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Lo ha dichiarato Alfonso Santagata, Manager di Enit-Italian National Tourist Board Brussels, durante l'evento sulla settimana della Cucina italiana nel mondo.
Lo ha dichiarato Alfonso Santagata, Manager di Enit-Italian National Tourist Board Brussels, durante l'evento sulla settimana della Cucina italiana nel mondo.
Torna la messa in latino a San Pietro. Ieri il cardinale Raymond Leo Burke, uno dei maggiori oppositori di Bergoglio, ha celebrato col rito tridentino. Il giorno prima, il presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi (bergogliano di ferro), ha presieduto, nella basilica di San Lorenzo in Lucina a Roma, i vespri sempre con rito tridentino. Questo avviene in occasione di un pellegrinaggio nell’anno del Giubileo, approvato da Leone XIV stesso, per un gruppo di tradizionalisti ai quali era stato proibito da papa Bergoglio con il motu proprio (che significa «di propria iniziativa») Traditionis custodes; Francesco aveva disposto che «i libri liturgici promulgati dai Santi pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II sono l’unica espressione della lex orandi», cioè della legge che regola la preghiera nella Chiesa.
La decisione di Francesco provocò molte proteste all’interno della Chiesa da parte di vescovi, sacerdoti e fedeli che avrebbero desiderato continuare con il rito tridentino. Quando si parla della messa tridentina, o vetus ordo, ci si riferisce alla forma della celebrazione che prende il nome dal Concilio di Trento e che fu codificata nel 1570 da papa Pio V con il Messale romano, la lingua usata era quella latina e il celebrante volgeva le spalle al popolo ed era orientato verso l’abside. Nel 1969, dopo il Concilio vaticano II, la messa venne sostituita dalle lingue dei vari Paesi, ma fino al 1962, con alcune variazioni, era rimasta la messa celebrata regolarmente. Inutile ora ripercorrere tutta la storia che ha contrapposto progressisti e tradizionalisti sull’uso della lingua latina nella Chiesa cattolica stessa.
Il fatto importante da ricordare è che il 7 luglio del 2007 Benedetto XVI, proseguendo sulla linea di papa Giovanni Paolo II che richiese ai vescovi che fosse «ovunque rispettato l’animo di tutti coloro che si sentono legati alla tradizione liturgica latina», emanò il motu proprio Summorum pontificum nel quale si prende la decisione di permettere a tutti i sacerdoti latini la possibilità di utilizzare il Messale del 1962 (dunque precedente alla riforma del Concilio vaticano II) facendo presente che, in realtà, quello del 1962 non lo aveva mai abrogato nessuno, quindi era lecito celebrare la messa sia secondo il rito del 1962 sia secondo quello riformato dal Concilio nel 1969. Questo fu fatto esplicitamente per favorire la sensibilità di coloro che si sentivano maggiormente a loro agio nella celebrazione latina dell’eucarestia.
Del resto, secondo un’antica formulazione della teologia cristiana che appare in un’opera di Prospero d’Aquitania (390-430), lex orandi, lex credendi, cioè il contenuto della preghiera è il contenuto della fede, e non ci risulta che nel Messale del 1962 ci fossero eresie rispetto a quello del 1969. Infatti, il Concilio vaticano II produsse delle costituzioni dogmatiche come quella sulla Chiesa, sulla Divina rivelazione, sulla Sacra liturgia, ma non fu un Concilio specificamente dogmatico e teso, come i primi Concili della Chiesa, a combattere le eresie, ma fu chiamato un «Concilio di aggiornamento della Chiesa». Detto questo, va osservato che i Papi precedenti a Bergoglio, ivi compreso Paolo VI, avevano sempre cercato una via di accordo con i fedeli tradizionalisti e mai una rottura così aspra e secca come quella di Francesco che viceversa, verso altre sensibilità anche sterne alla Chiesa, aveva sempre dimostrato una notevole apertura. Per la verità, questa apertura è stata contemporanea - non vogliamo dire che ci sia stato un processo di causa-effetto - a uno svuotamento delle chiese e dei seminari, cioè delle vocazioni sacerdotali.
