Ottobre 2025 conferma un ciclo obbligazionario incerto ma non privo di opportunità. I governativi globali hanno messo a segno un +1,31%, sospinti ancora una volta dalla Federal Reserve: il Fomc ha tagliato il Fed funds di 25 punti base al range 3,75-4%. Il numero uno della Fed, Jerome Powell, però, ha raffreddato subito le aspettative, ribadendo che la politica monetaria è su un livello «neutrale» (3-4%) e che ulteriori allentamenti non sono affatto scontati, come segnala il calo delle probabilità di un altro taglio a dicembre dal 90% a circa il 50%. Più del taglio dei tassi conta la sospensione del Quantitative Tightening da dicembre: il bilancio Fed smetterà di ridursi e la scelta è letta come «un possibile presagio di un futuro ritorno agli acquisti obbligazionari (Quantitative Easing), necessario per sopprimere il segmento a lungo termine della curva dei rendimenti e ridurre il rischio di stress nel sistema finanziario». Il tutto in un contesto di debito federale statunitense su nuovi massimi storici e progressivo disimpegno della Cina dai Treasury. Il focus torna sul «premio a termine» e sull’offerta netta di debito pubblico. I bilanci privati appaiono solidi, ma «le traiettorie del debito sovrano, dovute a deficit elevati in Usa, Francia e Regno Unito, non sono rassicuranti». Da qui la valutazione di Salvatore Gaziano, direttore investimenti di SoldiExpert Scf, secondo cui «acquistare obbligazioni a medio-lungo termine rappresenti una scarsa opportunità nella scala delle opportunità della curva dei rendimenti». Chi aveva puntato sulle scadenze ultra-lunghe sulla scia della teoria di Ray Dalio - che le vedeva come «stabilizzatore» del portafoglio - si lecca ancora le ferite. La lettura di fondo è che i rendimenti reali sul tratto lungo possano restare elevati, o salire, complice l’emissione massiccia di debito e un’inflazione americana attesa «persistente». Fuori dagli Stati Uniti, pressioni inflazionistiche più moderate danno alle banche centrali un margine maggiore per tagli selettivi: da qui la preferenza tattica per duration brevi e intermedie. Non a caso, «nelle nostre selezioni obbligazionarie anche di titoli governativi preferiamo stare nella parte breve-media della curva», dice Gaziano. Per l’investitore italiano i titoli di Stato restano un pilastro difensivo: come spiega Giacomo Chignoli, consulente finanziario di Gamma Capital Markets, Btp a media scadenza, Btp Valore e CCTeu offrono rendimenti netti competitivi, grazie alla tassazione al 12,5%, e un profilo di rischio più leggibile rispetto a molte emissioni corporate. Il confronto internazionale - Treasury decennali oltre il 4%, Bund e OAT tra il 3,2% e il 3,6% - invita a non cadere nel «home bias (la tendenza a privilegiare investimenti nazionali, ndr)» e a utilizzare anche Etf e fondi su indici governativi in euro o globali. Con una Bce che a ottobre ha lasciato i tassi invariati, con crescita e inflazione tiepide, il vantaggio per il risparmiatore è chiaro: ancorare il portafoglio a scadenze corte-medie ben diversificate permette di beneficiare dei momenti attuali e mantenere flessibilità in caso di nuovi choc sui tassi.
