2022-08-01
Taiwan: il duello tra Biden e Xi Jinping
Joe Biden (Ansa)
Giovedì scorso, Joe Biden e Xi Jinping hanno avuto un colloquio a distanza dedicato a questo dossier: un colloquio durato più di due ore. “I due presidenti hanno discusso una serie di questioni importanti per le relazioni bilaterali e altre questioni regionali e globali e hanno incaricato i loro team di continuare a dare seguito alla conversazione odierna, in particolare per affrontare il cambiamento climatico e la sicurezza sanitaria. Su Taiwan, il presidente Biden ha sottolineato che la politica degli Stati Uniti non è cambiata e che gli Stati Uniti si oppongono fermamente agli sforzi unilaterali per cambiare lo status quo o minare la pace e la stabilità nello Stretto di Taiwan”, recita un comunicato della Casa Bianca. Di tenore molto più duro si è rivelata invece la versione cinese del colloquio. “Chi gioca con il fuoco si brucia”, avrebbe infatti minacciosamente detto Xi Jinping a Biden.
La telefonata è avvenuta nel pieno della polemica tra Pechino e Washington sull’eventuale viaggio di Nancy Pelosi a Taiwan. La Speaker della Camera aveva espresso l’intenzione di effettuare una tappa sull’isola, scatenando le furibonde reazioni del governo cinese. Una situazione incandescente che, negli scorsi giorni, aveva portato a una divergenza pubblica tra la Pelosi e lo stesso Biden, il quale non si era mostrato granché favorevole a un eventuale visita della Speaker a Taipei. Al momento, non è chiaro se tale visita avrà luogo. Domenica, la Speaker ha reso noto che il suo tour in estremo oriente riguarderà Singapore, Malesia, Corea del Sud e Giappone: Taiwan non è stata citata, ma ciò non costituisce comunque una smentita ufficiale.
Come che sia, saggezza avrebbe voluto che i due leader – che appartengono per giunta al medesimo partito – avessero elaborato anticipatamente (e a porte chiuse) una linea comune su questo delicato dossier, evitando di mostrare divisioni coram populo. Invece l’attrito verificatosi ai vertici delle istituzioni americane ha contribuito a indebolire la capacità complessiva di deterrenza che gli Stati Uniti sono in grado di esercitare nei confronti della Repubblica popolare. E questo è un problema, visto che l’attuale inquilino della Casa Bianca si è già più di una volta mostrato inadeguato proprio nell’esercizio della deterrenza (si pensi alla crisi afgana e, soprattutto, all’invasione russa dell’Ucraina).
Ricordiamo che il dossier taiwanese sta assumendo progressivamente centralità per due ragioni. In primo luogo, la questione rientra nel contesto più generale della sfida che Pechino sta portando avanti contro l’ordine internazionale occidentale. In tal senso, il dossier taiwanese presente delle analogie con la crisi ucraina. In secondo luogo, non bisogna trascurare che l’isola figura tra i principali produttori di semiconduttori al mondo. Va tenuto presente che, negli ultimi anni, Stati Uniti e Cina stanno diminuendo la loro dipendenza reciproca nel settore dell’alta tecnologia. Ragion per cui, l’importanza di Taiwan sta aumentando significativamente.
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Continua a crescere la tensione tra Stati Uniti e Cina su Taiwan. Giovedì scorso, Joe Biden e Xi Jinping hanno avuto un colloquio a distanza dedicato a questo dossier: un colloquio durato più di due ore. “I due presidenti hanno discusso una serie di questioni importanti per le relazioni bilaterali e altre questioni regionali e globali e hanno incaricato i loro team di continuare a dare seguito alla conversazione odierna, in particolare per affrontare il cambiamento climatico e la sicurezza sanitaria. Su Taiwan, il presidente Biden ha sottolineato che la politica degli Stati Uniti non è cambiata e che gli Stati Uniti si oppongono fermamente agli sforzi unilaterali per cambiare lo status quo o minare la pace e la stabilità nello Stretto di Taiwan”, recita un comunicato della Casa Bianca. Di tenore molto più duro si è rivelata invece la versione cinese del colloquio. “Chi gioca con il fuoco si brucia”, avrebbe infatti minacciosamente detto Xi Jinping a Biden. La telefonata è avvenuta nel pieno della polemica tra Pechino e Washington sull’eventuale viaggio di Nancy Pelosi a Taiwan. La Speaker della Camera aveva espresso l’intenzione di effettuare una tappa sull’isola, scatenando le furibonde reazioni del governo cinese. Una situazione incandescente che, negli scorsi giorni, aveva portato a una divergenza pubblica tra la Pelosi e lo stesso Biden, il quale non si