Due ultime osservazioni. La prima riguarda una frase di Sant’Ambrogio tratta dal numero 25 del De Paradiso che dice così: «Cercare sempre il nuovo e custodire ciò che si è conseguito» (nova semper quaerere et parta custodire), che potrebbe essere tradotto con «cercare sempre le cose nuove e custudire quelle antiche e valide» nella ricerca di un equilibrio saggio tra l’antico e il nuovo senza passatismi o avventurismi. Questo atteggiamento ci pare che sia stato quello dominante da Paolo VI fino a Leone XIV ma non quello di papa Francesco. Si potrebbero analizzare altri campi nei quali questo è avvenuto, ma non è qui il luogo adatto per farlo e, del resto, lo abbiamo già fatto varie volte precedentemente.
La seconda riguarda un antico concetto della Chiesa cattolica che si chiama sensus fidei o sensus fidelium che sarebbe il senso della fede del popolo di Dio, cioè di tutti i credenti, che permette una pluralità di sensibilità, di modi e di attitudini nel discernere le modalità personali di esprimere la propria fede. Non si tratta di un individualismo religioso, dove ognuno può decidere ciò che è da credere e ciò che non è da credere ma, nell’unità della stessa fede tramandata dalla Chiesa, vivere la fede nel modo che la propria personalità sente come maggiormente adatta alla propria persona. Non è una forma di anarchismo religioso ma, semmai, di personalismo religioso. Ed è anche un ponte tra la Ecclesia docens (la Chiesa che insegna) e la Ecclesia discens (la Chiesa che apprende) in una sorta di integrazione e arricchimento reciproco tra il sensus fidei che potremmo definire verticale del magistero e il sensus fidei orizzontale e popolare.
Del resto, un documento della Commissione teologica internazionale del 2014, il Sensus fidei nella vita della Chiesa, al numero 119 dice così: «Ma è opportuno ricordare che l’esperienza della Chiesa dimostra come alle volte la verità della fede sia stata conservata non dagli sforzi dei teologi né dall’insegnamento della maggioranza dei vescovi, ma nel cuore dei credenti».
Leonardo da Vinci versus Massimiliano e Raffaele Alajmo del ristorante Le Calandre di Rubàno, Padova. Leonardo Da Vinci vs Carlo Cracco del Carlo e Camilla in segheria, Milano; vs Andrea Berton, dell’omonimo ristorante sempre a Milano; vs Anthony Genovese del Pagliaccio, Roma. Leonardo versus tutti gli starchef italiani, più o meno stellati, che hanno denudato i tavoli dei loro ristoranti spogliandoli della tovaglia e posando i piatti direttamente su tavoli di legno, cristallo o metallo, belli da vedere, ma nudi e crudi. Disabbigliati. Senza tovaglia.
L’uso o meno della tovaglia contrappone idealmente, dopo cinque secoli, il genio toscano ai grandi cuochi italiani e a quelli meno grandi che seguono le loro orme. Leonardo aveva una vera e propria venerazione per la tavola fin da quand’era discepolo del Verrocchio e si pagava gli studi facendo il cuoco nella taverna delle Tre lumache sul Ponte Vecchio a Firenze. Cucinava, ma si preoccupava anche del decoro della tavola e della presentazione del cibo, creando quella che i francesi, quattro secoli dopo, chiameranno mise en place.