Ernesto Maria Ruffini era un po’ sparito dai radar: l’ex direttore dell’Agenzia delle entrate, indicato qualche mese fa prima come possibile federatore del centrosinistra, poi come leader di un nuovo partito di centro alleato dello stesso centrosinistra, è stato superato nella gara a chi dovrà guidare questa Margherita 2.0 (per ora senza petali) sia da due sindaci, Silvia Salis di Genova e Gaetano Manfredi di Napoli, che dall’assessore capitolino Alessandro Onorato. Iniziative, interviste, eventi, quella Casa Riformista di Matteo Renzi che cerca di tenere dentro questi protagonisti: Ruffini era un po’ che non si faceva sentire. E così, ieri, ha scelto il quotidiano Avvenire per vergare un editoriale fluviale. A proposito di fisco, scrive Ruffini, «servirebbe una riforma organica, capace di restituire trasparenza e fiducia al patto fiscale. Il governo, invece, ha scelto la più classica delle scorciatoie, quella di provare ad abbassare le tasse, anche se solamente al ceto medio. Ridurre la seconda aliquota Irpef dal 35 al 33% per i redditi tra 28 e 50.000 euro. Una misura che riguarda circa 13,6 milioni di contribuenti, con un risparmio medio annuo di 200 euro. Il costo per lo Stato è di quasi 3 miliardi l’anno: non una tantum, ma un impegno permanente. Di fronte a una spesa simile, la domanda da farsi dovrebbe essere: è davvero questo il modo migliore di impiegare 3 miliardi ogni anno». Ridurre le tasse a quasi 14 milioni di contribuenti, per Ruffini, è sbagliato. Va bene, e quindi cosa avrebbe dovuto fare il governo nella legge di Bilancio, con questi 3 miliardi? «Si potrebbe decidere di cambiare il volto di un intero settore del Paese. Ad esempio», suggerisce Ruffini, «potremmo finalmente aumentare gli stipendi dei docenti italiani, per portarli in linea con quelli degli altri Paesi d’Europa per investire davvero sul nostro futuro, e investire in scuole sicure, moderne, inclusive. Oppure potremmo sostenere l’innovazione e la transizione industriale, che oggi ci vedono in grave in ritardo. Stellantis ha prodotto nei primi 9 mesi del 2025 oltre il 30% di auto in meno in Italia, mentre le auto elettriche cinesi dominano ormai il mercato globale». Al di là del fatto che gli stipendi dei docenti il governo Meloni li ha aumentati riducendo il cuneo fiscale, con tutto il rispetto per la innegabile competenza di Ruffini, con 3 miliardi di euro è veramente difficile immaginare di sostenere l’innovazione e la transizione industriale. Ruffini tende anche una mano alla Cgil di Maurizio Landini, tirando in ballo il fiscal drug: «A causa dell’inflazione», scrive ancora, «gli stipendi sono cresciuti solo sulla carta, ma hanno finito per essere tassati di più e così i lavoratori si ritrovano in tasca meno di prima». Ruffini, col suo movimento Più Uno, vuole essere della partita: è pronto a sfidare gli altri concorrenti al festival degli aspiranti leader del partitello di centro che dovrebbe consentire al campo largo di competere con il centrodestra. Ieri mattina poi, durante una iniziativa pubblica, Ruffini è stato più esplicito: «Stiamo cercando di costruire nel centrosinistra una comunità», sottolinea, «e il modo in cui lo si farà lo vedremo per strada altrimenti sarebbe la mia ricetta offerta agli altri. C’è l’ambizione di fare politica e contribuire», aggiunge Ruffini, «quello che succederà dopo lo decideranno i cittadini. Se il Pd si rifugia solo a sinistra lascia uno spazio abbandonato». Come si sceglie il leader del centrosinistra? «Credo che le primarie siano lo strumento migliore», sottolinea Ruffini, «ma primarie di contenuti altrimenti è solo talent show». Dunque almeno una cosa è cristallina: anche per Ruffini, Elly Schlein non è la candidata naturale a Palazzo Chigi delle opposizioni. Per scegliere l’avversario di Giorgia Meloni, occorrerà sfogliare i petali della margherita, sempre che fino al 2027 ne resti qualcuno.
L’obiettivo è chiudere la manovra, insieme al Documento programmatico di bilancio, entro il 15 ottobre. Conclusa la serie delle audizioni, domani il governo incontrerà i sindacati e lunedì prossimo, poco prima del consiglio dei ministri sulla legge di Bilancio, vedrà i rappresentanti delle aziende. Un tour de force prima della partenza del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti alla volta di Washington dove è atteso dal 15 al 17 ottobre per impegni del Fmi. Ieri un vertice di maggioranza con il premier Giorgia Meloni, i vicepremier Antonio Tajani e Matteo Salvini, e il leader di Noi Moderati, Maurizio Lupi, insieme al ministro Giorgetti, ha fatto il punto sulle misure.
