Il presidente e ad di Philip Morris Italia Pasquale Frega a Cernobbio (Ansa)
Il presidente e ad di Philip Morris Italia dal Forum Teha di Cernobbio: «La leva competitiva è cruciale per l'Italia e l'Europa».
Il presidente e ad di Philip Morris Italia dal Forum Teha di Cernobbio: «La leva competitiva è cruciale per l'Italia e l'Europa».
Secondo un'indagine di Mediobanca per le aziende italiane del settore il fatturato è in leggero aumento, mentre le esportazioni subiscono una lieve riduzione.
Con il Salone del mobile che si avvicina, le imprese del settore arredo-illuminazione in Italia sono state oggetto di un’indagine di Mediobanca per individuare i trend attuali e le maggiori sfide sul futuro prossimo. In particolare, sono state interpellate 490 imprese con un fatturato al di sopra dei 10 milioni di euro nel 2023, le cui vendite incidono per più del 60 per cento dell’intero sistema italiano.
Riguardo al fatturato totale del 2024, emerge un leggero aumento, raggiungendo un + 0,7 per cento rispetto al 2023. Ma è opportuno segnalare che le diverse performance tra le aziende sono legate alla localizzazione e alla dimensione così come alla gamma. Per esempio, le imprese con un fatturato maggiore di 100 milioni di euro, hanno registrato un aumento delle vendite pari al + 2,4 per cento rispetto alla media, ottenendo un risultato ancora più positivo sui mercati esteri con un + 4,3 per cento. Mentre gli operatori con meno di 100 milioni segnano un – 1 per cento sulle vendite, soffrendo particolarmente all’estero dove registrano un – 6,2 per cento.
In generale, se il fatturato totale è leggermente aumentato, al contrario, le esportazioni hanno subito una lieve riduzione pari al -0,9 per cento. A contribuire al calo sono le attuali tensioni geopolitiche ma anche le contrazioni nei maggiori mercati di sbocco come Francia e Germania in Ue, ma anche Regno Unito e Cina.
E per il 2025, pur considerando il contesto internazionale particolarmente complesso, le imprese operanti nel sistema dell’arredo-illuminazione restano ottimiste: il 75 per cento delle aziende, infatti, si aspetta una crescita sia del fatturato totale sia delle esportazioni quest’anno, stimando un aumento pari al + 2,5 per cento.
Inevitabilmente però le dinamiche internazionali in continuo cambiamento così come quelle locali portano a delle sfide con cui le aziende si aspettano di dover fare i conti.
Tra le maggiori criticità rilevate, la concorrenza di prezzo si trova al primo posto per oltre il 71 per cento delle imprese, mentre per il 60% è il contesto geopolitico instabile a essere la maggiore fonte di preoccupazione. L’ultimo gradino del podio è invece occupato dalle barriere commerciali e le misure protezionistiche attuate dagli Stati Uniti, con il 37 per cento in apprensione per gli effetti negativi. Si teme infatti, come sottolineato da Mediobanca, che le politiche protezionistiche possano incoraggiare l’entrata di prodotti made in China nei confini europei, con incognite su potenziale concorrenza sleale. Ma a preoccupare gli operatori del settore sono anche gli elevati costi energetici (35,7 per cento) e la competizione sulla qualità (22,9 per cento).
Nel tentativo di superare queste problematiche, dall’indagine emerge che più del 74 per cento delle imprese sarebbe interessato ad ampliare il proprio business su altri mercati, mentre quasi il 69 per cento invece si starebbe concentrando sullo sviluppo di nuovi prodotti e servizi. Si segnala anche un aumento degli investimenti nel green e in tecnologia, rispettivamente 31,4 per cento e 55,7 per cento.
In tema Esg, quasi l’80 per cento delle imprese ha lanciato attività di sensibilizzazione, con le principali iniziative che sono orientate alla gestione responsabile dei rifiuti (69 per cento), alla riduzione dell’uso di fonti fossili (58,6 per cento) e anche la riduzione di imballaggi (58,6 per cento). Ma sebbene oltre il 66 per cento delle aziende ritiene opportuno adottare un approccio etico e sostenibile anche per motivi reputazionali e per adeguarsi alle normative ambientali, quasi il 90 per cento degli operatori hanno dichiarato che i progetti Esg sono soprattutto autofinanziati. E sul fronte della neutralità carbonica entro il 2050, solamente il 41,4 per cento delle aziende starebbe definendo gli obiettivi per diminuire le emissioni. Al contrario oltre il 31 per cento non è in condizione di quantificare gli obiettivi e più del 27 per cento degli operatori non reputa necessario adoperarsi in quest’attività. Riguardo alla possibilità di arrivare al net-zero entro il 2050, la visione delle imprese è spaccata in due: il 50,8 per cento è fiducioso, mentre il 49,2 per cento è scettico.
