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Con Gad Lerner parliamo del dramma palestinese, della sorte della Striscia, degli errori e delle colpe che hanno condotto a questa situazione.
Con Gad Lerner parliamo del dramma palestinese, della sorte della Striscia, degli errori e delle colpe che hanno condotto a questa situazione.
Maurizio Bettini, molto autorevole studioso dell’Università di Siena, non certo collocabile nell’universo destrorso, ha appena pubblicato da Einaudi un robusto pamphlet piuttosto critico nei riguardi della cultura della cancellazione e della selezione politicamente corretta delle opere del passato, di quelle antiche in particolare. A un certo punto egli scrive parole decisamente condivisibili: «Decidere oggi di proporre una versione selettiva dei classici, ovvero cospargerne il testo di messe in guardia, costituisce una pratica che nessuno dovrebbe poter accettare: a meno che non sia pronto a riconoscere alla censura (dettata da qualsivoglia motivazione o ideologia) un valore che fa a pugni non solo con la libertà di pensiero e la conoscenza della storia, ma anche con la curiosità: una disposizione dell’animo che non a caso ha già costituito, nel passato, la bestia nera di apostoli e moralisti». Sarebbe opportuno riflettere con grande serietà sul tema sollevato da Bettini, perché risulta piuttosto evidente che, da qualche tempo, la sinistra italiana abbia un problema non indifferente con la censura.
Da qualche anno, e con maggiore intensità negli ultimi mesi, va diffondendosi un pericoloso tic, il vizio inquietante di invocare la cancellazione di alcuni autori senza conoscerli e l’oscuramento di certi libri senza averli letti. È accaduto, come sappiamo, al generale Vannacci, di cui si possono senz’altro non condividere le affermazioni, ma di cui è folle pretendere la messa al bando.
Succede pure con opere molto più blasonate e - non ce ne voglia il militare - notevolmente più significative.
Emblematica, a tal proposito, una vicenda raccontata ieri - non senza sdegno - dalla Stampa. A Gressoney, in Valle d’Aosta, è stato organizzato per sabato alle 18, in una sala comunale, un convegno intitolato Filosofia e alpinismo a Gressoney: Julius Evola. Invitati, tra gli altri, Luca Siniscalco (docente di Estetica) e Andrea Scarabelli (vicesegretario della Fondazione Evola), ovvero due studiosi garbati nei modi ed eleganti nella scrittura. Ed ecco il punto: alcuni politici ed ex politici locali hanno subito strepitato (qualcuno si è spinto a definire «topi di fogna» i conferenzieri); l’Anpi valdostana pretende la censura dell’evento, e per protesta ha messo in piedi ieri una sorta di controconferenza con Gad Lerner e Alberto Cavaglion. Il presidente dell’associazione partigiana, Nedo Vinzio, ha rilasciato dichiarazioni vagamente surreali: «Il nostro incontro serve a ricordare l’impegno antifascista del nostro territorio, mentre l’altro è stato inserito senza avere ben coscienza di cosa si tratti», ha detto. «In particolare, pare strano unire aspetti filosofici all’alpinismo. Non dubito che Evola fosse un amante della montagna, ma se bastasse questo allora piaceva anche a Hitler. Quello che disturba insomma è che un evento tanto discutibile venga introdotto surrettiziamente e addirittura nella sala comunale. Tra l’altro se si voleva parlare di alpinismo non è che in Valle d’Aosta manchino le persone per farlo. Evola invece è un filosofo da trattare con le molle per la sua vicinanza al fascismo, al nazismo e all’eversione neofascista. Spero che il Comune possa trovare una collocazione meno istituzionale per l’evento. In generale però noto che fino a qualche anno fa c’era più ritrosia da parte dei fascisti a mostrarsi, mentre da quando c’è un governo di destra vengono avanti in maniera lineare. È il discorso della fiamma della Repubblica sociale che non si vuole spegnere. E i simboli hanno il loro valore».