Il governo ha scelto la strada della prudenza, privilegiando la stabilità dei conti pubblici e quindi il rientro del deficit nei binari indicati da Bruxelles e l’abbattimento del debito che è ancora alto. Il che vuol dire che ci sono «spazi molto stretti» come ha detto la Corte dei conti per misure espansive, compresa la riduzione della pressione fiscale sul ceto medio, il sostegno agli investimenti e agli incentivi chiesti dalle imprese e la salvaguardia della spesa sanitaria. Ma Giorgetti assicura che ci sono i margini per abbassare le tasse. La tesi del ministro, in risposta alle accuse da sinistra di premiare i furbetti, è che «se diamo fiato a chi è sommerso dalle cartelle, forse non uccidiamo l’impresa e questa può continuare a contribuire». Per la rottamazione ci sarebbe un ridimensionamento rispetto all’ipotesi iniziale: si andrebbe da 120 rate in 10 anni a una rateizzazione su 8 o 9 anni con un versamento minimo di 50 euro.
Sarà rinnovata di sicuro l’Ires premiale (scade quest’anno) per l’imprenditoria che fa utili e investe in occupazione e innovazione.
Il pilastro della manovra da 16 miliardi di euro saranno gli aiuti al ceto medio tramite la rimodulazione dell’Irpef, punto su cui il premier Giorgia Meloni dice di voler «dare un segnale». Se finora «ci siamo concentrati su redditi medio bassi, parlare del ceto medio significa parlare della fascia che arriva ai 50.000 euro». A questa spetterebbe il taglio dell’Irpef dal 35% al 33%, anche se Forza Italia vorrebbe includere anche i redditi fino a 60.000 euro.
Sul tavolo la conferma del congedo parentale facoltativo all’80% dello stipendio per tre mesi dopo la fine di quello obbligatorio. Resta in campo inoltre l’ipotesi di applicare il quoziente familiare ai nuclei che hanno almeno due figli. Vanno poi ripensati gli incentivi alle imprese perché quelli legati al Pnrr sono in scadenza. Tra i temi caldi c’è l’aumento dell’età pensionabile. Per bloccare l’innalzamento automatico di 3 mesi che scatta dal 2027, servono 3 miliardi a regime. I tecnici stanno pensando a diverse ipotesi per rendere meno onerosa la misura: dal blocco dell’aumento solo per chi ha già compiuto 64 anni che avrebbe un costo di 1,5 miliardi il primo anno e di 2 miliardi a regime, allo scatto di solo un mese nel 2027 e di uno o due nel 2028.
Anche se il governo ha dimostrato di voler procedere con cautela, consapevole delle scarse risorse, dalla Banca d’Italia arriva il richiamo a fare attenzione alle coperture delle misure che devono essere «chiare e credibili». Nel corso dell’audizione davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato, Andrea Brandolini, capo del Dipartimento Economia e statistica di via Nazionale, ha sottolineato che il Documento programmatico di finanza pubblica «non include informazioni sufficienti per avanzare valutazioni sulle singole misure». In ogni caso, ha aggiunto, «gli interventi di copertura dovranno essere certi». Sull’aumento delle spese per la difesa nel prossimo triennio, fino a 0,5 punti di Pil in più nel 2028, Bankitalia ha poi chiesto «misure correttive ulteriori». Brandolini ha sottolineato che «in assenza di misure correttive ulteriori rispetto alla manovra, una maggiore spesa per la difesa condurrebbe a una dinamica più sostenuta rispetto a quanto programmato». Con le spese per la Difesa «il debito alla fine del periodo è circa 7,5 punti e mezzo in più di quanto sarebbe stato in assenza», ha sottolineato invece la presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, Lilia Cavallari.
