leadership nel Medio Oriente meridionale e sunnita. È punto di riferimento per Washington contro l’Iran. E Riad può esercitare un ruolo essenziale nella ricostruzione di Gaza e sulla gestione del prezzo del greggio che resta strumento essenziale di potenza, per Russia e Usa. L’idea di trasformare Gaza in una riviera rimane una boutade. Però ha costretto tutti, Paesi arabi e Israele, a rivedere gli approcci. L’Arabia è dunque il contesto ideale per il confronto tra le due superpotenze, anche se tecnicamente, la superpotenza è solo una. Gli Usa». La Russia non è sicuramente una superpotenza economica, ma da un punto di vista militare...«Seimila testate nucleari. Mosca è un interlocutore con cui non si può scherzare».L’approccio negoziale di Trump è urticante. Gli epiteti contro Zelensky sono lì a ricordarcelo. La sua tecnica prevede uno scientifico rovesciamento del tavolo per arrivare a proposte quasi oscene. Poi retrocede sui veri obiettivi. E parrebbe di intuire che Trump ha una fretta maledetta. Concorda? E soprattutto fretta di arrivare dove?«Per quel che riguarda gli epiteti, mi paiono molto più significativi per noi quelli che Vance ha rivolto a un certo tipo di “valori” dell’Ue, mettendo in fibrillazione tutte le parti politiche nostrane. Non ci è più riconosciuto il ruolo di figli della gallina dalle uova d’oro. Quanto alla fretta di Trump, deriva dal fatto che non ha molto tempo a disposizione. Quattro anni passano in fretta e soprattutto fra due anni ci saranno le elezioni di midterm».Si rinnova l’intera Camera bassa e un terzo del Senato.«La leadership del presidente in carica esce spesso ridimensionata. I risultati servono anche per sperare di continuare ad avere il supporto popolare necessario ad arrivare alla fine del mandato. E da lì, magari, farsi sostituire da un nuovo presidente che gli dia continuità».Sulla fretta concordiamo. Ma per arrivare dove?«L’obiettivo è figlio di una visione completamente diversa da quella degli ultimi inquilini democratici della Casa Bianca. Clinton, Obama e Biden, senza escludere il repubblicano Bush. Secondo i quali il mondo è una realtà unipolare, in cui gli Stati Uniti hanno il diritto-dovere di esportare il loro modello anche e soprattutto con la guerra, indipendentemente dalle situazioni storiche, geografiche, economiche e culturali dei vari Paesi. Una visione ideologica che ha portato a fallimenti enormi. Si pensi alle conseguenze delle destabilizzazioni nei Balcani, in Siria, in Afghanistan e in Libia. Area questa che ci riguarda da vicino e sulla quale abbiamo fatto brutta figura come Italia, abbandonandola dopo le aperture di Berlusconi. La visione di Trump, al contrario, è più pragmatica perché riconosce che il mondo è sostanzialmente multipolare, come sostiene Putin. E con gli altri “poli” si discute».Se l’obiettivo di Trump fosse rompere il triangolo Mosca-Pechino-Teheran, diciamo che gli astri si starebbero meravigliosamente coordinando in favore di questo piano. Israele ha inferto un duro colpo all’Iran e Trump vuole allontanare Putin da Xi. Russia e Cina non sono alleate naturali. Mai state due anime in un nocciolo. «Concordo che la saldatura Russia-Cina sia stata favorita dalle scelte sciagurate della precedente dell’amministrazione Biden che ha favorito questa guerra in Ucraina. Se Trump non avesse vinto le elezioni nel 2016, probabilmente questa situazione l’avremmo vissuta con quattro anni di anticipo. E quando Biden è arrivato alla Casa Bianca, siamo ripartiti da questo conflitto. La conseguenza è stata quella di dare la Russia in pasto alla Cina allontanandola da noi. Il nostro interesse penso sia invece mantenerla saldamente legata all’Europa, di cui peraltro fa parte».Poi c’è l’Iran.