Ci auguriamo che la frase sui rapporti tra filosofia e alpinismo attribuita al presidente dell’Anpi sia stata riportata male, poiché se l’avesse effettivamente pronunciata in quel modo sarebbe oltremodo umiliante (per lui), dato che sull’alpinismo si sono cimentati fior di pensatori, ed Evola è fra i più notevoli a riguardo. Ciò che più infastidisce, tuttavia, è la sommarietà, la faciloneria con cui un grande autore (perché di grande autore si tratta) del Novecento viene ridotto a nazista antisemita. Del resto La Stampa definisce pure Céline «scrittore antisemita», figuratevi il livello.
Per altro, potremmo persino comprendere le perplessità su un eventuale incontro dedicato al razzismo o ad altre questioni sensibili. Ma che ci si straccino gli abiti per una conferenza sull’alpinismo è segno che si è precipitati nella paranoia.
Certo, Evola è un autore complicato, aristocratico, e va trattato - come tutti i pensatori di quel livello e di quella profondità - con attenzione e precisione. E infatti a parlarne sono stati chiamati illustri esperti con un bel numero di pubblicazioni all’attivo, non certo esponenti della Fratellanza ariana. A noi risulta che i cari progressisti abbiano ripetutamente ribadito, negli anni passati, l’importanza dell’approfondimento e della complessità. Essi, ad esempio, erano soliti dire: «Questo tema è complesso e richiede risposte complesse, ma i populisti vogliono dare risposte facili». Beh, a quanto pare della complessità si deve tenere conto soltanto quando fa comodo a loro.
Pure in queste settimane, fior di commentatori sinistrorsi si sono accaniti sul libro di Vannacci accusandolo d’essere grossolano e di contenere «discorsi da bar». Critica accettabile, come no. Ma non è ancor più grossolano trattare Evola come se fosse un criminale di guerra e pretenderne la cancellazione? In nome dell’antifascismo, ne deduciamo, si può serenamente lavorare di roncola, dimenticando le sfumature che in altre circostanze sono invece celebrate.
In realtà, ciò non ci stupisce: ormai l’atteggiamento dei «sinceri democratici» lo conosciamo. Non appena un pensiero non li soddisfa, si muovono per sopprimerlo, e non fanno differenza tra scienziati premi Nobel, luminari come Giorgio Agamben e comuni mortali. Semmai, a preoccuparsi delle conseguenze penose di questa moda censoria dovrebbero essere proprio gli autori di sinistra: un domani la mannaia potrebbe calare pure su di loro. All’Anpi dovrebbero saperne qualcosa: fino a qualche mese fa l’associazione era finita nell’elenco dei putiniani.
Era l’epoca delle liste di proscrizione a cui, va detto, proprio La Stampa dava grande risalto. Ah, a proposito: ci risulta che Julius Evola abbia collaborato a suo tempo anche con il quotidiano torinese. Ci aspettiamo dunque che l’Anpi ne chieda la chiusura o per lo meno pretenda adeguato risarcimento per i «crimini del pensiero» passati.
Immagino che molti si dispereranno per la mancata messa in onda, sulle reti Rai, del programma di Roberto Saviano. Io non sono tra quelli. E non tanto perché non consideri particolarmente interessanti i sermoni dello scrittore, che trovo di regola infarciti di luoghi comuni e soprattutto del più trito conformismo. No, non è per questo che non verserò una lacrima se verrò privato del «piacere» di vedere i servizi preparati dall’autore di Gomorra. Ma semplicemente perché penso che finalmente la tv degli italiani verrà restituita agli italiani. Tempo fa, in una delle stagioni in cui il centrodestra era stato al governo, ricordo di aver scritto un articolo che cominciava nel seguente modo: la maggioranza ha avuto tra le mani la più grande azienda culturale del Paese, cioè la Rai, e semplicemente non ha saputo che cosa farne. È inutile lamentarsi per l’occupazione manu militari dei programmi del servizio pubblico se poi, quando si ha la possibilità di cambiare, si lascia tutto com’era. Lamentarsi dell’egemonia culturale della sinistra, di un giornalismo fazioso che presidia le redazioni di giornali e telegiornali non serve a nulla se al momento in cui si possono modificare le cose si ha il timore di disturbare gli occupanti e di smontare il Sistema.