Maestro di cerimonie nel 1491 alla corte di Ludovico Sforza, si scandalizzò vedendo in che stato i commensali del Moro e lo stesso duca riducevano la tovaglia pulendosi la bocca e nettandosi le dita unte e bisunte con il copritavola comune. Ludovico, addirittura, strofinava le dita sulla pelliccia di un coniglio che teneva legato sotto la tavola. Un incivile spettacolo di sporcizia, antigenico, che faceva stare male fisicamente Leonardo. Qui ci vuole qualcosa, pensò, per rimediare a questa barbarie. Perché non fornire ogni commensale di una piccola tovaglia? Fu così che il genio di Vinci inventò il tovagliolo. D’altra parte, basta guardare l’Ultima cena che Leonardo affrescò nel cenacolo di Santa Maria delle Grazie a Milano per capire in quale considerazione tenesse la tovaglia e l’ordine in tavola. Gesù e gli Apostoli mangiano su un lungo tavolo coperto da una tovaglia immacolata. Leonardo dipinse con tale realismo il telo di lino che sembra fresco di stiratura, appena tolto dalla credenza tanto sono ben definiti i segni della ripiegatura.
Perché, dunque, mandare in pensione la vecchia tovaglia che da oltre 2.000 anni rappresenta il decoro, la raffinatezza e l’igiene di una tavola? I motivi validi ci sono e più d’uno: senza tovaglia si apprezza la bellezza e la forma di tavoli d’alto design; si valorizza l’essenziale; ci si concentra sui piatti; il servizio viene snellito e, ultimo ma non ultimo, senza tovaglia si risparmia. Si evita il costo del panno, tanto più prezioso quanto più il ristorante è d’elite e il costo della lavanderia. L’esecuzione della tovaglia l’hanno firmata gli architetti che professano la filosofia della sottrazione: viva il minimalismo, via tutto quello che non serve, a cominciare dalla tovaglia.
La quale tovaglia sta scomparendo dalle tavole dei ristoranti moderni. «A Milano», riferisce Valerio Massimo Visintin, giornalista e critico gastronomico del Corriere della Sera, «è in atto un vero e proprio tovaglicidio. Solo i locali storici apparecchiano ancora la tovaglia, ma stanno diventando minoranza. I locali nuovi o rinnovati non la usano più. Vanno di moda i tavoli ignudi e certi spessorini per appoggiare le posate in precario equilibrio. Evviva il design moderno che in qualche caso ha un senso. Ma ci sono non trascurabili controindicazioni pratiche e igieniche. Ho accumulato una certa esperienza in ristoranti detovaglizzati riportandone sensazioni indimenticabili: il gelo del metallo o del vetro, l’imbarazzo di dover poggiare le posate su una superficie che si riempie progressivamente di impronte digitali e unto».
Sparirà la tovaglia? Non lo crediamo. Dopotutto rappresenta da 2.000 anni un segno di decoro, di raffinatezza ed eleganza e assolve ad alcune finalità: protegge la tavola da graffi, assorbe i liquidi malamente versati, evita il contatto diretto con oggetti caldi che lascerebbero il segno sui mobili, è igienica e decorativa. È nell’antica Roma che comincia la civiltà della tovaglia - chiamata mantile - tra la fine della Repubblica e il primo impero. Nel Medioevo tovaglie bianche di lino erano usate per apparecchiare le tavole in occasioni importanti. Storicamente la tovaglia è associata a decoro, prestigio ed eleganza specialmente nel mondo cavalleresco, dove la sua presenza sulla tavola era un segno di onore e simbolo del pasto comune. Chissà se la tavola rotonda di re Artù, di Parsifal, Lancillotto e degli altri cavalieri, emblema di uguaglianza e di una comunità selezionata, aveva la tovaglia. C’è da pensare di sì perché, negli usi cavallereschi dell’epoca, la tovaglia rappresentava uno status sociale importante. Nel libro L’Umbria delle mie trame, pubblicato dalla Camera di commercio di Perugia per divulgare la storia della tovaglia perugina, si parla di Bertrand du Guesclin, un condottiero francese del XIV secolo: «Istituì un rituale infamante per radiare i cavalieri che macchiavano il proprio onore. Il disonorato doveva sedere davanti a una tavola apparecchiata. Poi la tovaglia veniva tagliata alla loro destra e alla loro sinistra, prima che anche la parte davanti a loro venisse rimossa». Continua il libro: «Durante le Crociate alcuni cavalieri giuravano solennemente di non mangiare più con la tovaglia fino a che non avessero assolto all’impegno di combattere per la liberazione della Terra Santa».