«Che in quella porzione di Medio Oriente si è contesa il ruolo di potenza egemone sciita in antitesi con la sunnita Arabia Saudita, fino alla normalizzazione degli ultimi due anni. Teheran indubbiamente si sente minacciata e per questo ha stretto nel tempo con Mosca una sorta di partenariato, dato anche l’interesse di Mosca a rinforzarsi in Medio Oriente e nei rapporti con l’Oceano Indiano. Non proprio un’alleanza, ma comunque una collaborazione anche e soprattutto in campo militare. Nei confronti dell’Iran, invece, Trump ha interiorizzato, un po’ troppo frettolosamente a mio avviso, il comune sentire dell’opinione pubblica americana contro questo Paese. Datato decenni dal momento della rivoluzione komeinista».Con gli ostaggi americani nell’ambasciata. Cavandosela con una battuta, mentre la maggior parte degli americani non saprebbe dove trovare l’Ucraina sulla cartina geografica, lo stesso non vale per l’Iran. E mentre gli adulti nella stanza a Riad, segnatamente Stati Uniti e Russia, si confrontano sul futuro del mondo, i fanciulli fuori giocano e litigano fra loro. Mi riferisco ai Paesi membri dell’Ue. Si baloccano con prospettive tipo l’esercito comune europeo. Lei che è stato tra i primi italiani con ruolo di vertice in un comando interforze Nato, si è fatto un’idea su quanto questa prospettiva sia attuabile?«Mi consenta un preambolo. Quale politica estera dovrebbe servire quest’esercito? Quello della signora Kallas? Bellicista estone che rappresenta un Paese che ha un decimo degli abitanti della Lombardia? La cosa, se permette, mi preoccuperebbe e molto. La prospettiva dell’esercito europeo, io credo che non sia possibile e neppure opportuna. L’Ue non ha infatti una sua politica estera. Si vedano le posizioni molto diverse sull’Ucraina. Ricorda la polemica sulla missione di Orbán a Mosca? Inoltre, un esercito comune sarebbe espressione di una sovranità europea che ad ora non è possibile. Le forze armate devono restare invece l’espressione della sovranità nazionale che si afferma rivendicando il diritto di difendere i propri interessi vitali. E perché l’Italia dovrebbe rinunciare alla sua sovranità nazionale? Io spero ardentemente di no!».Chi la sta intervistando non fatica certo a concordare, mi creda.«Non comprendo perché dovremmo rinunciare alle nostre prerogative. Noi siamo un Paese mediterraneo, non uno Stato baltico. Abbiamo visioni e obiettivi diversi. Perché dovremmo mettere il meglio delle nostre forze in mano a un estraneo? Mettendo magari a repentaglio la nostra sopravvivenza o quella dei nostri uomini. E poi mi consenta, c’è un banale tema di filiera di comando. Chi comanderebbe questo esercito? Dove si troverebbe il Comando? Chi l’autorizzerebbe le sue pianificazioni e le sue operazioni? Il comandante supremo delle nostre forze armate è il presidente della Repubblica. Chi sarebbe il capo dell’esercito comune europeo? Ursula Von der Leyen? Non la riterrei una scelta oculata». L’Ue riconosce al suo interno 24 lingue ufficiali diverse...«Noi non siamo gli Stati Uniti d’America, Paese con una sola lingua e un miscuglio di culture e popolazioni che le rende indistinguibili. Già abbiamo messo in comune una moneta. E la decisione è stata quanto meno problematica per gli effetti avuti. Non vedo perché dovremmo ulteriormente peggiorare la situazione rinunciando a quel po’ di sovranità che ancora ci mette al riparo dalle mire altrui».
Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa (Ansa)
Protagonista di questo numero è l’atteso Salone della Giustizia di Roma, presieduto da Francesco Arcieri, ideatore e promotore di un evento che, negli anni, si è imposto come crocevia del mondo giuridico, istituzionale e accademico.