Nel corso degli anni, la Rai è stata sequestrata non dai partiti, ma da un partito, ovvero dalla sinistra, che si è presa tutto quello che poteva prendere e ha distribuito tutto quello che poteva distribuire. A spese naturalmente del contribuente. Quante volte vi siete chiesti perché i trombati eccellenti di fede progressista, persa una poltrona ne abbiano trovata immediatamente un’altra e guarda caso proprio nelle reti pubbliche? L’ultimo caso è quello di Marco Damilano, direttore dell’Espresso che, lasciata la guida del settimanale radical chic (l’editore non ne poteva più di ripianare le perdite), ha ottenuto un programma tutto suo su Rai3, in un’ora di punta e con un contratto che lo ripagava senza rimpianti del dispiacere di aver perduto uno stipendio. Sorprendente eccezione? Macché: per anni la Rai è stato lo stipendificio della combriccola di giornalisti che ruota intorno a Repubblica et similia. Da Gad Lerner a Concita De Gregorio, da Corrado Augias a Massimo Giannini: tutti hanno goduto del trattamento di mamma Rai a prescindere dagli ascolti. Del conduttore di programmi come La difesa della razza e L’Approdo si sa, perché ce ne siamo occupati spesso proprio su queste pagine. Più i suoi ascolti andavano giù e più la Rai lo tirava su. Scartato dalla 7, riciclato sulla terza rete: una promozione. Dell’ex direttrice dell’Unità pure sono noti i trascorsi: dopo aver ridotto al lumicino il giornale che le era stato affidato tre anni prima e che, dopo il suo trattamento, venne liquidato, l’ex inviata di Repubblica fu premiata con una trasmissione che già denunciava nel titolo la sua missione: Il pane quotidiano. Quello di Concita, bene inteso. Che è un po’ come quello di Damilano: se l’editore vende per disperazione il giornale che ti ha affidato, la pagnotta è assicurata dal pronto soccorso (rosso) di Rai 3.
Un tempo c’era Telekabul, una specie di riserva indiana dei comunisti. Ma poi, coloro che si dipingevano come confinati speciali sottrattisi alla lottizzazione della prima Repubblica, hanno conquistato l’intera tv pubblica. L’elenco delle trasmissioni che nel corso degli anni sono state affidate alla nidiata di cronisti allevata dalla scuderia del quotidiano radical chic è lungo. Si va da Michele Serra, autore di Fabio Fazio prima che questi traslocasse con un contratto più ricco su Discovery, a Ezio Mauro, che una volta lasciata la direzione di Repubblica si è scoperto voce narrante della storia d’Italia, passando con disinvoltura da Mussolini a papa Benedetto XVI, per finire a Lirio Abbate, anch’egli ex direttore dell’Espresso e anch’egli diviso tra Rai e la casa madre, ovvero Repubblica. Per un certo periodo addirittura il cavallo pazzo della tv di Stato si era affidato mani e piedi ai vertici del giornale fondato da Eugenio Scalfari. Nella stagione renziana, infatti, l’informazione fu delegata a Carlo Verdelli e a Francesco Merlo, mentre allo Sport venne piazzato Gabriele Romagnoli. Insomma, eravamo alla Repubblica di viale Mazzini. Da tenere presente che, mentre tutto ciò accadeva, il problema denunciato dal quotidiano diretto prima da Scalfari, poi da Mauro, Calabresi e infine dallo stesso Verdelli era il conflitto d’interessi di Silvio Berlusconi e il bavaglio del Cavaliere.
