2025-02-16
Sarà pure Telemeloni ma la tassa Benigni ci resta sul groppone (marchette incluse)
Carlo Conti e Roberto Benigni (Getty Images)
Il comico toscano, più spento che mai, è tornato a Sanremo per qualche sviolinata al Colle e il lancio del suo programma. E per fortuna che la Rai, complice il perfido governo destrorso, è diventata Telemeloni. Chissà che ci sarebbe toccato di vedere altrimenti. Finora il massimo che gli incolpevoli spettatori dell’emittente pubblica sono riusciti a ottenere è un Sanremo appena meno patetico dei precedenti, purgato degli insopportabili pipponi moraleggianti dell’era Amadeus e di qualche tirata da impegnati fuori tempo massimo. Al momento di andare in stampa ignoriamo il nome del vincitore, ma in fondo poco cambia. Se c’è una cosa che abbiamo imparato in questa edizione è che - destra o non destra, Amadeus o Conti - Roberto Benigni non c’è verso di risparmiarselo. È peggio del canone: prima o poi la Rai te lo presenta, e ti tocca sorbirlo anno dopo anno, sempre più bolso e prevedibile. Sara pure Telemeloni, dunque, ma l’unico monologo politico al festival è stato affidato all’ormai ex comico toscano, da tempo divenuto artista di regime, più regime che artista. Solito copione: Benigni che arriva e viene accolto come una divinità perché tanti anni fa ha vinto un Oscar e ancora più indietro nel tempo ha saputo far ridere le folle. Ecco poi Benigni che gioca a fare il candido, il delicato, l’ingenuo pure di cuore e butta lì qualche battuta. Ogni anno che passa, le risate calano e la retorica aumenta. Se la prende - e ci mancherebbe - con Elon Musk e Giorgia Meloni: «Sono capaci di sposarsi e di andare su Marte in luna di miele. Lui è innamorato e potente. Vuole conquistare l’Italia, vuole il potere qui. Sta preparando la marcia su Roma: o Roma, o Marte!». Ah ah. Poi tocca a Donald Trump: «Anche lui segue Sanremo tutte le sere, vuole tutta la Liguria dopo la Groenlandia e il Canada. Vuole la Liguria come cinquantatreesimo stato: “O la Liguria accetta pacificamente o metto un dazio del 200% sulle trofie al pesto”». Il problema, con tutta evidenza, non sono i bersagli, bensì l’efficacia dell’attacco: satira moribonda, battutine che sembrano copiate da X, ma scegliendole fra quelle meno efficaci. Mezze cose sul fascismo, su Giorgia che rimarrà al potere ancora a lungo, sulla gente di sinistra che si butta a destra per convenienza... A una fiera di Paese arriverebbero ortaggi, ma tant’è: capiamo che in Rai sia richiesto un certo contegno, ed è pur vero che intemerate più ruvide avrebbero forse suscitato malumori. Diciamo la verità: avremmo preferito un attacco violento, almeno ci saremmo irritati per una buona ragione. Ma così... Così viene da pensare che, semplicemente, Benigni abbia perso smalto, o non ne abbia più voglia: dopo una carriera così lunga sarebbe persino comprensibile che si fosse stufato di vestire i panni del cabarettista. Viene però da chiedersi perché lo si continui a invitare, perché lo si celebri con pompa e reverenza. Il vero motivo dell’invito è poi emerso: Roberto doveva presentare il suo nuovo programma Il sogno, che sarà in onda a marzo su RaiUno. «Sarà uno show pieno di stupore, di sorprese. Ci metterò tutta la mia gioia, il mio sentimento», ha detto dal palco dell’Ariston. «Uno spettacolo di verità e bellezza. Si parlerà di noi, dell’Europa, del mondo: della nostra vita. Si parlerà delle nostre aspirazioni e soprattutto dei nostri sogni. E io sono un grande sognatore. Come diceva il grande poeta, i grandi sognatori non sognano mai da soli, e allora sogneremo tutti insieme». Tutto bellissimo. Ma se la verve è questa, più che Il sogno temiamo che andrà in onda Il sonno. Per carità: una marchetta non si nega a nessuno. Ma qualcuno dovrebbe dirlo al fu Robertaccio: non c’è bisogno, ogni volta, di suonare la sviolinata al Quirinale. La banalità, con un po’ di pazienza, la possiamo persino sopportare. Ma la piaggeria no. Con Carlo Conti a fargli da spalla Benigni ha ricordato quando il capo dello Stato seguì il suo format sulla Costituzione, e si commosse. «Commuovere il presidente è un’emozione che ti entra dentro il corpo e l’anima, perché è una persona straordinaria». Figuriamoci: mica pretendiamo che un comico vilipenda il presidente, ma qui c’è un eccesso di attrazione che sfiora la molestia sessuale. A un certo punto, chissà poi con quale diritto e dopo quale investitura, Benigni ha voluto esprimere la volontà dell’intero popolo italiano: «Presidente, siamo sempre vicini alle sue parole, ci riconosciamo, non abbiamo mai sentito uscire da lei una parola che non fosse di verità e di pace. Siamo orgogliosi di essere rappresentati da lei, per la sua dignità e umanità». E Conti di rimando: «A lei tutta la solidarietà del popolo italiano». Mancava solo che apparisse il fantozziano geometra Calboni gridando: «È un bel presidente!». A quanto pare, destra o non destra, l’inchino al Colle è necessario. Il Quirinale è grande e Benigni è il suo profeta: un corazziere d’eccezione che va ricompensato con programmi e ospitate di lusso. Forse, però, per un artista ormai ridotto a pezzo da museo sarebbe più opportuna una mostra alle Scuderie del Quirinale rispetto all’ennesimo passaggio a Sanremo. E se proprio dovesse venirci voglia di guardare un Benigni divertente, ci basterebbe ripescare qualcosa dalle teche Rai. Qualche filmato di quando ancora considerava più importante il ruolo del mattatore di quello di Mattarella.