
La bellezza è un carattere identitario dell’Italia, la bellezza è una bandiera da alzare. Una bandiera di guerra. Queste sono le conclusioni a cui è giunta la kermesse annuale della Fondazione Machiavelli dedicata alla cultura, il III Forum Machiavelli Cultura, ospitato martedì scorso nella Sala Tatarella della Camera dei Deputati.
Un incontro al quale hanno partecipato relatori di altissimo profilo, a partire dal «padrone di casa», l’onorevole Alessandro Amorese, capogruppo Fdi n commissione Cultura e dall’ospite d’onore, il ministro della Cultura Alessandro Giuli, che non si è limitato a sostenere l’evento con il patrocinio del Ministero, ma ha deciso di presenziare con un lungo e approfondito intervento. Non un semplice saluto istituzionale, ma una relazione in cui sono stati evidenziati i punti salienti del rapporto fra bellezza e civiltà, enucleando l’urgenza del tema della bellezza in un mondo in cui il wokismo ha letteralmente dichiarato guerra a ciò che è bello e trascendente. «È la vittoria della Quarta Internazionale quella di Trotskii», da cui discende l’idra a più teste del woke: dalla Scuola di Francoforte a quella di Parigi, fino alle teorie critiche e all’intersezionalismo. L’arte concettuale rappresenta dunque l’arte di regime per questa ideologia: una non-arte, come l’architettura decostruzionista progetta non-luoghi. Livellamento e cancel culture. «Quando il tuo credo è fondamentalmente nichilista, incentrato sul fare tabula rasa della tua civiltà, sulla negazione della natura, il bello va combattuto, screditato, negato. Se la bellezza è il nemico per i nemici della nostra civiltà, va da sé che per noi debba diventare una bandiera» ha detto Daniele Scalea, presidente della Fondazione Machiavelli che dal 2017 è il think tank di riferimento del mondo conservatore in Italia.
Il cuore delle teorie decostruzioniste è che, attraverso la ridefinizione dei concetti e l’uso letteralmente magico delle parole, sia possibile ricostruire completamente la realtà. Ecco dunque che grazie alla «body positivity» una condizione patologica come l’obesità viene rovesciata. Come spiega Matt Carus, influencer e content creator, quella che è una vera e propria epidemia viene negata e chi punta il dito su stili di vita scorretti è perseguitato. Se è oggettivo che un corpo sano è anche un corpo bello – e le due cose sono in relazione biunivoca fra loro – questa oggettività va vietata: deve essere vietato non solo affermarlo, ma perfino pensarlo. Il medico che consigli al paziente obeso di dimagrire va perseguito.
Questo esempio è lampante della guerra culturale condotta dagli accoliti della «Quarta Internazionale» identificata da Giuli e che come un mostro tentacolare aggredisce ogni aspetto dell’esistenza umana. La cancellazione della maestria, stigmatizzata dal pittore Nicola Verlato e dallo scultore Emanuele Stifani, spalanca l’abisso dell’uomo sostituito dall’IA. Se saper tenere in mano un pennello o una matita non è più condizione necessaria ad avere l’arte, allora basta dare un prompt a una IA per produrre un succedaneo.
Che – per l’appunto – è un surrogato. È la carne sintetica della brodaglia servita alla mensa del Ministero della Verità in «1984» di Orwell: bisogna aver messo il cervello all’ammasso per trovarla appetitosa.
La risposta a questa stregoneria dialettica è nella rivendicazione dell’identità. Mentre il wokismo basa se stesso sull’uso magico della parola, l’identità fa discendere dalle basi empiriche e con rigorosi ragionamenti logici i propri postulati. Che la «res publica» debba tornare a essere «res populi» non è uno slogan, tuonato dal presidente dell’accademia Vivarium Novum (dove ragazzi da tutto il mondo parlano fra loro in latino, studiano i classici e producono arte secondo i canoni della tradizione più pura), ma una conseguenza di un pensiero rigoroso e razionale. L’identità – nella fattispecie la nostra di italiani – si esprime per esempio nella bellezza dei nostri borghi: un tema introdotto da Alessandro Amorese e poi sviscerato da Gabriele Tagliaferri, docente, architetto e urbanista: se le città italiane (ed europee in generale) sono per loro natura tradizionalmente «borghi dei 15 minuti» perché aderiscono razionalmente a una realtà viva e pulsante; l’incubo orwelliano della «città dei 15 minuti» che i regimi woke vogliono imporre a suon di telecamere e credito sociale ne è l’esatto rovesciamento: la prima è la razionale realizzazione della libertà, la seconda è il pervicace perseguimento di ingegneria sociale antiumana.
Ne usciremo? I relatori sembrano ottimisti: i giovani si riaffacciano alla maestria nell’arte, il popolo chiede quartieri tradizionali e non ecomostri lecorbusiani. Le radici cattoliche vengono rivendicate e sempre più persone gridano che il re del wokismo è nudo. I «khmer rossi» della cultura possono essere sconfitti.