Beh, dopo alcuni decenni, il dominio della sinistra sulla Rai sta finendo. Lucia Annunziata (altra firma del gruppo Gedi) si è dimessa per protesta contro il regime. Fabio Fazio si è dimesso perché alla tv pubblica ha preferito i guadagni privati. Roberto Saviano - quello che faceva programmi con Fazio e Serra - è stato dimesso perché riteneva di godere di un’immunità speciale che gli consentiva di chiamare bastarda e malavitosi premier e ministri.
Dunque, di che devo lamentarmi? Di che cosa devo dolermi? Che a una cricca di reduci di sinistra sia stato tolto il megafono? Macché. In pochi mesi è stato smontato il Sistema. Finalmente.
Immagino che molti si dispereranno per la mancata messa in onda, sulle reti Rai, del programma di Roberto Saviano. Io non sono tra quelli. E non tanto perché non consideri particolarmente interessanti i sermoni dello scrittore, che trovo di regola infarciti di luoghi comuni e soprattutto del più trito conformismo. No, non è per questo che non verserò una lacrima se verrò privato del «piacere» di vedere i servizi preparati dall’autore di Gomorra. Ma semplicemente perché penso che finalmente la tv degli italiani verrà restituita agli italiani. Tempo fa, in una delle stagioni in cui il centrodestra era stato al governo, ricordo di aver scritto un articolo che cominciava nel seguente modo: la maggioranza ha avuto tra le mani la più grande azienda culturale del Paese, cioè la Rai, e semplicemente non ha saputo che cosa farne. È inutile lamentarsi per l’occupazione manu militari dei programmi del servizio pubblico se poi, quando si ha la possibilità di cambiare, si lascia tutto com’era. Lamentarsi dell’egemonia culturale della sinistra, di un giornalismo fazioso che presidia le redazioni di giornali e telegiornali non serve a nulla se al momento in cui si possono modificare le cose si ha il timore di disturbare gli occupanti e di smontare il Sistema.
Nel corso degli anni, la Rai è stata sequestrata non dai partiti, ma da un partito, ovvero dalla sinistra, che si è presa tutto quello che poteva prendere e ha distribuito tutto quello che poteva distribuire. A spese naturalmente del contribuente. Quante volte vi siete chiesti perché i trombati eccellenti di fede progressista, persa una poltrona ne abbiano trovata immediatamente un’altra e guarda caso proprio nelle reti pubbliche? L’ultimo caso è quello di Marco Damilano, direttore dell’Espresso che, lasciata la guida del settimanale radical chic (l’editore non ne poteva più di ripianare le perdite), ha ottenuto un programma tutto suo su Rai3, in un’ora di punta e con un contratto che lo ripagava senza rimpianti del dispiacere di aver perduto uno stipendio. Sorprendente eccezione? Macché: per anni la Rai è stato lo stipendificio della combriccola di giornalisti che ruota intorno a Repubblica et similia. Da Gad Lerner a Concita De Gregorio, da Corrado Augias a Massimo Giannini: tutti hanno goduto del trattamento di mamma Rai a prescindere dagli ascolti. Del conduttore di programmi come La difesa della razza e L’Approdo si sa, perché ce ne siamo occupati spesso proprio su queste pagine. Più i suoi ascolti andavano giù e più la Rai lo tirava su. Scartato dalla 7, riciclato sulla terza rete: una promozione. Dell’ex direttrice dell’Unità pure sono noti i trascorsi: dopo aver ridotto al lumicino il giornale che le era stato affidato tre anni prima e che, dopo il suo trattamento, venne liquidato, l’ex inviata di Repubblica fu premiata con una trasmissione che già denunciava nel titolo la sua missione: Il pane quotidiano. Quello di Concita, bene inteso. Che è un po’ come quello di Damilano: se l’editore vende per disperazione il giornale che ti ha affidato, la pagnotta è assicurata dal pronto soccorso (rosso) di Rai 3.