«Tutti gli studi sono concordi: i bambini si sono ammalati meno degli adulti; se contagiati dal Sars-Cov-2 erano in genere asintomatici o presentavano sintomi lievi; il loro ruolo nella trasmissione del Covid è stato limitato; il confinamento domestico e la chiusura prolungata delle scuole hanno avuto conseguenze negative gravi e di lunga durata sulla salute fisica e psicologica dei bambini. I danni sono seri e proseguono».
Con queste poche parole Eugenio Serravalle, presidente dell’Associazione studi e informazioni sulla salute e componente della Cmsi, la Commissione medico scientifica indipendente, ha riassunto l’inutilità delle drastiche misure adottate durante l’emergenza sanitaria per arginare la popolazione pediatrica. Le misure restrittive come lockdown e chiusura delle scuole hanno svolto un ruolo importante nei comportamenti correlati alla salute e, forse, provocato più decessi non legati al virus. La sua audizione, in realtà molto più lunga e complessa delle poche righe riassuntive sopra riportate, era una delle più attese in commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia.
Il pediatra, che si è detto «orgoglioso di essere da 45 anni sul campo, senza conflitti di interesse: il mio lavoro è curare i bambini, informare i genitori e non smettere di leggere la letteratura scientifica», ha documentato ogni sua affermazione allegando link a studi e pubblicazioni di enti preposti alla sanità. Il quadro, emerso dalla sua relazione, è di un’inutile repressione di bimbi e adolescenti compiuta durante il Covid, non motivata scientificamente e altamente dannosa.
Perfino la rivista The Lancet, pochi giorni fa ha pubblicato dati sconvolgenti sulla perdita di aspettativa di vita tra il 2019 e il 2021, con il nostro Paese tra i peggiori quanto a calo (-0,36%), assieme a Grecia, Regno Unito e Scozia che hanno parametri negativi molto simili. «La mortalità in fascia 0-14 anni era ridotta in Italia nel 2020 e 2021», anni di maggior intensità pandemica, «mentre si è registrato un eccesso di mortalità da fine 2022, per cause che meritano di essere indagate», ha affermato Serravalle.
Che cosa può avere invertito la tendenza, quando l’emergenza stava calando? Di certo, ha osservato il pediatra, «si è persa la bussola del buon senso. Era scientificamente arcinoto che i bambini non diffondessero il contagio. Anzi, gli adulti con bambini piccoli erano a minor rischio di risultare positivi a Sars-CoV-2 e di finire ricoverati: nelle famiglie con figli l’indice di contagiosità è stato inferiore».
Eppure, scattarono misure durissime. Isolamento in casa, con perdita di possibilità di muoversi, di fare sport, di seguire un’alimentazione corretta mentre c’è stato «un aumento vertiginoso del tempo di esposizione agli schermi e di insorgenza di disturbi psico-patologici». Considerando diversi parametri, come chiusura dei trasporti pubblici, obblighi di restare a casa, restrizioni agli spostamenti interni e molto altro, l’Italia ottenne 74,2 punti, l’unico Paese europeo a superare quota 70 nell’«Indice del rigore». Dati alla mano, le chiusure in Italia furono tra le più dure eppure la mortalità non si ridusse. Rispetto a una media europea di 138 giorni di chiusura delle scuole, nel nostro Paese si contarono 341 giorni di chiusura totale. In Svezia furono solo 2, eppure «l’aspettativa di vita in quella nazione nordica crebbe dello 0,11%, mentre da noi calava dello 0,36%», spiegava Serravalle mostrando le slide frutto di revisione di lavori scientifici.
