La famiglia Benetton torna a fare affari in Italia. Ma niente passerelle a Pitti, né nuove collezioni «United colors», che ormai rappresentano la periferia povera dell’impero. Magliette e maglioncini non vengono liquidati solo in omaggio alle radici (ma fino a quando?). No, questa volta l’oggetto del desiderio è molto meno colorato ma infinitamente più redditizio: il risparmio degli italiani.
Dopo quasi 40 anni, la storica dinastia della maglietta globale e delle autostrade (scarse di manutenzioni), decide di riprovarci. Non con un nuovo brand di moda, non con il rilancio di qualche tessuto etico o collezione solidale. No, troppo rischioso, troppo reale. Il business di domani è molto più raffinato e remunerativo: la gestione del risparmio
Eccoci, dunque, al nuovo piano strategico di Alessandro Benetton, il rampollo dal volto rassicurante, presidente della cassaforte familiare Edizione, ex golden boy di Harvard, uomo d’affari con l’aria da pensatore e il pedigree da aristocrazia finanziaria. Uno che vuole «riprendere il filo del padre Luciano», dice. Ma attenzione: non il filo della lana o del cotone. Piuttosto, quello che porta dritto al patrimonio degli italiani.
Una novità che è anche un ritorno al passato. Correva l’anno 1997. L’Italia si avvicinava all’euro, Internet era ancora un’ipotesi tecnologica e Luciano Benetton, insieme a Gilberto, decisero che il futuro era nella finanza. Così nacque Capitalia Investimenti, una creatura ibrida a metà tra la boutique e il sogno di grandezza, un esperimento durato poco ma che lasciò il segno. Alla guida c’era un certo Gianfranco Cassol, detto Mister Miliardo - non per vanità, ma per risultati. Uomo brillante ed efficiente, con la straordinaria capacità di attrarre capitali come api sul miele. Peccato che il progetto non superò la boa del millennio. Ora, 2025, la storia si ripete. Ma con una regia molto diversa, in un mondo molto più cinico. Alessandro Benetton non ha scelto un erede di Cassol , scomparso un paio d’anni fa come Ennio Doris, con il quale aveva iniziato quando entrambi erano agli albori della carriera. No, troppo anni Novanta. Il suo alleato, secondo le indiscrezioni che circolano a Piazza Affari, si chiama Tages Holding, una creatura a metà tra hedge fund europeo e società di gestione ultra sofisticata. Fondata da una squadra di volti noti nei salotti che contano della finanza internazionale, Tages è una boutique per professionisti dell’alta quota, non certo un rifugio per cassettisti o piccoli risparmiatori di provincia.
Nel pantheon dei fondatori troviamo Panfilo Tarantelli, lupo di antico pelo della finanza globale. Prima Schroders poi Citibank, e ora in affari con il fondo Elliott, meglio noto in Italia per aver governato il Milan in anni difficili.
Accanto a lui, Umberto Quadrino, manager con lungo curriculum tricolore ma cuore francese, essendo stato il primo ad di Edison dopo l’arrivo di Edf, il colosso energetico pubblico di Parigi. In pratica, una squadra che ha passato molto tempo a gestire interessi esteri in Italia.
Con loro Alessandro vuole raccogliere 15 miliardi in cinque anni. Un obiettivo titanico, almeno sulla carta. Ma il vero problema non è la raccolta. Il problema, semmai, è: a che scopo? Per fare cosa? E soprattutto: per chi?
Parliamoci chiaro: in un Paese dove il risparmio è sempre stato la religione laica del ceto medio, dove i Btp sono più sacri del rosario e il mattone più solido del matrimonio, gestire i soldi degli italiani è un atto delicatissimo. Serve trasparenza, credibilità, continuità. Ma soprattutto: serve fiducia. Ecco, qui casca il ponte. O meglio: è crollato come il Morandi il 14 agosto 2018, a Genova.
Perché chi oggi viene a chiedere fiducia per gestire miliardi di risparmio privato è la stessa famiglia che, per 20 anni, ha incassato miliardi dai pedaggi autostradali con una gestione a dir poco «efficientata». Mentre le barriere si alzavano senza intoppi, le manutenzioni si riducevano all’osso, gli ispettori chiudevano un occhio e i dividendi salivano alle stelle. Fino al disastro.
Dopo quella tragedia, la famiglia ha fatto un elegante passo di lato. Ha venduto. Ha incassato. Ha lasciato l’Italia. Edizione ha voltato pagina: oggi i suoi capitali girano il mondo, da infrastrutture spagnole ad aeroporti sudamericani, con pochissimo rimasto in patria. Una partecipazione residuale in Generali, un po’ di moda con Benetton Group - ormai più storia che mercato - e poco altro.
Eppure oggi vogliono tornare prepotentemente in Italia. Ma non per investire. Per raccogliere.
Ma le Sgr - Società di Gestione del Risparmio - non sono supermercati. Sono istituzioni regolamentate, soggette alla vigilanza di Banca d’Italia e Consob. Ma diciamolo chiaramente: non bastano più i controlli di routine.
Perché il rischio non è solo quello di «perdere» il capitale. Il rischio, molto più grave, è quello di vedere il risparmio italiano finire in operazioni lontane dall’Italia. Magari per acquistare partecipazioni azionarie in aziende o in fondi internazionali che investono nel nostro Paese e poi chiudono (il caso Magneti Marelli non ricorda niente?).
Non siamo nel 1997. Alessandro Benetton è libero di tentare l’impresa. È un suo diritto. Ma che nessuno lo accompagni con fanfare e sorrisi. Perché questa volta, prima di investire, gli italiani hanno il diritto - e il dovere - di ricordare.
E se davvero qualcuno pensa di usare di nuovo la fiducia del Paese come salvadanaio privato che almeno abbia il coraggio di guardarlo negli occhi.