Nel Rinascimento l’uso della tovaglia s’impose nella vita quotidiana delle classi agiate. Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, umanista e gastronomo autore del De honesta voluptate et valetudine, una sorta di bibbia per buongustai e Papi e signori dell’epoca, suggeriva di non coprire i tavoli con tovaglie colorate perché potevano infastidire i commensali. Nei banchetti del periodo si affermarono le tovaglie perugine note con fasce blu lungo i lati, per i loro ricami e considerate uno status symbol. Le tovaglie perugine erano molto apprezzate per la loro qualità e bellezza e venivano spesso ritratte in opere d’arte, vedi Leonardo. Le perugine erano presenti nei corredi nuziali e sugli altari. Con il Cinquecento in questi arredi divenne usuale inserire ricami e decorazioni. Nel secolo successivo si imposero le tovaglie lisce ornate di merletti. In epoca barocca fecero capolino i tessuti damascati e i pizzi da sovrapporre su drappi colorati. Alla fine del Settecento si ritornò alle tovaglie bianche, lisce e lunghe fino al pavimento.
La tovaglia stende i suoi lembi sull’arte e su molta letteratura. Alcune poesie sono dedicate ad essa. Renzo Pezzani, un principe della rima ora dimenticato, mette in guardia da un uso sbagliato: «Sul tagliere gli agli taglia./ Non tagliare la tovaglia. La tovaglia non é aglio,/ e tagliarla è un grave sbaglio». Anche toglierla, per Pezzani, era un grave sbaglio. Giovanni Pascoli scrive una poesia intitolata La tovaglia ricordando una tradizione della civiltà contadina legata ai giorni dei morti: se si lasciava la tavola apparecchiata, magari con le briciole di pane non raccolte, i defunti sarebbero entrati in quelle che erano state le loro case. Giovanni Pascoli la dedica alla sorella Maria riferendosi alle raccomandazioni dei genitori alle bambine di sparecchiare la tavola dopo mangiato. «Le dicevano: Bambina! / che tu non lasci mai stesa, / dalla sera alla mattina, / ma porta dove l’hai presa, / la tovaglia bianca, appena / ch’è terminata la cena! / Bada, che vengono i morti! / i tristi, i pallidi morti!». Nei versi successivi troviamo Maria adulta (viveva col fratello a Castelvecchio Barga in Garfagnana) occuparsi delle faccende di casa con grande meticolosità, ma scegliendo di non sparecchiare la tavola nelle giornate del ricordo dei propri cari indimenticabili defunti. Maria, scrive il poeta, «pensa a tutto, ma non pensa / a sparecchiare la mensa. / Lascia che vengano i morti, / i buoni, i poveri morti».
Saboris antigus, realizzato dalla Camera di Commercio di Cagliari e Oristano, è un ricettario che nasce dal desiderio di mettere nero su bianco le ricette del territorio della Trexenta e del Sarcidano. Realizzate da Chiara Cogotti, fotografate da Francesco Pruneddu, le ricette di questo ricettario coordinato da Giuseppina Scorrano, sono «un invito a immergersi nell’autenticità delle tradizioni culinarie dei territori sardi della Trexenta e del Sarcidano, dove il legame con la terra e con il passato si esprime anche attraverso i sapori di piatti tramandati di generazione in generazione». Rintracciare le ricette del territorio, quelle vere, è un lavoro che si deve appunto svolgere sul territorio: «La creazione di questo ricettario ha richiesto un lavoro di ricerca appassionato e meticoloso, attraverso l’incontro con esperti di cucina locale, depositari della memoria gastronomica del territorio, e il coinvolgimento di chi custodisce questi saperi nelle proprie case, rinnovando gesti di famiglia con una dedizione sincera».