La sola conclusione possibile è che la politica delle chiusure, ripetute e generalizzate, risultò inutile. Anzi, dannosa. «Il problema non era solo ridurre i contagi, ma ridurre la mortalità», ha spiegato il pediatra ai commissari. «Le persone dovevano essere assistite, curate, non rinchiuse. I bambini, gli adolescenti sani, non avevano problemi con il Covid e non andavano penalizzati. Dalla pandemia, invece, i problemi psichici e di apprendimento dei giovani non hanno smesso di aumentare, così pure patologie come l’obesità. Non ci fu un sindacato dei bambini e dei ragazzi, altrimenti le scuole mai sarebbero state chiuse». Purtroppo è mancata la rete di sorveglianza epidemiologica, è mancata la tutela dei più fragili, di quanti si sono ammalati nelle Rsa, negli ospedali «e nelle proprie case. La medicina territoriale, già notevolmente ridotta negli anni precedenti, durante la pandemia è scomparsa», ha rimarcato Serravalle. Pochissimi medici visitavano a domicilio «ed erano presi di mira»; il protocollo era «solo antipiretici e attendere. Questo ha provocato un aumento della mortalità. Bisognava, invece, favorire l’immunità di gregge in modo sensato, lasciando che si immunizzassero i giovani e le persone sane che se lo potevano permettere, come ha fatto la Svezia, e proteggere gli anziani, i pazienti con più patologie». Se un simile disastro è stato possibile, è perché c’è stata «una ideologizzazione della pandemia, si è andati contro le prove scientifiche che non mancavano», è stato il duro affondo del pediatra.
Del tutto diversa è stata l’audizione di Giorgio Parisi, premio Nobel per la fisica. «Nel Bergamasco si arrivò all’immunità di gregge, ma morì l’1% degli abitanti. Se non fosse stata fermata la prima ondata, con il lockdown e le misure di contenimento, su scala nazionale ci sarebbero stati 700.000 morti», ha dichiarato. Per il professore «non c’erano cure all’inizio» e «i vaccini hanno avuto un effetto notevole soprattutto all’inizio». Quanto ai decessi, Parisi ha affermato che «il 90% dei morti Covid aveva il Covid come causa principale di morte. La distinzione morti con o per Covid non ha ragione di esistere».
Polli d’allevamento. La pandemia ha rinnovato la società in peggio e ne ha enfatizzato alcuni difetti strutturali: l’attitudine al divano, la dipendenza da Internet, l’aumento della solitudine, la crisi della socializzazione con l’esplosione del «dating online» (la ricerca del partner sul web). La fotografia di una comunità in depressione prolungata arriva dalla lettura in controluce, non conformista, della ricerca dell’Università Cattolica di Milano dal titolo «Behavioural Change, prospettive per la stabilizzazione di comportamenti virtuosi verso la sostenibilità». Ed è singolare che proprio il luogo simbolo della cultura cattolica ritenga «virtuose» le condotte che annunciano scricchiolii da crollo di una diga.
Lo studio, che ha analizzato i comportamenti degli italiani dal 2021 al 2024 mettendo sotto la lente d’ingrandimento 4.500 persone in due momenti successivi, sottolinea che gli uomini sono maggiormente condizionati delle donne e i giovani iperconnessi (guarda un po’) degli anziani con il Motorola a patella. E che l’utilizzo del web è diventato indispensabile per «la spesa, l’acquisto di abbigliamento, cosmesi e pasti, la lettura, la prenotazione degli alberghi, la fruizione dei film, i videogiochi, il gioco d'azzardo e il dating online». La ricerca nota che le spese nei negozi di vicinato e per ristorazione hanno subito una diminuzione strutturale (-15% e -43%), soprattutto tra chi ha scarse condizioni economiche.
I coordinatori della ricerca Emanuela Mora e Mario Maggioni si compiacciono che l’angelus novus, per dirla alla Walter Benjamin, sia praticamente un mezzo zombie. «Dopo la pandemia del Covid circa il 30% della popolazione italiana ha aumentato l’uso di internet, il tempo trascorso in casa e adottato comportamenti sostenibili», esultano i ricercatori mettendo soprattutto l’accento sullo smartworking come scelta di vita e l’accoppiamento Sofà+Netflix come panacea per un presente radioso. E quando arriva il languorino, basta convocare lo schiavo ghanese in bicicletta con la cena precotta. «All’ottavo piano, per favore, che non ho voglia di mettermi le Blundstone per scendere», aggiungerebbe il milanese imbruttito.