Nell’ambito della manovra, anche quest’anno si parla poi di chiedere un aiuto al sistema bancario. «Le banche fanno mega profitti e per me devono tornare a fare le banche», ha detto Giorgetti. «La banca nasce per prendere i risparmi, depositi e prestarli all’economia reale e in questo modo fa anche un’attività meritoria. Il problema è che oggi tanti istituti fanno enormi profitti non facendo queste attività ma gestendo la ricchezza. Oggi tra l’altro molti prestiti vengono erogati solo se c’è la garanzia dello Stato, che deve mettere la garanzia dell’80% del prestito che viene erogato, quindi fare la banca non assumendosi i rischi: quando c’è da prendere gli interessi attivi se li prendono loro, quando c’è la perdita se la deve prendere lo Stato». Il governo punta sull’impatto a lungo termine di riforme e investimenti. Il Dpfp dedica un’ampia sezione alla valutazione dell’effetto di queste misure sulla crescita potenziale del Paese.
La Commissione europea ha presentato ieri un nuovo piano, l’ennesimo, questa volta per tagliare le emissioni di CO2 del 90% entro il 2040 rispetto ai livelli del 1990. L’Unione europea ha già obiettivi di diminuzione delle emissioni del 55% al 2030 e del 100% al 2050, stabiliti con il Regolamento EU 2021/1119. Questa proposta si colloca a metà del percorso, con l’intento di accelerare il cammino verso il sacro Graal dello zero netto. Di fatto, il nuovo piano impone di velocizzare gli sforzi per ridurre le emissioni e concentrarli quasi tutti nel decennio 2030-2040, lasciando al decennio successivo le briciole della riduzione.
Formalmente, questa proposta è una modifica alla legge Ue sul clima, che quindi ora sarà sottoposta al Parlamento europeo e al Consiglio per la discussione e l’adozione, secondo la procedura legislativa ordinaria.
Il taglio delle emissioni al 2040 è stato presentato ieri a Bruxelles dalla vicepresidente esecutiva per una Transizione pulita, giusta e competitiva (sic), la spagnola Teresa Ribera, e dall’olandese Wopke Hoekstra, commissario europeo per il Clima, le emissioni nette zero e la crescita pulita (sic).
Durante la presentazione e la successiva conferenza stampa, in un profluvio di imperativi ispirati all’ottimismo della volontà, i due commissari non hanno lesinato le parole d’ordine classiche del gergo di Bruxelles: ambizione, competitività, resilienza, sostenibilità, tecnologie pulite. Insomma, spezzeremo le reni al cambiamento climatico.
Hoekstra ha detto che è stato necessario molto tempo per arrivare a questa proposta (la decisione era annunciata mesi fa) perché era necessario mettere d’accordo tante istanze differenti. Il commissario olandese ha anche detto che la proposta è pragmatica e flessibile. «Questa transizione è enorme, dobbiamo riconoscerlo, e dunque è assolutamente importante non essere dogmatici su come arrivare all’obiettivo fissato. La decarbonizzazione è un potente motore per la crescita. Facciamo in modo che l’Europa diventi un leader nel settore delle tecnologie pulite».
Una delle flessibilità introdotte in questa modifica alla legge sul clima, che stabilirebbe l’obiettivo intermedio di riduzione delle emissioni al 2040, è la possibilità di esternalizzare una parte (fino al 3%) degli sforzi per decarbonizzare, con l’utilizzo dei crediti di carbonio internazionali. In pratica, i Paesi potranno comprare crediti di carbonio da Paesi extra Ue che riducono le emissioni. La riduzione delle emissioni sarebbe così contabilizzata in capo all’acquirente e non al Paese che realizza effettivamente la decarbonizzazione. Una sorta di neocolonialismo emissivo, che la Germania ha preteso con forza.
Sarà poi possibile l’utilizzo di assorbimenti permanenti di CO2 (cioè la cattura di CO2 dall’aria) nel sistema Ets e una «maggiore flessibilità intersettoriale per contribuire al raggiungimento degli obiettivi». Cioè gli Stati potranno utilizzare le riduzioni delle emissioni in certi settori per compensare la mancata riduzione in altri settori.
Nonostante i segnali arrivati dalle elezioni europee dello scorso anno, nonostante le dichiarazioni di intenti su una nuova ragionevolezza delle politiche green europee, Bruxelles continua a perseguire il suicidio industriale, perseguendo obiettivi green che portano fuori mercato l’industria europea, nella convinzione che l’Ue possa diventare leader mondiale nelle tecnologie «pulite».