era mostrato granché favorevole a un eventuale visita della Speaker a Taipei. Al momento, non è chiaro se tale visita avrà luogo. Domenica, la Speaker ha reso noto che il suo tour in estremo oriente riguarderà Singapore, Malesia, Corea del Sud e Giappone: Taiwan non è stata citata, ma ciò non costituisce comunque una smentita ufficiale. Come che sia, saggezza avrebbe voluto che i due leader – che appartengono per giunta al medesimo partito – avessero elaborato anticipatamente (e a porte chiuse) una linea comune su questo delicato dossier, evitando di mostrare divisioni coram populo. Invece l’attrito verificatosi ai vertici delle istituzioni americane ha contribuito a indebolire la capacità complessiva di deterrenza che gli Stati Uniti sono in grado di esercitare nei confronti della Repubblica popolare. E questo è un problema, visto che l’attuale inquilino della Casa Bianca si è già più di una volta mostrato inadeguato proprio nell’esercizio della deterrenza (si pensi alla crisi afgana e, soprattutto, all’invasione russa dell’Ucraina). Ricordiamo che il dossier taiwanese sta assumendo progressivamente centralità per due ragioni. In primo luogo, la questione rientra nel contesto più generale della sfida che Pechino sta portando avanti contro l’ordine internazionale occidentale. In tal senso, il dossier taiwanese presente delle analogie con la crisi ucraina. In secondo luogo, non bisogna trascurare che l’isola figura tra i principali produttori di semiconduttori al mondo. Va tenuto presente che, negli ultimi anni, Stati Uniti e Cina stanno diminuendo la loro dipendenza reciproca nel settore dell’alta tecnologia. Ragion per cui, l’importanza di Taiwan sta aumentando significativamente.
(Totaleu)
Lo ha detto il Ministro per gli Affari europei in un’intervista margine degli Ecr Study Days a Roma.
Getty Images
Ed è quel che ha pensato il gran capo della Fifa, l’imbarazzante Infantino, dopo aver intestato a Trump un neonato riconoscimento Fifa. Solo che stavolta lo show diventa un caso diplomatico e rischia di diventare imbarazzante e difficile da gestire perché, come dicevamo, la partita celebrativa dell’orgoglio Lgbtq+ sarà Egitto contro Iran, due Paesi dove gay, lesbiche e trans finiscono in carcere o addirittura condannate a morte.
Ora, delle due l’una: o censuri chi non si adegua a certe regole oppure imporre le proprie regole diventa ingerenza negli affari altrui. E non si può. Com’è noto il match del 26 giugno a Seattle, una delle città in cui la cultura Lgbtq+ è più radicata, era stata scelto da tempo come pride match, visto che si giocherà di venerdì, alle porte del nel weekend dell’orgoglio gay. Diciamo che la sorte ha deciso di farsi beffa di Infantino e del politically correct. Infatti le due nazioni hanno immediatamente protestato: che c’entriamo noi con queste convenzioni occidentali? Del resto la protesta ha un senso: se nessuno boicotta gli Stati dove l’omosessualità è reato, perché poi dovrebbero partecipare ad un rito occidentale? Per loro la scelta è «inappropriata e politicamente connotata». Così Iran ed Egitto hanno presentato un’obiezione formale, tant’è che Mehdi Taj, presidente della Federcalcio iraniana, ha spiegato la posizione del governo iraniano e della sua federazione: «Sia noi che l’Egitto abbiamo protestato. È stata una decisione irragionevole che sembrava favorire un gruppo particolare. Affronteremo sicuramente la questione». Se le Federcalcio di Iran ed Egitto non hanno intenzione di cedere a una pressione internazionale che ingerisce negli affari interni, nemmeno la Fifa ha intenzione di fare marcia indietro. Secondo Eric Wahl, membro del Pride match advisory committee, «La partita Egitto-Iran a Seattle in giugno capita proprio come pride match, e credo che sia un bene, in realtà. Persone Lgbtq+ esistono ovunque. Qui a Seattle tutti sono liberi di essere se stessi». Certo, lì a Seattle sarà così ma il rischio che la Fifa non considera è quello di esporre gli atleti egiziani e soprattutto iraniani a ritorsioni interne. Andremo al Var? Meglio di no, perché altrimenti dovremmo rivedere certi errori macroscopici su altri diritti dei quali nessun pride si era occupato organizzando partite ad hoc. Per esempio sui diritti dei lavoratori; eppure non pochi operai nei cantieri degli stadi ci hanno lasciato le penne. Ma evidentemente la fretta di rispettare i tempi di consegna fa chiudere entrambi gli occhi. Oppure degli operai non importa nulla. E qui tutto il mondo è Paese.
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