Cosa significa preservare le ricette tradizionali? «Significa salvaguardare un patrimonio immateriale che va oltre il cibo: è memoria collettiva, identità culturale e narrazione di un territorio. Le ricette proposte nel libro rappresentano una sintesi di racconti e pratiche, ma non pretendono di essere definitive. Trasmessi oralmente e affinati dalla pratica quotidiana, questi piatti non conoscono una versione unica, bensì tante varianti quanti sono le cuoche e i cuochi che li preparano».
Sfogliando il ricettario si osserva una sobrietà che connota tutte le ricette. In un mondo del food contemporaneo spesso più attento alle pagliacciate che all’essenzialità, queste ricette sono ammirevoli anche perché ci ricordano che la cucina è prima territorio che show, soprattutto quando lo show è circense. Gli ingredienti sono essenziali e territoriali: pecora, coniglio, gallina, anguilla. Le paste sono locali, dalla semola fritta alla freguledda, passando per i pitzottis. I dolci sono anch’essi un trionfo di essenzialità ed eleganza: il grano cotto (Trigu cottu) ci ricorda che prima dei croissant dalle forme più disparate e dai topping e dalle farciture caleidoscopiche di oggi per fare un dolce bastava trasformare in dolce un alimento di solito mangiato salato, i Coccois de annu, i biscotti glassati, ci ricordano che un tempo chi cucinava in casa sapeva glassare con l’artisticità che oggi attribuiamo solo ai grandi chef.
Tradizione non vuol dire non dialogare con l’innovazione. Tradizione e innovazione possono coesistere e la presenza nel libro di tre chef professionisti lo testimonia: Davide Atzeni del ristorante Coxinendi, Riccardo Massaiu de I Sarti del Gusto e Marina Ravarotto di Chiaroscuro, «profondi conoscitori del territorio e delle sue materie prime».
A ciascuno di loro, si legge, «è stato chiesto di reinterpretare le ricette tradizionali o di elaborare nuove creazioni ispirate ai prodotti tipici locali con un duplice obiettivo: da un lato, valorizzare la qualità straordinaria delle produzioni del territorio; dall’altro, offrire una rappresentazione attuale e innovativa della cucina sarda. I piatti ideati dagli chef rappresentano uno sguardo contemporaneo alla tradizione e confermano che i sapori antichi possono continuare a essere una risorsa viva e attuale».
La Pecora in umido alla campidanese dello chef Davide Atzeni ci ricorda che anche la cipolla, oltre allo zafferano, è un ingrediente prezioso. Il Su succu di Santa Maria della chef Marina Ravarotto, un pasticcio di pasta realizzato con «sfoglie» di filindeu è superlativo e ci ricorda che laddove si allevano le pecore si prepara anche il brodo di pecora. L’Emulsione dolce all’olio extravergine di oliva dello chef Riccardo Massaiu ci ricorda che si può lavorare in chiave quasi futuristica con la forma ma che ciò può essere asservito all’esaltazione di ingredienti genuini, come il nostro prezioso nettare verde di olive.
Sosteneva il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach che «l’uomo è ciò che mangia». Ed è vero. C’è innanzitutto un rapporto di causa ed effetto fisico, rapporto granitico e al contempo spicciolo, in questa affermazione: se «siamo» ciò che mangiamo, ebbene se mangiamo troppo e male ingrassiamo. Tanto che di solito questa massima è usata come monito per invitare le persone a mangiare bene: «Smettila di ingozzarti di cibo spazzatura, ricordati che siamo ciò che mangiamo...!».