Arcieri rinnova la missione del Salone: unire magistratura, avvocatura, politica, università e cittadini in un confronto trasparente e costruttivo, capace di far uscire la giustizia dal linguaggio tecnico per restituirla alla società. L’edizione di quest’anno affronta i temi cruciali del nostro tempo — diritti, sicurezza, innovazione, etica pubblica — ma su tutti domina la grande sfida: la riforma della giustizia.
Sul piano istituzionale spicca la voce di Alberto Balboni, presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, che individua nella riforma Nordio una battaglia di civiltà. Separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, riformare il Consiglio superiore della magistratura, rafforzare la terzietà del giudice: per Balboni sono passaggi essenziali per restituire equilibrio, fiducia e autorevolezza all’intero sistema giudiziario.
Accanto a lui l’intervento di Cesare Parodi dell’Associazione nazionale magistrati, che esprime con chiarezza la posizione contraria dell’Anm: la riforma, sostiene Parodi, rischia di indebolire la coesione interna della magistratura e di alterare l’equilibrio tra accusa e difesa. Un dialogo serrato ma costruttivo, che la testata propone come simbolo di pluralismo e maturità democratica. La prima pagina di Giustizia è dedicata inoltre alla lotta contro la violenza di genere, con l’autorevole contributo dell’avvocato Giulia Buongiorno, figura di riferimento nazionale nella difesa delle donne e nella promozione di politiche concrete contro ogni forma di abuso. Buongiorno denuncia l’urgenza di una risposta integrata — legislativa, educativa e culturale — capace di affrontare il fenomeno non solo come emergenza sociale ma come questione di civiltà. Segue la sezione Prìncipi del Foro, dedicata a riconosciuti maestri del diritto: Pietro Ichino, Franco Toffoletto, Salvatore Trifirò, Ugo Ruffolo e Nicola Mazzacuva affrontano i nodi centrali della giustizia del lavoro, dell’impresa e della professione forense. Ichino analizza il rapporto tra flessibilità e tutela; Toffoletto riflette sul nuovo equilibrio tra lavoro e nuove tecnologie; Trifirò richiama la responsabilità morale del giurista; Ruffolo e Mazzacuva parlano rispettivamente di deontologia nell’era digitale e dell’emergenza carceri. Ampio spazio, infine, ai processi mediatici, un terreno molto delicato e controverso della giustizia contemporanea. L’avvocato Nicodemo Gentile apre con una riflessione sui femminicidi invisibili, storie di dolore taciuto che svelano il volto sommerso della cronaca. Liborio Cataliotti, protagonista della difesa di Wanna Marchi e Stefania Nobile, racconta invece l’esperienza diretta di un processo trasformato in spettacolo mediatico. Chiudono la sezione l’avvocato Barbara Iannuccelli, parte civile nel processo per l’omicidio di Saman, che riflette sulla difficoltà di tutelare la dignità della vittima quando il clamore dei media rischia di sovrastare la verità e Cristina Rossello che pone l’attenzione sulla privacy di chi viene assistito.
Voci da angolature diverse, un unico tema: il fragile equilibrio tra giustizia e comunicazione. Ma i contributi di questo numero non si esauriscono qui. Giustizia ospita analisi, interviste, riflessioni e testimonianze che spaziano dal diritto penale all’etica pubblica, dalla cyber sicurezza alla devianza e criminalità giovanile. Ogni pagina di Giustizia aggiunge una tessera a un mosaico complessivo e vivo, dove il sapere incontra l’esperienza e la passione civile si traduce in parola scritta.
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L’operazione Royal Flush dell’Fbi coinvolge due nomi eccellenti: la guardia dei Miami Heat Terry Rozier e il coach dei Portland Trail Blazers Chauncey Billups, accusati di frode e riciclaggio in un vasto giro di scommesse truccate e poker illegale gestito dalle storiche famiglie mafiose.