Un tempo c’era Telekabul, una specie di riserva indiana dei comunisti. Ma poi, coloro che si dipingevano come confinati speciali sottrattisi alla lottizzazione della prima Repubblica, hanno conquistato l’intera tv pubblica. L’elenco delle trasmissioni che nel corso degli anni sono state affidate alla nidiata di cronisti allevata dalla scuderia del quotidiano radical chic è lungo. Si va da Michele Serra, autore di Fabio Fazio prima che questi traslocasse con un contratto più ricco su Discovery, a Ezio Mauro, che una volta lasciata la direzione di Repubblica si è scoperto voce narrante della storia d’Italia, passando con disinvoltura da Mussolini a papa Benedetto XVI, per finire a Lirio Abbate, anch’egli ex direttore dell’Espresso e anch’egli diviso tra Rai e la casa madre, ovvero Repubblica. Per un certo periodo addirittura il cavallo pazzo della tv di Stato si era affidato mani e piedi ai vertici del giornale fondato da Eugenio Scalfari. Nella stagione renziana, infatti, l’informazione fu delegata a Carlo Verdelli e a Francesco Merlo, mentre allo Sport venne piazzato Gabriele Romagnoli. Insomma, eravamo alla Repubblica di viale Mazzini. Da tenere presente che, mentre tutto ciò accadeva, il problema denunciato dal quotidiano diretto prima da Scalfari, poi da Mauro, Calabresi e infine dallo stesso Verdelli era il conflitto d’interessi di Silvio Berlusconi e il bavaglio del Cavaliere.
Beh, dopo alcuni decenni, il dominio della sinistra sulla Rai sta finendo. Lucia Annunziata (altra firma del gruppo Gedi) si è dimessa per protesta contro il regime. Fabio Fazio si è dimesso perché alla tv pubblica ha preferito i guadagni privati. Roberto Saviano - quello che faceva programmi con Fazio e Serra - è stato dimesso perché riteneva di godere di un’immunità speciale che gli consentiva di chiamare bastarda e malavitosi premier e ministri.
Dunque, di che devo lamentarmi? Di che cosa devo dolermi? Che a una cricca di reduci di sinistra sia stato tolto il megafono? Macché. In pochi mesi è stato smontato il Sistema. Finalmente.
Caro Berlusconi, ti odiamo anche da morto. Il fatto che l’ex premier sia stato un personaggio pubblico deve aver fatto scattare nella testa di una serie di ex avversari politici l’idea che quindi non gli si debba concedere neppure quell’elementare pietà che da secoli gli esseri umani riservano a chi lascia questa terra. E invece da sinistra, in particolar modo da quelli che si professano cattolici, non sono mancati attacchi di ogni tipo. Neppure preceduti da quella formula un po’ ipocrita del «parlandone da vivo e non da morto…». Niente. Veleni in libertà, che sarebbero quasi un fatto di personale meschinità se non aiutassero a capire perché Silvio Berlusconi ha preso milioni di voti: combattuto più per essere Silvio Berlusconi che non per le sue idee e i suoi programmi politici.
In questa piccola galleria della totale mancanza di eleganza spicca Gad Lerner. Il giornalista caro a Carlo De Benedetti prima svelena su Twitter e poi si presenta regolarmente in duomo al funerale. Un attacco di presenzialismo acuto o un piccolo pentimento? Sui social aveva scritto, poche ore prima: «La coincidenza della morte di Flavia Franzoni Prodi con quella di Berlusconi suona beffarda, ma se non altro ci ricorda che esiste un’Italia migliore». Ma che bella idea, la gara di moralità tra feretri. E Lerner poi c’è pure rimasto male che sul sagrato Matteo Salvini non l’abbia degnato di uno sguardo.