C’è poi tutta una serie di costruzioni identitarie che si basano su questo assunto. «Ciascuno mangia solo ciò che si addice alla sua individualità o natura», affermò sempre Feuerbach. Per esempio, se siamo italiani, amiamo mangiare italiano più che, per dire, filippino. Ancora, se siamo ciò che mangiamo, allora possiamo «diventare» ciò che non siamo ma, attenzione, vogliamo diventare. Possiamo diventarlo mangiando oppure possiamo estendere ciò che siamo a ciò che mangiamo. Per esempio, sono un rapper o una cantante pop e vengo da una situazione economica familiare molto molto povera dove il problema era riempire il piatto, di cosa era indifferente, grazie al successo ho acquisito fama e ricchezza. Dal punto di vista reddituale, quella ricchezza mi assimila ai ricchi nobili o industriali che sono notoriamente anche raffinati. Io, che vengo dal ghetto, voglio acquisire anche quella raffinatezza dei ricchi veri e perciò comunico a me stesso e al mondo che sono ricco e raffinato perché mangiare fuori per me non vuol dire più andare al giropizza sulla tangenziale, ma pasteggiare spesso e volentieri con tanto di fotografie (social e non solo) al ristorante dello chef Carlo Cracco. Da ciò che mangio sarò «battezzato» ufficialmente per cosa sono, ora, e lo sapranno tutti. Il caso dell’estensione di ciò che siamo a ciò che mangiamo: sono un progressista, credo alla vulgata assai propagandistica che solo il progressismo si occupi di etica e che l’allevamento animale inquini senza se e senza ma e quindi divento vegetariano per dire a me stesso e al mondo che io appartengo all’«Italia migliore».
Siamo ciò che mangiamo, sì. Ma - anche - mangiamo ciò che siamo. Siamo sardi, mangiamo sardo. Mutando tutto quello che c’è da mutare, questa affermazione vale per tutte le appartenenze locali, dal piccolo paese alla grande metropoli, perché il luogo è sempre anche un luogo alimentare, con i suoi prodotti, le sue prassi, le sue ricette, le sue peculiarità. Il concetto di comfort food si basa molto più di quanto crediamo sulla familiarità del cibo in questione. Una minestrina calda è il mio comfort food non perché sia oggettivamente e in assoluto un cibo che dal punto di vista nutrizionale migliora il mio umore: può esserlo, certo, ma può anche essere di conforto al mio umore per altri motivi. Per esempio, mi fa stare bene perché mi è familiare, perché proprio quella minestrina me la preparava mia madre da piccolo e mangiare quella pietanza mi riconduce inconsciamente a quel tempo che nella mia memoria è un tempo felice. Chiamiamo cibo familiare quello consumato in famiglia, ma dovremmo iniziare a pensare a quanto sia importante il cibo familiare inteso come cibo «che ci è» familiare ossia noto e confidenziale esattamente come la nostra famiglia. Sia in presenza di famiglia, sia in assenza di famiglia.
Gli expat, per esempio, vanno a mangiare nei ristoranti di cucina tipica dei luoghi da cui provengono per relazionarsi con qualcosa di familiare. Quando applicato al cibo, il concetto di familiare si può riferire, dunque, anche semplicemente al territorio che ci è familiare. Proprio come è letteralmente per la nostra famiglia umana. Il nostro territorio è la nostra famiglia spaziale.
Che quanto è familiare per il nostro corpo vale più di ciò che non lo è viene indicato anche dallo svezzamento. Il primo alimento del bimbo è il latte materno. Poi il suo apparato digestivo diventa capace di digerire altro e il suo sviluppo psicofisico gli consente di masticare nuove e diverse consistenze. Ma è necessario un periodo di svezzamento ossia di introduzione progressiva di nuovi alimenti, perché il piccolo non ha «familiarità» col nuovo alimento, la deve costruire. Anche le reazioni di alcuni al cibo esotico ci dicono la stessa cosa. Molti nutrizionisti consigliano di mangiare la frutta esotica un po’ alla volta, perché siamo abituati alla frutta locale e possiamo avere problemi digestivi ingozzandoci di dieci chili di frutta esotica tutta insieme.
Riscopriamo ciò che siamo perché lo abbiamo sempre mangiato e siamone orgogliosi. Ci farà anche bene.
Lo ha dichiarato il direttore Ita (Agenzia per la promozione all'estero e l'internazionalizzazione delle imprese) a margine dell'evento «Cucina e radici: le eccellenze regionali italiane», organizzato dall’Associazione Cuochi Italiani in Belgio, con l’Alto Patrocinio dell’Ambasciata d’Italia a Bruxelles e della Camera di Commercio Belgo-Italiana.