Lo conferma la stessa Commissione nel comunicato di ieri: «Con l’obiettivo proposto del 90%, l’Ue invia anche un segnale alla comunità globale: manterrà la rotta sui cambiamenti climatici, rispetterà l’accordo di Parigi e continuerà a collaborare con i Paesi partner per ridurre le emissioni globali».
Sul tema dell’obiettivo di riduzione delle emissioni al 2040, all’interno del Consiglio Ue della settimana scorsa vi sono state voci dissenzienti sull’opportunità di presentare adesso il piano, considerate le tensioni con gli Usa sulle questioni commerciali e in un momento in cui l’economia europea è in difficoltà, con i costi dell’energia alti.
In quella sede, qualcuno ha chiesto un rinvio della proposta, come il presidente francese Emmanuel Macron. Ma anche Polonia e Ungheria non sono d’accordo nel forzare i tempi. Macron ha detto che l’obiettivo per il 2040 deve essere compatibile con la competitività europea e in Consiglio Ue vi sarebbe stata una discussione accesa su questo tema.
Naturalmente, alle prime indiscrezioni sulla posizione critica di Macron sono scattate alcune Ong green, per accusare la Francia di volere l’apocalisse climatica.
Intanto, sempre ieri, la Commissione ha pubblicato un altro corposo pacchetto di norme (un regolamento delegato, un regolamento di esecuzione e un documento di orientamento con 13 allegati dedicati ad argomenti specifici) che servirà agli Stati membri nel recepimento con legge della direttiva sulle case green (Epbd). Le linee guida confermano che l’eliminazione (obbligatoria) delle caldaie a gas metano dal 2040 può avvenire in due modi: sostituzione con pompe di calore, teleriscaldamento o solare termico, oppure utilizzo di biometano.
Nel frattempo, poi, è già in vigore da quest’anno l’Ets2, ovvero il sistema che farà pagare dal 2027 le emissioni delle auto e del riscaldamento di casa. Aumenteranno cioè il costo del pieno di benzina e la bolletta del gas.
Del resto, è difficile che questa Commissione possa recedere dai suoi obiettivi: l’investimento politico sul Green deal è stato ed è tuttora enorme. A Bruxelles nulla è cambiato.
- La sinistra britannica ha rivisto le linee guida sulla concessione prolungata del diritto di soggiorno: «Non c’è persecuzione». Ma i profughi assaltano gli studi legali per scongiurare il rischio «limbo».
- Nel Regno Unito calano i consensi per Starmer. E ora anche Parigi deve fare i conti con l’austerità.
Lo speciale contiene due articoli.
Malgrado il Regno Unito sia guidato dall’esecutivo laburista di Keir Starmer, la sinistra britannica sta criticando da diverso tempo le rigorose politiche di protezione delle frontiere volute dal ministro dell’Interno, Yvette Cooper: segno che la lotta all’immigrazione non era affatto un vezzo dei precedenti governi conservatori, ma un’emergenza nazionale che va presa di petto con urgenza e determinazione.
Lo scorso gennaio, tra le altre cose, il ministero dell’Interno del Regno Unito ha aggiornato le proprie linee guida relative alle richieste d’asilo presentate dai cittadini ucraini. Il cambiamento principale riguarda la valutazione della sicurezza nelle diverse aree dell’Ucraina: anche se il conflitto con la Russia non è ancora terminato, il ministero considera ora generally safe («generalmente sicure») alcune zone del Paese, come Kiev e l’Ucraina occidentale. Questa revisione delle linea guida ha quindi portato il dicastero britannico a respingere molte domande d’asilo presentate dai rifugiati ucraini, negando loro la protezione internazionale. Nelle motivazioni fornite dai funzionari del governo, inoltre, viene specificato che il ritorno in patria sarebbe «ragionevole» e che, comunque, non esporrebbe i richiedenti asilo a rischi immediati.
