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Pubblichiamo il dialogo di Carlo Pelanda con Consultique Scf, la tv dei consulenti finanziari indipendenti.
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Nelle ultime due uscite pubbliche, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, si è soffermato sugli effetti della molteplice cessione dei crediti fiscali. Insomma, lo schema che tiene in piedi il Superbonus al 110%. In entrambe i momenti, intervenendo in Aula e in conferenza stampa post consiglio dei ministri, ha spiegato di voler subito mettere le cose in chiaro. Ed evitare che la cessione dei crediti oltre alla capienza fiscale (detrazione) non sarà permessa perché si tratterebbe di consentire una vera e propria valuta fiscale.
«La cessione del credito è una possibilità e non è un diritto. E quindi d’ora in avanti tutti coloro che faranno questa scelta avranno la certezza di poterlo dedurre dai propri crediti fiscali o di cederlo a una banca», ha detto Giorgetti spiegando che «prima di avviare il cantiere dovranno avere la garanzia dell’istituto». Il tema sembra sottigliezza, in realtà la questione è molto delicata perché incide sul debito pubblico e sugli accordi fondanti dell’Europa e il regolamento 974 del 1998, steso appena prima dell’introduzione dell’euro. La funzione di una moneta parallela, in questo caso un credito fiscale, sarebbe quella di rilanciare l’economia e gli scambi tra cittadini senza accedere al mercato internazionale del debito. Nel 2009 la California in serie difficoltà debitoria emise per i dipendenti pubblici e per i fornitori una sorta di cambiali con scadenza a tre mesi e un tasso al 15%. All’inizio le banche accettarono le cambiali, ma già dopo il primo semestre ci fu una frenata improvvisa, tanto da indurre i privati a gestire gli scambi di cambiali. Il rischio però di default fu tale che a ogni successiva controparte il valore facciale del pezzo di carta scendeva. Tornando alle spiegazioni di Giorgetti, si percepisce chiaramente il timore di incamminarsi verso questa strada ma soprattutto il timore di andare in frizione con l’Ue e quindi con il vincolo esterno che ci è imposto.
Se ne deduce che da qui si è passati alla scelta di tagliare il Superbonus e di ridurlo al 90% in un lasso di tempo brevissimo. C’è però anche da valutare un altro aspetto. Il governo precedente ha sottostimato la portata delle agevolazioni e si è semplicemente limitato a creare ostacoli burocratici senza intervenire in modo netto sul fronte legislativo. Da qui l’esplosione dei costi e degli oneri a carico dello Stato. Invece di 14 miliardi almeno 60. Lo stop vuole evitare ulteriore debito, con la consapevolezza che qualcuno di farà del male e molte aziende salteranno per aria. Ciò significa però buttare via il bambino con l’acqua sporca.
L’idea di trovare un sistema di crediti fiscali per stimolare in qualche modo il Pil non è così peregrina. Da un lato il cambio dell’euro è disancorato dei fondamentali della nostra economia e al tempo stesso la produttività è tenuta bassa dalla pressione fiscale e dalla mancanza di investimenti pubblici nelle infrastrutture portanti. L’idea di realizzare un grande progetto come il Pnrr si scontra però con l’inflazione che rimarrà strutturalmente stabile intorno al 10% a lungo contro il 2 valutato come benchmark del Recovery fund. A questo punto tagliare la testa al Superbonus senza trovare una strada di accompagnamento graduale per le aziende e senza immaginare la possibilità di una terza via fiscale rischia l’effetto frenata brusca. Eventualità che non ci possiamo permettere. Come ha detto l’altro ieri il numero uno di Confindustria, Carlo Bonomi, la bilancia commerciale sta diventando sempre più rossa. A settembre il disavanzo nei confronti dei Paesi non Ue sale a 5 miliardi contro un solo miliardo legato all’import. Quello energetico vale addirittura 12 miliardi.
In pratica, chiuderemo l’anno con almeno 60 miliardi di saldo negativo sulla bilancia commerciale. Non accadeva da 12 anni. Anche gli altri Paesi Ue sono in linea con noi. Salvo la Germania che ha dati meno negativi e in ogni caso sta cercando di vendersi il più possibile alla Cina per cercare di rimanere ancorata al mercato asiatico.
La differenza tra l’Italia e gli altri resta però l’enorme debito pubblico che rende gli investimenti o la possibilità trovare canali di crescita più ardui. Il trend della bilancia commerciale ci dice che insistere mettendo toppe sul modello decreto Aiuti non servirà in alcun modo a invertire la rotta della crescita. Tanto meno riusciremo a tenere sotto controllo l’inflazione. A differenza degli Stati Uniti l’impennata del costo del denaro da noi e in generale in Europa è indotta da fattori esterni e debolezze interne: la scarsa produttività e gli stipendi bassi.
Ecco perché vale la pena cercare di capire se un credito fiscale o moneta fiscale possa essere usato in qualche modo per stimolare gli scambi interni al Paese. Non certo in forma di pagamento degli stipendi dei dipendenti della Pa, ma forse tra singole aziende. Sono temi complessi, che non si esauriscono nello scambio di qualche battuta politica o giornalistica. La situazione del nostro Pil non è certo rosea, e lo schema imposto da Mario Draghi non ha funzionato. Non solo in relazione al Superbonus, ma anche nell’intera erogazione dei bonus antibollette. La povertà aumenta e l’inflazione galoppa.
L’aggiornamento alla Nadef illustrato venerdì pomeriggio dal premier, Giorgia Meloni, e dal ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, nasconde tra le righe il più grande alleato del nuovo governo: l’inflazione.
