Attraverso l’iniziativa Perpetual Planet, Rolex, da sempre attenta alla tutela del mare, sostiene One Ocean Foundation, fondazione che monitora la presenza di balene e di altri animali nel Mediterraneo - e in particolare nelle acque del Canyon di Caprera - per garantirne la protezione. Ogni mese Ginevra Boldrocchi, biologa marina di One Ocean Foundation, fa rotta sul Mediterraneo. Tra i numerosi animali che vi scorge regolarmente vi sono capodogli, i più grandi predatori viventi del pianeta, e balenottere comuni. Fatto eccezionale, di recente sono state avvistate anche foche monache del Mediterraneo, una specie in pericolo di estinzione. Con il supporto dell’Iniziativa Perpetual Planet di Rolex, la fondazione mira a garantire la protezione dell’area e della sua fauna selvatica. Boldrocchi si è laureata con una tesi sullo studio comparativo delle aggregazioni degli squali martello in Sudan e nel Pacifico; ha collaborato anche con l’Acquario civico di Milano e da alcuni anni fa parte del team di One Ocean Foundation, di cui è Scientific Project Coordinator ed è coordinatrice del progetto M.A.R.E. «Marine Adventure for Research and EducationA in collaborazione con il centro velico di Caprera.
Com’è iniziato il tuo percorso nel mondo della ricerca marina? C’è stato un momento o un’esperienza particolare che ti ha fatto capire che volevi studiare gli squali?
«Fin da piccola ho desiderato studiare il mare, in particolare i delfini. La passione è nata grazie a mio padre, grande amante del mare, che mi ha portato a esplorare fin da subito alcune delle aree marine più incontaminate del pianeta. L’incontro con gli squali, invece, è stato quasi casuale. Mi era stato proposto di partecipare a un progetto di ricerca sugli squali martello in due aree piuttosto remote: i reef sudanesi e l’isola di Malpelo, nel Pacifico. Ho accettato spinta dalla curiosità, ma da quella incredibile esperienza di trovarmi immersa con più di 100 squali martello insieme e un grande coordinatore - Danilo Rezzolla - è nata una profonda passione, e un grande rispetto, per questi animali».
Gli squali sono spesso visti con paura o diffidenza: cosa ti affascina di più di questi animali e perché hai scelto proprio loro come oggetto di studio?
«Proprio immersa tra gli squali a Malpelo, ho capito quanto questi animali siano non solo affascinanti, ma anche profondamente fraintesi. Esistono oltre 500 specie di squali, la maggior parte di piccole dimensioni e abitanti di acque profonde, eppure nell’immaginario collettivo lo “squalo” resta quello bianco di Spielberg. Per dare un esempio, da oltre dieci anni studio lo squalo balena, un gigante filtratore che si nutre di zooplancton, quindi totalmente innocuo. Eppure ancora oggi amici e conoscenti mi dicono di stare attenta a non essere “mangiata” o “ingoiata”. Sappiamo ancora poco della maggior parte delle specie di squalo e quando ho iniziato ancora meno. Questa mancanza di conoscenza e di sensibilizzazione è ciò che mi ha spinta a concentrarmi proprio su questo ambito di ricerca».
Quali specie di squali hai studiato più da vicino nel corso della tua carriera? Ci sono comportamenti o caratteristiche che ti hanno sorpresa durante le tue ricerche?
«Nel corso della mia carriera ho studiato specie di squali molto diverse tra loro. Dallo squalo martello smerlato, noto per le sue grandi aggregazioni, fino allo squalo bianco, sul quale ho pubblicato il primo studio completo sulla distribuzione, l’ecologia e lo stato della specie nel Mar Mediterraneo. Dal 2016 porto avanti un progetto di ricerca sullo squalo balena a Gibuti, in collaborazione con enti locali e internazionali, focalizzato sull’ecologia e la conservazione di questa specie nel Corno d’Africa. È sorprendente come, nonostante le enormi differenze tra queste specie - per caratteristiche biologiche ed ecologiche - siano ancora spesso percepite come un unico “squalo» indistinto”».
Hai contribuito a portare alla luce il problema del consumo inconsapevole di carne di squalo. Puoi spiegarci come avviene questo fenomeno e quali prodotti alimentari ne sono coinvolti?
«Il tema del consumo di carne di squalo in Italia è qualcosa che mi sta a cuore da molto tempo. È stato, infatti, il primo motivo di collaborazione con One Ocean Foundation: sei anni fa, alla nascita della Fondazione, proposi di sviluppare insieme un progetto per sensibilizzare l’opinione pubblica non solo sul consumo inconsapevole di squali in Italia, ma anche sul loro stato di conservazione e sul ruolo ecologico fondamentale che rivestono negli ecosistemi marini. Infatti, nonostante l’Italia sia uno dei principali importatori mondiali di carne di squalo, il nostro studio - pubblicato su Marine Policy - ha mostrato che circa il 65% degli intervistati non sa che la carne di squalo è venduta legalmente nel nostro Paese. Ancora più sorprendente, quasi 1 italiano su 3 la consuma senza saperlo. Questo accade perché molti nomi comuni degli elasmobranchi (squali e razze) non contengono alcun riferimento diretto alla parola «squalo»: termini come palombo, smeriglio, verdesca, o gattuccio “mascherano” la reale identità del prodotto. Complice anche un prezzo spesso più conveniente rispetto ad altre specie ittiche, questi prodotti (specialmente congelati) vengono acquistati abitualmente, nella totale inconsapevolezza».
Secondo le tue ricerche, quanto è diffusa questa pratica in Italia o in Europa? Ci sono etichette fuorvianti o normative poco chiare che andrebbero riviste?
«Come accennavo, l’Italia gioca un ruolo di primo piano nel commercio globale di carne di squalo, essendo tra i cinque principali importatori al mondo. Per questo motivo, promuovere una maggiore consapevolezza a livello nazionale è cruciale per contribuire alla salvaguardia globale di questi animali. Non si tratta di etichette fuorvianti, ma di disinformazione. I prodotti a base di squalo sono venduti legalmente nei supermercati, con etichette che riportano sia il nome comune che quello scientifico. Il problema, quindi, è culturale: sta a noi consumatori acquisire consapevolezza e imparare a riconoscere ciò che mettiamo nel piatto».