Su questa vicenda è intervenuto ieri il Guardian con toni scandalizzati e accorati. «Molte famiglie ucraine», ha scritto il quotidiano, «stanno cercano un percorso che consenta loro di stabilirsi definitivamente nel Regno Unito, di garantire ai figli un’istruzione nel sistema scolastico britannico e di migliorare le loro prospettive di lavoro e alloggio. Diverse persone, infatti, sentono di non avere più nulla a cui tornare, provenendo da aree devastate dalla guerra». Il Guardian cita in proposito lo studio legale Sterling Law, che ha dichiarato di essere stato preso d’assalto da numerosi immigrati ucraini, «tra cui donne e bambini vulnerabili, le cui domande sono state respinte. Lo studio sta lavorando a diversi ricorsi, che comportano attese di diversi mesi, durante i quali gli ucraini sono condannati a rimanere in un limbo».
Al di là delle singole vicende personali - anche drammatiche - riportate dal quotidiano per suscitare l’empatia del lettore, è chiaro che le cose sono un po’ più complesse di quanto lasciato intendere dal Guardian. Andiamo ad analizzare i numeri: secondo i dati aggiornati al marzo 2025, il ministero dell’Interno ha registrato che, a partire dal 2022, il Regno Unito ha concesso circa 273.000 visti ai rifugiati ucraini. Per accoglierli, il governo ha attivato già nel 2022, nel giro di pochi mesi, ben tre programmi umanitari specifici, che garantiscono ai beneficiari la possibilità di soggiorno, lavoro e accesso ai servizi sanitari per la durata di tre anni.
Questi programmi hanno permesso di garantire protezione immediata agli ucraini senza passare dalla procedura di richiesta d’asilo tradizionale, per cui occorre dimostrare di essere stati vittime di persecuzioni individuali o fattispecie simili. È per questo motivo che, nonostante i numeri elevati di arrivi, le richieste d’asilo accolte restano contenute. Come riportato dal Guardian, dal 2023 solo 47 cittadini ucraini hanno ottenuto lo status di rifugiato e 724 hanno ricevuto una forma di protezione umanitaria.
Il punto è che, adesso, i visti concessi nel 2022, stanno per arrivare a scadenza. Per ovviare a questo problema, peraltro, il governo di Londra non è rimasto con le mani in mano, ma ha annunciato all’inizio del 2025 un’estensione del visto di 18 mesi per gli ucraini che già risiedono nel Regno Unito e che stanno beneficiando di questi tre programmi umanitari speciali.
Dopo questo anno e mezzo, però, che cosa succederà? Come specificato dal Guardian, molti di questi ucraini vorrebbero rimanere a tempo indeterminato in Gran Bretagna, che hanno eletto a loro patria d’adozione. Secondo un recente sondaggio, la percentuale di rifugiati intenzionati a rientrare in Ucraina è diminuita in modo significativo dall’inizio del conflitto: se nel 2022 circa il 77% dei rifugiati dichiarava di voler tornare in patria, questa quota è scesa nel 2024 al 43%.
Rimanere per sempre in Gran Bretagna, tuttavia, è una richiesta già più impegnativa. Lo status di rifugiato prevede infatti, per sua stessa natura, un periodo di soggiorno temporaneo. Il suo scopo, in altre parole, è quello di garantire protezione ai richiedenti asilo fintantoché la situazione nel loro Paese d’origine non ritorni alla normalità. E appunto, per il governo britannico, alcune zone dell’Ucraina sono oggi sufficientemente sicure. Si può discutere nel merito quanto si vuole, ma concedere a centinaia di migliaia di cittadini stranieri di risiedere indefinitivamente nel Regno Unito è una decisione che spetta al Parlamento, non alle Ong e alle associazioni sponsorizzate dal Guardian.
In ogni caso, un portavoce del ministero dell’Interno ha risposto così alle proteste del quotidiano britannico: «Dall’invasione di Vladimir Putin, abbiamo offerto o esteso la protezione a oltre 300.000 ucraini. Il programma Homes for Ukraine, inoltre, rimane attivo. Tutte le richieste di asilo vengono attentamente valutate nel loro merito, in conformità con i nostri obblighi internazionali. Nessuno che sia ritenuto a rischio di gravi danni sarà costretto a tornare in Ucraina».