La malinconica fotografia di un declino eccita l’Università Cattolica, committente della ricerca, che invita a stabilizzare i comportamenti virtuosi invece che invertirli. L’ateneo sembra soddisfatto di una società in cui «l’utilizzo di Internet, per lavoro o tempo libero, è aumentato in modo strutturale (rispettivamente +23% e +37%), ma con differenze significative tra fasce d’età e livelli di istruzione. Ad esempio, il 36% dei laureati ha aumentato strutturalmente l’utilizzo di Internet per lavoro contro il 18% dei meno istruiti e le percentuali salgono rispettivamente a +43%e +32% per l’utilizzo del web nel tempo libero». Un dato che, se verificato allo specchio, regala una ben diversa analisi: i cittadini più dipendenti dal web, dai suoi condizionamenti e dalle sue degenerazioni (porno compreso) sono proprio i laureati. Di conseguenza la classe dirigente di domani si presenta come meno affidabile.
Quanto all’aumento della sostenibilità - immaginiamo pronunciata con la stessa enfasi con cui Beppe Sala pronuncia «inclusione» e Papa Francesco «resilienza» -, si concretizzerebbe perché «dallo studio emerge che la pandemia ha accelerato il processo di adozione di comportamenti virtuosi come il bere l’acqua dal rubinetto, l’uso più parsimonioso dei fogli di carta, l’utilizzo dei detersivi ecologici, l’acquisto di prodotti sfusi e a kilometro zero, la preferenza dell’usato al nuovo, il minore consumo di carne e la raccolta differenziata».
Non per spegnere gli entusiasmi, ma l’usato è esploso per i costi folli delle auto elettriche, l’acqua del rubinetto in alcuni comuni italiani esige la bollitura per evitare gastriti. E la raccolta differenziata vedeva molte città nostrane in cima alle classifiche europee del riciclo già 20 anni fa.
Aveva ragione lo scrittore americano Gregg Easterbrook: «Se torturi un numero abbastanza a lungo gli farai dire qualsiasi cosa». È ancora più vero al tempo dei Big Data, dove le interpretazioni a senso unico diventano presto dogmi da narrazione mainstream. Secondo «Behaviour Change», il meraviglioso cammino verso una civiltà di soldatini di piombo ecosostenibili (Albert Camus ed Eugene Ionesco lo temevano a metà del 900 senza focus statistici) mostra però un limite, un fastidio. «L’adozione dei comportamenti virtuosi rimane disomogenea sul territorio nazionale: nelle grandi e medie città circa un intervistato su tre (33%) dichiara di aver aumentato in maniera strutturale l’adozione di comportamenti sostenibili, mentre la percentuale è del 17% nelle zone meno densamente popolate, e questa differenza è particolarmente marcata nelle regioni del Sud». Morale: i micidiali effetti pandemici sono stati meno pervasivi nell’Italia di provincia, lì i polli d’allevamento faticano a zampettare. Ci salverà ancora una volta la casalinga di Voghera. E allora, viva l’ultimo tango a Zagarolo.
Nei tre anni di vaccinazione Covid, in Giappone le segnalazioni di miocarditi hanno rappresentato il 50,2% di tutti gli eventi avversi, riguardanti queste patologie cardiache e comunicati in un arco di tempo compreso tra aprile 2004 e dicembre 2023; le segnalazioni di pericarditi costituivano il 57,8% del totale. Sono stati segnalati casi gravi di shock cardiogeno o morte associati a miocardite.
«Nella popolazione giapponese, la vaccinazione con mRna Sars-CoV-2 è stata significativamente associata all’insorgenza di miocardite/pericardite. I fattori influenti includevano età inferiore ai 30 anni e sesso maschile. Inoltre, la maggior parte degli eventi avversi si è verificata subito dopo la vaccinazione», in genere non oltre gli otto giorni.
A segnalarlo è uno studio pubblicato sul numero di gennaio del Journal of Infection and Chemotherapy, rivista ufficiale delle società di chemioterapia, dell’associazione per le malattie infettive e della società per la prevenzione e il controllo delle infezioni del Sol Levante. Avvertono gli autori: «È imperativo concentrarsi sui maschi giapponesi di età pari o inferiore a 30 anni, esortandoli specificamente a cercare prontamente assistenza medica per l’ispezione e il trattamento in caso di sintomi al torace dopo la vaccinazione».
Un’ulteriore smentita, della falsa asserzione che le patologie cardiache post vaccino Covid sono rare e si risolvono in fretta, arriva dunque da ricercatori dell’università Keyo di Tokyo che per il loro studio hanno utilizzato i dati dell’equivalente giapponese della farmacovigilanza Aifa, l’agenzia regolatoria italiana.