Il lutto nazionale è stato contestato duramente da una serie di esponenti della sinistra. Brando Benifei, capogruppo del Pd al Parlamento europeo, ha definito «inopportuna» la scelta del governo Meloni, al pari di Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana. Quello che ha fatto più chiasso è stato sicuramente Tomaso Montanari, che da rettore dell’ateneo per stranieri di Siena non ha messo le bandiere a mezz’asta. Gelido l’ex presidente del Senato, il magistrato Piero Grasso, che intervistato dall’AdnKronos ha affermato: «Il lutto nazionale per la morte di Berlusconi? Si tratta di una decisione del governo in carica, una decisione politica. Non ho altro da aggiungere». Almeno ha evitato polemiche. Non così Rosy Bindi. L’ex ministro prodiano ha imperversato per tre giorni su giornali e tv per spiegare quanto era malvagio il caro estinto e ieri ha ribadito a La7 che comunque «è stato inopportuno il lutto nazionale per una persona divisiva come è stato Berlusconi». Il punto non è se Berlusconi abbia diviso o meno l’opinione pubblica. Il punto è se anche il giorno del suo funerale ci si debba per forza contrapporre. Un altro cattolico da battaglia come padre Alex Zanotelli se l’è invece presa con Santa Romana Chiesa. Il missionario ha sostenuto con il Fatto quotidiano che concedere al Cavaliere il duomo di Milano «significa esaltare un uomo, mentre dobbiamo avere il coraggio di dire quello che è stato. Altrimenti continueremo a fare della amoralità berlusconiana la nostra etica quotidiana». Poi, Zanotelli ha aggiunto che «tra Ruini e Berlusconi c’è stato un notevole connubio, ma questa non è la Chiesa di Francesco». La «Chiesa di Francesco», par di capire, dovrebbe concedere il duomo solo a funerali di provata fede progressista.
Anche tra i giornalisti non sono mancati gli irriducibili. Maurizio Molinari ha paragonato su La7 Silvio Berlusconi a Donald Trump: «Accentrare tutto su se stesso […] ha creato dei vulnus e ha concesso a Berlusconi alcuni eccessi. Sicuramente ci sono i suoi comportamenti nei confronti delle donne che lui esaltava nella sua volgarità e aggressività anche con offese nei loro confronti. E qui c’è un paragone nettissimo con Trump». Non pago degli insulti, il direttore di Repubblica ha continuato: «Trump usa lo stesso linguaggio e gli stessi comportamenti nei confronti delle donne perché, esattamente come Berlusconi, identifica in questo linguaggio un altro elemento di collegamento fondamentalmente con la base popolare». Un altro direttore del gruppo Gedi, Massimo Giannini della Stampa, è stato più sobrio ma ha comunque criticato duramente la scelta del lutto nazionale, in quanto l’ex premier è stato «un personaggio controverso» e perché «non c’è stato neppure per Paolo Borsellino e Giovanni Falcone». Sarebbe bastato affermare che fu un grave errore non stabilirlo per i due magistrati uccisi dalla mafia, senza fare sgradevoli paragoni. Al coro non si è sottratto neppure Corrado Augias, che ha sostenuto: «Capisco i funerali di Stato per un ex presidente del Consiglio, ma il lutto nazionale per un leader politico che è stato così profondamente, volutamente e aggressivamente divisivo non va bene». Va anche segnalato il caso imbarazzante di un giornalista di Repubblica, Michele Smargiassi, che da giorni imperversa su Twitter, anche sui profili altrui, protestando contro «il funerale da stadio», «il lutto per la Sublime Guida» e una presunta «corsa sul carro funebre del vincitore». Ognuno in fondo, davanti alla morte degli altri ha l’occasione di essere se stesso. I credenti, poi, si trovano ad aver a che fare con le parole urticanti di Gesù, che nel Vangelo dice: «Lasciate che i morti seppelliscano i morti». Se i vari Bindi e Zanotelli le avessero ricordate, probabilmente sarebbero rimasti in silenzio. Anche questa è una forma di pietà, la più semplice.

