Per certi versi sarebbe stato meglio se avessero orchestrato tutto a sua insaputa, come ha suggerito ieri Dagospia, approfittando di una registrazione realizzata a maggio per un evento con Carlo Conti. Però le fonti ufficiali sostengono che tutto si sia svolto alla luce del sole: il messaggio del Papa mandato in onda nella serata inaugurale di Sanremo è stato realizzato appositamente per il festival e con la totale approvazione di Bergoglio. «Il video del Papa è arrivato il primo febbraio», dichiara Conti. «Ho scritto al Santo Padre il 12 gennaio. Dopo qualche giorno mi è arrivato questo video. Non l’ho detto a nessuno. Lui non lo sapeva? Fantascienza». Leggermente discordanti altre versioni, come quella di Adnkronos secondo cui il videomessaggio papale «è stato registrato due giorni fa a Casa Santa Marta» (dunque il 10 febbraio e non il primo). In ogni caso il Pontefice si sarebbe prestato «’molto volentieri». Dagospia suggeriva invece che Francesco avesse appreso tutto ieri mattina, a cose fatte, e che il filmato fosse opera «del responsabile della comunicazione di San Pietro, padre Enzo Fortunato (che due giorni fa guarda caso si è dimesso)». Il video, insiste il sito, «era un ringraziamento del Pontefice agli artisti (da Albano a Renato Zero) che avevano partecipato (cantando gratis) alla giornata mondiale dei bambini allo stadio Olimpico di Roma, presentata proprio da Carlo Conti». Il mistero rimane, ma restano pure i fatti. Francesco è apparso all’improvviso sullo schermo, quando le cantanti Noa e Mira Awad (rispettivamente israeliana e palestinese) erano già pronte per esibirsi. Non che abbia detto nulla di assurdo, anzi: ha parlato dell’orrore delle guerre, dei bambini che ne restano vittime e della musica come strumento di pace. Ovviamente, vista la presenza delle due artiste, il breve discorso è stato recepito come un auspicio per la risoluzione del dramma israelo-palestinese. Semmai il punto è domandarsi a che cosa sia servito tutto ciò. Perché il dubbio è che abbia giovato solamente al festival di Sanremo al quale ha portato, complice anche il retroscena di Dagospia, non poca pubblicità. Non v’è dubbio che la tragedia Mediorientale sia un tema decisivo. Ma se si debbono affrontare epocali questioni geopolitiche e umane con la superficialità vista all’Ariston - la solita canzoncina di John Lennon, pacifismo da supermercato come alla recita delle elementari, e due o tre frasettine fintamente commosse in attesa che la sarabanda riparta - forse è meglio lasciar perdere e delegare l’arduo compito ai talk show. Per snocciolare due parole generiche sul potere della musica sarebbe bastato un Bono Vox qualsiasi, mica c’era bisogno di Bergoglio. Al quale è stato riservato un curioso ruolo di presentatore: una sorta di Papadeus, ma con giacche meno sfavillanti rispetto allo showman originale. C’è poi l’aspetto più sorprendente e insieme sconfortante della faccenda. Il Papresentatore ha introdotto Imagine, brano contro cui si sono ripetutamente scagliati opinionisti e politici identitari. Si tratta, a ben vedere, del manifesto politico del peggior globalismo, che nella specifica circostanza sanremese risulta ancora più grottesco. Il testo che tutti sanno ripetere a memoria dice tra le altre cose: «Immagina che non ci sia il paradiso/ È facile se ci provi/ Nessun inferno sotto di noi/ Sopra di noi solo cielo». Poco dopo chiede all’ascoltatore di immaginare un mondo in cui non vi sia «niente per cui uccidere o morire/ E nemmeno la religione». Ci riesce, il Papa, a immaginare un mondo così? Davvero ha senso che il capo della Chiesa cattolica appaia al festival della musica leggera e introduca un brano in cui si auspica la scomparsa delle religioni? È come se chiedessero a Chiara Ferragni di presentare Fedez e Masini che cantano Bella stronza. Anzi, un po’ peggio. Sarebbe interessante sapere se gli astutissimi consulenti di comunicazione della Santa Sede abbiano riflettuto per un momento sull’opportunità del siparietto oppure no. In ogni caso, la scelta di Imagine suona vagamente surreale pure se si pensa al conflitto israelo palestinese. A Gaza e Gerusalemme da decenni combattono e sacrificano vite per rivendicare l’esistenza di Stati diversi per popoli diversi. Ciò che produce morte e spargimento di sangue non è l’esistenza degli Stati ma il fatto che non esistano o che esistano ma non vengano riconosciuti. È l’esatto contrario di ciò che si augura John Lennon quando canta «Imagine there’s no countries» (immagina che non ci siano Paesi): se quegli Stati ci fossero, probabilmente la guerra finirebbe. Anche per questo, pur non potendo sapere con assoluta certezza come si siano svolti i fatti, vogliamo credere a Dagospia. Vogliamo cioè sperare che Francesco non sapesse nulla di ciò che aveva organizzato Conti: a noi piace immaginare un mondo un po’ più serio di così.