La giravolta di Starmer: «Meno tagli al welfare». In Francia debito boom
La minaccia per l’Europa è rappresentata dai tagli alla spesa sociale, con le fasce deboli della popolazione che rischiano di essere sacrificate sull’altare dell’austerità e degli interessi geopolitici. Il paradosso sta emergendo negli ultimi giorni, dopo la chiusura del vertice Nato, tra l’entusiasmo per l’aumento delle spese militari e il chiodo fisso della difesa contro la Russia. Per i leader di Londra e Parigi, infatti, il ritorno alle questioni interne ha rappresentato un bagno di realtà. Lo scontro è avvenuto contro l’opinione pubblica, e nel caso britannico, perfino contro la stessa maggioranza di governo, avversa ad uno smantellamento dello Stato sociale.
«Il premier Starmer ha perso autorità» è quanto riportato dai tabloid britannici, con poche variazioni tra le varie linee editoriali. Infatti, la riforma del welfare, una delle bandiere del governo, ha incontrato l’opposizione perfino di oltre 120 deputati della stessa maggioranza, tutti contrari alla possibilità di tagliare i sussidi per i disabili e i lavoratori in malattia. Così Keir Starmer ha deciso di rivedere i suoi piani e di dialogare con la maggioranza, anche per non rischiare la sconfitta nel voto di martedì prossimo alla Camera dei comuni. In concreto, secondo le indiscrezioni, le nuove restrizioni si applicheranno solo ai nuovi richiedenti, tutelando i beneficiari attuali e allineando i contributi all’inflazione. In termini economici, questi aggiustamenti costeranno 3 miliardi di sterline e soprattutto non consentiranno di risparmiare quei 5 miliardi all’anno (dal 2030) previsti nella riforma originaria. In termini politici rimangono i malumori tra i parlamentari e si amplia la crisi del Governo, dopo neanche un anno dal suo insediamento. Secondo i sondaggi, l’attuale voto britannico sancirebbe la perdita di 233 seggi per i laburisti e il trionfo di ReformUK, il movimento di Nigel Farage. Possono esultare anche gli attuali beneficiari del welfare britannico: se la riforma originaria fosse stata attuata, 250 mila beneficiari, tra cui 50 mila minori, sarebbero finiti oltre la soglia di povertà.
Anche in Francia i tagli alla spesa pubblica rientrano nell’ordine del giorno. «Il risanamento delle nostre finanze pubbliche è una condizione indispensabile per la nostra sovranità economica» sono le dichiarazioni di Eric Lombard, il ministro dell’Economia. I sacrifici dovrebbero finanziare le armi e anche riportare il deficit pubblico dal 5,8% del Pil nel 2024 al 5,4% nel 2025. Così si prevedono tagli di 4,7 miliardi di euro, di cui 3 «sui crediti dello Stato» e 1,7 sull’assistenza sanitaria.
In concreto, si prevede di ridurre i rimborsi sulle spese mediche, gli aiuti alle famiglie e le indennità a favore dei lavoratori in caso di interruzioni sul lavoro, aumentando le tariffe delle visite mediche specialistiche. E per il 2026 Lombard ha annunciato un ulteriore sforzo di 40 miliardi di euro.
Anche in Francia non mancano gli attriti. Così, il Governo può solo sperare in un accordo verso metà luglio per la riforma delle pensioni. François Bayrou, il primo ministro, confida di giungere a un compromesso riducendo l’età pensionistica a tasso pieno di 67 anni a 66 e mezzo e migliorando gli indennizzi delle donne con bambini. I socialisti, però, non convinti, mantengono la mozione di sfiducia presentata contro il Governo e che dovrebbe passare al vaglio dell’Assemblea nazionale a inizio settimana.
Sullo sfondo, secondo l’Insee, il debito pubblico aumenta di 40,5 miliardi nel primo trimestre del 2025, arrivando a 3.345,8 miliardi, pari al 114% del Pil. Continua così quella tendenza, degli ultimi 50 anni, che vede la spesa pubblica soverchiare costantemente le entrate, passando dal 40,9% al 57% del Pil, tra il 1973 e il 2024. È il paradosso di un Paese che ha sempre esaltato il proprio modello sociale ma che ora si prepara alla corsa alle armi e al risanamento dei bilanci, come il resto dell’Europa.