Per definizione, l’inflazione aiuta i debitori e penalizza i creditori e la Repubblica italiana, con circa 2.300 miliardi di obbligazioni in circolazione, riceve dall’inflazione un sostanzioso contributo per rendere sostenibile il proprio debito. Tuttavia non va dimenticato l’effetto recessivo e la perdita di potere d’acquisto che penalizza le classi meno abbienti. L’inflazione aiuta anche a sostenere la crescita nominale del Pil perché va infatti sottolineato che i parametri del debito del Trattato di Maastricht - cioè il rapporto deficit/Pil e il rapporto debito/Pil - vanno tutti calcolati utilizzando il Pil al lordo dell’inflazione, quello nominale appunto.
L’aiuto è visibile proprio confrontando gli ultimi numeri pubblicati venerdì, con quelli resi noti dal governo precedente in occasione della nota di aggiornamento al Def del settembre 2021, del Def di aprile 2022 e dell’ultima Nota di aggiornamento di fine settembre. Per il 2023, si osserva che a fronte di un repentino calo della crescita reale dal 2,8% al 0,6%, la crescita nominale non arretra affatto, anzi aumenta dal 4,3% al 4,8%. Tutto merito del deflatore del Pil, che passa dall’1,5% al 4,1% dell’ultima previsione.
In anni di inflazione molto bassa, il Pil nominale e la sua crescita era un parametro tenuto in scarsa considerazione, perché risultava molto prossimo al Pil reale. Quest’ultimo neutralizza l’effetto della variazione dei prezzi e rappresenta quindi il valore aggiunto dei volumi prodotti calcolato a prezzi costanti, cioè senza tenere conto delle loro variazioni.
Per passare da una variabile all’altra, si usa il deflatore del Pil. Che a sua volta risente degli specifici deflatori delle componenti del Pil: i consumi, le esportazioni e, con il segno negativo, delle importazioni.
Tutto è cambiato con la crescita dell’inflazione a partire dall’autunno 2021, che ha reso essenziale distinguere le due variabili.
Il lettore che ha avuto la pazienza di seguirci fin qui, si chiederà perché l’inflazione registrata in questi giorni intorno al 12%, sia così diversa da quella usata per il Pil. Prima di tutto l’ultimo dato del 12% è la variazione dei prezzi a ottobre 2022 verso ottobre 2021, cosa ben diversa dalla variazione dei prezzi attesa nel 2023, che dovrebbe essere inferiore. Ma soprattutto, va ricordato che l’inflazione dei prezzi al consumo risente sensibilmente della variazione dei prezzi dei beni importati, tra cui spicca quella dei prodotti energetici che così tanto hanno contribuito ad alimentare l’inflazione. Questi ultimi beni però vanno sottratti nel calcolo del Pil e quindi si arriva alla situazione attuale in cui il Pil è solo parzialmente gonfiato dall’incremento dei prezzi che leggiamo come consumatori, proprio perché buona parte di questo incremento è relativa a beni importati.
Il prezioso alleato della Meloni e di Giorgetti manifesta la sua presenza anche sotto altri due aspetti. Il primo è quello delle entrate tributarie. È evidente che se l’Iva è calcolata su basi imponibili gonfiate dall’inflazione, il gettito per lo Stato aumenterà. Così come aumenterà il gettito Irpef per l’aumento nominale - peraltro finora modesto - dei redditi da lavoro e pensioni. Proprio lunedì il dipartimento Finanze del Mef ha comunicato che nei primi nove mesi del 2022 il gettito Iva è aumentato di 18 miliardi, +18% rispetto al 2021. L’Irpef è aumentata del 4% (5,5 miliardi). L’Ires del 52% (8,9 miliardi). Il totale delle entrate tributarie ha fornito ben 37 miliardi in più alle casse statali (+10,9%). Questo maggior gettito è stato il più efficace strumento utilizzato dal governo Draghi per sostenere famiglie e imprese e promette di esserlo, seppure in misura inferiore, anche a favore del governo Meloni.
L’altro effetto meno noto al grande pubblico è quello che gli economisti chiamano «palla di neve» (snow ball). Senza entrare nei dettagli, se il tasso di crescita del Pil (g) è superiore al tasso di interesse reale sul debito (r), allora il rapporto debito/Pil diminuisce pure in presenza di un saldo primario negativo.
È l’effetto che purtroppo ha causato la crescita del rapporto debito/Pil per buona parte degli ultimi 20 anni. Infatti, pur avendo inanellato per quasi tutti gli anni dei rilevanti avanzi primari di bilancio, l’effetto palla di neve negativo ha fatto crescere il rapporto debito/Pil. Come detto, negli anni di bassa inflazione, i debitori stanno peggio. Nel 2023, così come per il 2022 a favore del governo Draghi, tale effetto è invece positivo e, pur in presenza di un disavanzo primario, consente la discesa del debito/Pil dal 147% del 2021 al 142% del 2023, fino ad arrivare al 138% nel 2025.
Ragionando in termini nominali - approssimati ma significativi - con una crescita del Pil del 2023 pari al 4,8% e un onere medio del debito pari al 2,5%, c’è un sufficiente cuscinetto di sicurezza per rendere sostenibile il nostro debito pubblico e non vederlo andare fuori controllo. Va infine evidenziato che la durata media del debito pari a 7,6 anni, impedisce alle nuove emissioni di titoli a tassi crescenti di impattare subito pienamente sul costo medio del debito.
Saltato per aria (nel vero senso della parola) il modello tedesco - bassa inflazione, moderazione salariale, compressione della domanda interna ed export trainante - contestato per anni, una crescita moderatamente inflazionistica sembra essere il migliore scudo a disposizione del governo Meloni per superare le difficoltà, almeno nel breve periodo.

