2021-08-24
Per incassare tasse la crisi svanisce. Riappare per imbrigliare le aziende
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Per via della pandemia si pensa al dl anti delocalizzazioni. Ma il 1° settembre tornano le cartelle e il gettito contributivo è di nuovo ai livelli 2019. Più lo Stato interviene, più si allontanano riforma e taglio delle imposte. Dal primo settembre termine la proroga del blocco alla cartelle esattoriali. Detto in termini più semplici, per il fisco nostrano la pandemia è finita. Si riparte con i pignoramenti e con i tradizionali metodi di recupero del gettito. C'è un altro segnale, sempre sul fronte dell'Erario, che riporta l'orologio economico ai mesi precedenti al Covid. Le entrate contributive registrate dall'Inps nei primi sette mesi del 2021 sono praticamente le stesse di quelle incassate nello stesso periodo del 2019. Si tratta di 120 miliardi di gettito. Il 7% in più rispetto ai prelievi del 2020, l'anno del lockdown.In pratica, la mano sinistra della politica non sa quello che fa la mano destra. Il che, se si tratta di legiferare, è tutt'altro che un bene. Quando è il momento di incassare appare chiaro che per il bilancio pubblico l'emergenza è finita, mentre sul fronte legislativo si continua a limitare la libertà d'impresa per drogare il mercato del lavoro. Vale per le norme sui licenziamenti resi praticamente impossibili fino al termine dell'anno, e vale per il decreto in via di gestazione che dovrebbe normare e irrigidire la delocalizzazione della multinazionali e il conseguente licenziamento di manodopera. L'attuale bozza prevede penalizzazioni per le società che decidono di chiudere interi rami o di lasciare il Paese per motivo che non siano legati alla stabilità patrimoniale. Insomma, se un'impresa non sta fallendo dovrà concordare con il governo le modalità di uscita dal territorio italiano ed eventuali penalizzazioni pecuniarie se in passato ha incassato agevolazioni fiscali o incentivi alle assunzioni. In linea teorica è giusto che un governo difenda l'occupazione. Non solo è giusto, ma è auspicabile. Il problema è come cercherà di mettere in campo le azioni di tutela. A metà settimana capiremo come si evolverà il testo del decreto anti delocalizzazioni, detto decreto Todde-Orlando. Il nomignolo deriva dai due genitori del testo. Il viceministro al Mise Alessandra Todde (M5s) e il ministro piddino al Lavoro, Andrea Orlando, stanno infatti lavorando alla bozza che potrebbe diventare definitiva già giovedì. Al di là delle reazioni negative, a partire dal numero uno di Confindustria, Carlo Bonomi, il fatto è che qualunque sia il testo definitivo aumenterà il potere della burocrazia italiana. E ridurrà in automatico la libertà d'impresa. Chi sventola la digitalizzazione del Paese come soluzione di tutti i mali, ignora un fatto basilare. Che al momento nulla lascia intendere che il perimetro statale vada a ridursi. Al contrario, tra green pass, sussidi, agevolazioni, incentivi e tavoli per le trattative con il ministero del Lavoro il ruolo dello Stato sarà ancor più invasivo. Il che ci porta a una semplice equazione. Più Stato è uguale a più tasse. Una equazione che non dovremmo accettare nemmeno sotto il ricatto psicologico della pandemia. Abbiamo apprezzato Mario Draghi stoppare l'idea lettiana della patrimoniale. Ma al tempo stesso sussidiare le imprese non può significare ingessarle in uno schema operativo che ha il sapore dei Soviet. Per questo motivo sarebbe opportuno che su questi temi la Lega batta un colpo. Ad esempio, se proprio bisogna fare una legge anti delocalizzazioni sarebbe meglio che se ne occupasse Giancarlo Giorgetti. Il ministro leghista non dovrebbe lasciare la pratica a grillini e piddini. Soprattutto non a Orlando né alla struttura ministeriale del Lavoro. Perché su questi temi si gioca il futuro economico del Paese. E ogni decreto rappresenta un piccolo passo con cui la sinistra blinderà gli spazi di manovra per la riforma del fisco. Se il centrodestra vuole avere voce in capitolo e dire la sua per disegnare un nuovo percorso di imposte in Italia deve muoversi subito. Evitare che le politiche attive e passive del lavoro restino a totale appannaggio della sinistra e del Pd è la mossa giusta per riformare il fisco e tagliare le tasse. I budget di spesa decisi adesso vincoleranno tutti i futuri tavoli di riforma. Soffermarsi sul dettaglio delle multinazionali che vanno punite se licenziano è un errore di strategia. Nessuno vuole difendere una grande azienda che dopo aver incassato incentivi se ne va e licenzia. La battaglia va fatta per tutelare la libertà delle piccole aziende che sono la struttura e la peculiarità nella nostra economia. Se esiste il made in Italy è per le migliaia di Pmi che devono essere lasciate libere di innovarsi e - paradossalmente - di fallire - se vogliamo farle essere competitive. Le Pmi non hanno bisogno dello Stato e di solito nemmeno di incentivi, ma solo di liquidità da investire. È qui dove bisogna tagliare le tasse. Ma se tutto si cristallizza, non avremo riforma fiscale né sviluppo.