Oggi il procuratore generale della Corte di cassazione francese, François Molins, sosterrà in udienza che Vincent Lambert deve essere ucciso. Come noto, il povero Vincent era stato salvato per un soffio lo scorso 20 maggio, quando la Corte d'appello di Parigi ordinò che gli venisse ripristinata la somministrazione di cibo e acqua. Qualche giorno dopo quella decisione, il governo francese decise di presentare ricorso, e adesso tocca al procuratore di Cassazione sostenere le ragioni dell'omicidio di Stato.
Nei confronti di Lambert c'è un accanimento tanatologico mai visto in altri casi. L'uomo è costretto in un letto dal 2008, dopo un grave incidente, ma non è moribondo. Respira e deglutisce da solo, non ha bisogno di macchinari che gli facciano battere il cuore. È un disabile grave, anzi gravissimo. Tuttavia ha dei genitori che lo amano e gli stanno vicini: con le cure adeguate può sopravvivere anni. Eppure lo vogliono ammazzare. Ce lo vendono come un atto caritatevole, in realtà è semplicemente un delitto che si cela dietro la finta pietà.
È una situazione orribile a cui sia il Papa sia un comitato Onu hanno cercato di porre rimedio, invitando la Francia a fermare l'esecuzione. Il fatto, però, è che sui media di questa vicenda sostanzialmente non si parla. In compenso, si è parlato tantissimo del caso di Noa Pothoven, diciassettenne olandese che si è lasciata morire di stenti in casa perché estremamente depressa e anoressica.
Si è detto che quella di Noa non è stata eutanasia, ma non è del tutto vero. C'erano medici ad assisterla, e nessuno l'ha fermata. Decisa a farla finita, ha trovato un escamotage legale per ammazzarsi senza conseguenze per nessuno. È morta di fame e di sete, proprio come si vorrebbe far morire Vincent Lambert.
Noa ha scelto di spegnersi perché il sistema sanitario olandese non ha saputo aiutarla. Il suo disagio psichico non è stato alleviato, svelando l'atroce paradosso di un Paese che permette ai minorenni di uccidersi ma non sa prendersi cura di loro. Sono venute a mancare le cure, ed è sopraggiunta la morte. Tutto ciò ha indignato molti commentatori anche in Italia. Persino intellettuali di sinistra come Massimo Recalcati hanno scritto articoli duri a favore della vita. Viene da chiedersi, allora, perché la stessa mobilitazione non ci sia per Vincent Lambert. Anche a lui vogliono togliere le cure. Poiché affrontare il suo disagio è troppo faticoso e oneroso per lo Stato, allora meglio lasciarlo crepare senza cibo e acqua. Ripetiamo: non è Eluana, non è un malato terminale. È un disabile che viene considerato dallo Stato una sorta di rifiuto da smaltire.
Viene un atroce sospetto: che la fine di Noa abbia fatto scalpore perché lei era giovane e bella. Vincent, invece, è un handicappato che fa smorfie in un letto, e allora si preferisce far finta di niente, per lui i cuori non si spezzano. Così, quando finalmente i francesi riusciranno a farlo fuori, Lambert sarà morto d'eutanasia e d'ipocrisia.
Per Marco Cappato è una fake news, non si è trattato di eutanasia nel caso della drammatica vicenda di Noa Pothoven, la diciassettenne che da tempo soffriva di anoressia e disturbi post traumatici a causa di tre stupri subiti. Lei ha smesso di bere e mangiare e si è lasciata morire a casa, coi familiari consenzienti. Ed è una tragedia maggiore perché è il sintomo di una società che non reagisce più al dolore e che trova come soluzione finire la propria esistenza grazie alla cultura della 'buona morte'» hanno tuonato Antonio Brandi e Jacopo Coghe, presidente e vice presidente del Congresso di Verona e di Pro vita e Famiglia. «L'accettare la morte o il suicidio lento di una persona umana fragile e turbata sarebbe la risposta a esperienze terribili che possono distruggere emotivamente e psicologicamente? Disperazione e depressione si possono curare ed è compito di psicologi e psichiatri, chi vorrebbe armare invece le mani dei medici per uccidere vite è complice di una mentalità mortifera che non può aiutare nessuno» hanno proseguito i due organizzatori di Verona. «Non si parli di "civiltà» - hanno poi concluso - «perché piuttosto come dice il Papa l'umanità è chiamata a non abbandonare mai chi soffre. In Italia, a parte questo caso, sta per arrivare la legge sull'eutanasia e fa davvero rabbia, di fronte a questo straziante "spreco di vita" e di sofferenza vedere come, in questi giorni, i soliti giornali fanno a gara a chi è più allineato col pensiero unico. Noi ci stiamo preparando a una campagna senza precedenti contro chi vuole una legge letale parlando di rispetto per la libertà. Statene certi: nessuno di noi sarà rispettato, saremo tutti inutili e soli appena ci sentiremo fragili o saremo depressi».