«Abbiamo valutato sistematicamente l’insorgenza di miocardite e pericardite associata ai vaccini mRna Sars-CoV-2, così come i fattori che influenzano l’insorgenza di queste condizioni e gli esiti, utilizzando il Japanese Adverse Drug Event Report (Jader), un database su larga scala per la segnalazione spontanea di eventi avversi», spiegano gli studiosi. Hanno anche confrontato l’insorgenza e i fattori correlati per miocardite e pericardite associata a BNT162b2 (Comirnaty di Pfizer) e quelli associati a mRna-1273 (Spikevax, ex Covid-19 Moderna).
In 19 anni, tra situazione «normale» ed emergenza Covid ci sono state 1.846 segnalazioni di miocarditi e 761 di pericarditi. In epoca pandemica, le miocarditi segnalate come eventi avversi associati ai vaccini Covid sono state 919, le pericarditi 321. Associati a BNT162b2 (il vaccino di Pfozer, ndr) erano 559 casi di miocardite e 234 di pericardite; 360 casi di miocardite e 87 casi di pericardite erano imputati a eventi avversi post vaccino mRna-1273 (il preparato di Moderna, ndr).
Quindi, dal 2004 sono state segnalate 97,2 miocarditi l’anno, mentre dal 2021 al dicembre 2023 (periodo di vaccinazioni Covid) il numero è salito a 308 miocarditi l’anno. Un incremento di 3,2 volte. Le segnalazioni di pericarditi sono passate da 40 l’anno, per balzare nei tre anni di vaccino a 146,3 l’anno con un incremento di 3,65 volte.
Nello studio, l'insorgenza di miocardite e pericardite è stata aggregata per età. Sulla base del risultato, la maggior parte dei casi si è verificata in individui di età pari o inferiore a 30 anni, con miocardite che rappresentava il 68% (625 casi) e pericardite per il 60% (193 casi). Il tasso di insorgenza in individui di questa fascia di età «è stato elevato, del 61% (328 casi) per la miocardite e del 54% (126 casi) per la pericardite associata a BNT162b2; dell’84% (297 casi) per la miocardite e del 77% (67 casi) per la pericardite associata a mRNA-1273».
Dopo l’insorgenza di queste patologie cardiache è stato osservato un miglioramento (guarigione o remissione) nel 78% dei casi (595 persone) per quanto riguarda le miocarditi; per le pericarditi, nell’87% dei casi (222 persone). Un esito grave (complicazioni o mancata guarigione) è stato osservato nell’11% (80 casi) dopo l’insorgenza di miocardite e nell’8% (20 casi) dopo una pericardite. Il decesso di giovani pazienti è stato segnalato nell’11% dei casi di miocardite (84 individui) e nel 5% delle pericarditi (13 soggetti). Come morti post vaccinazione, è un numero inquietante.
«Il livello di espressione di autoanticorpi IgG e la percentuale di CD4, che produce sostanze infiammatorie, erano più alti nei giovani rispetto alle persone anziane dopo la vaccinazione a mRna contro Sars-CoV-2», che aumenta così il rischio di miocardite, hanno rilevato i ricercatori. Sembra che il testosterone sia coinvolto nell’insorgenza di questa patologia, per questo è più facile che siano i maschi ad essere colpiti dalla infiammazione del muscolo cardiaco. «Quando si inoculano individui di età pari o inferiore a 30 anni o individui di sesso maschile con vaccini mRna Sars-CoV-2, è necessario prestare attenzione all’insorgenza di miocardite e pericardite», scrivono gli autori.
Alcuni studi hanno mostrato la relazione tra il numero di vaccinazioni e l’insorgenza di miocardite e pericardite: il livello di espressione di IgG risultava più alto dopo la seconda dose rispetto alla prima. Inoltre, ricordano gli esperti giapponesi, uno studio di coorte nei database statunitensi delle segnalazioni di eventi avversi «ha mostrato che il rischio di miocardite e pericardite dopo la vaccinazione mRna Sars-CoV-2 era aumentato alla seconda dose».
Affermano di non aver potuto analizzare la relazione tra il numero di vaccinazioni e il rischio di miocardite/pericardite nel database Jader «a causa della difficoltà nel determinare la tempistica della dose», ma dichiarano che «la possibilità che il numero di dosi influenzi l’insorgenza di miocardite e pericardite non può essere eliminata dalla popolazione giapponese». Altro che vaccinazioni raccomandate come richiamo annuale.

