Il problema immigratorio è certamente complesso e coinvolge il mondo intero, ma proprio per questo appare ancora più meschina la strumentalizzazione politica e lo sciacallaggio mediatico messi in atto da chi, a sinistra, va sfruttando le tragedie dei poveri morti in mare in questi ultimi giorni. Attribuire la responsabilità di quelle morti all’attuale governo è un’operazione indegna della legittima e democratica dinamica del confronto fra maggioranza e opposizione. Ed è un’offesa alla ragione, al buon senso e alla storia, purtroppo tragica, dell’immigrazione negli ultimi anni. L’Unhcr, Agenzia Onu per i rifugiati, nel proprio sito No End In Sight («Nessuna fine in vista») dichiara che tra il 2014 e il 2021 oltre 24.000 persone -uomini, donne, bambini, gravide, disabili - hanno perso la vita in mare, nel disperato tentativo di raggiungere Paesi che potevano assicurare una vita sicura e migliore. Quella vita che nelle loro nazioni di provenienza è drammaticamente negata. Nel solo 2016 si sono registrate 5.096 morti. Nel 2018, 2.277 morti; nel 2019, 1.510 morti. Drammatici numeri che descrivono le sole morti in mare, cioè senza contare morti e dispersi nelle rotte terrestri lungo il Sahara e remote aree di confine in Eritrea, Somalia, Etiopia, Sudan, Libia. «Il Sahara è pieno di corpi eritrei», ha dichiarato alla Cnn poche settimane fa il profugo Tekelber Han, fuggito dall’Eritrea sborsando ben 10.000 dollari. È sempre l’Unhcr a informarci che questi viaggi della speranza, che si trasformano tragicamente in viaggi della morte, sono drammaticamente aumentati negli ultimi anni: nel 2020, 1.544 morti in mare; nel 2021, 3.077 - 1.153 nella rotta Africa Nord Orientale-Canarie; 1.924 nella rotta Mediterraneo centrale e occidentale. Il doppio rispetto al 2020! Le statistiche di questi ultimi giorni già ci dicono che il numero di queste povere persone, che si mettono in mare nel miraggio di una vita migliore, è triplicato rispetto a due anni fa, ed è otto volte più grande rispetto a tre anni fa. Ora, di chi è la responsabilità di questo «esodo» che - a differenza di quello «biblico» - sta portando non alla libertà, ma alla morte e, molto spesso per i sopravvissuti, alla disperazione vedendo deluse nei fatti tante speranze? Di Giorgia Meloni? Di Matteo Salvini? Della Guardia costiera o di altre agenzie di soccorso, da Cutro a Lampedusa? Dalla Sicilia alla Calabria? Assurdo solo il pensarlo e ignobile il dichiararlo. Va detto a chiare lettere che le responsabilità in gioco sono ben altre e - purtroppo - l’elenco è piuttosto lungo: le criminali organizzazioni che gestiscono la tratta di persone umane; i prezzolati scafisti che fungono da carnefici (anch’essi - è bene dirlo - molto spesso povere vittime, sfruttate dai «signori della morte»); l’indifferenza colpevole e inqualificabile della comunità politica internazionale, in particolare europea, che non fa nulla per bloccare il turpe mercato all’origine; l’ignobile gioco delle diplomazie allo «scaricabarile», con la tattica di parlare tanto - così da mettersi a posto la coscienza- e non fare nulla; la passività e la quiescenza internazionale di fronte alle guerre locali (la «terza guerra mondiale a pezzi» l’ha definita papa Francesco), che costringono a fughe disperate. Aprire corridoi umanitari, certamente, ma al contempo fermare, bloccare, contrastare i flussi, le partenze, utilizzando ogni mezzo democratico di pressioni politiche, diplomatiche ed economiche. Se non si spegne il fuoco, la casa continua a bruciare; se si ha un’infezione, non si risolve il problema con la tachipirina! Andare all’origine del problema, o meglio del dramma; ed essere uniti, compatti, coraggiosi tanto quanto umanitari e solidali. Il nostro Paese, in tutti questi anni, ha fatto davvero molto e sta facendo ancora tantissimo in termini di accoglienza, ma non giova certamente alla causa - che è e resta quella di aiutare e salvare queste povere persone - il gioco meschino di incolpare un governo insediato da pochi mesi, utilizzando slogan brutali e indegni come «strage di Stato». Anche perché, se così fosse, la «strage», dati alla mano, andrebbe addebitata ai governi degli ultimi dieci anni, non certo al «neonato» di sei mesi.
Nonostante le polemiche, e le accuse degli ultimi giorni dopo la tragedia di Steccato di Cutro, la Guardia costiera continua a svolgere il suo lavoro, più che mai complesso anche perché le condizioni del mare sono difficili in questi giorni. Nella notte di ieri ha soccorso 211 migranti che sono stati salvati mentre tentavano di raggiungere le coste italiane. Le motovedette Sar Cp 324 e Cp 303 sono intervenute in zona Sar (search and rescue) italiana per poi fare rotta verso il porto di Lampedusa, «dove i naufraghi sono giunti in sicurezza, tra cui anche il presunto scafista, poi affidato alle forze di polizia». Il comando generale delle Capitanerie di porto e le operazioni «sono risultate particolarmente complesse per le condizioni meteo-marine avverse, il numero elevato di persone a bordo e le condizioni precarie dell’imbarcazione alla deriva, che iniziava a imbarcare acqua». Il salvataggio della scorsa notte è una risposta alle accuse piovute in queste ore sul corpo statale, che dipende dal ministero dei Trasporti e che si occupa della sicurezza in mare. Tanto che, a quanto apprende La Verità, la Guardia costiera avrebbe intenzione di querelare per diffamazione i quotidiani Domani e il Fatto per le ricostruzioni del dramma del 26 febbraio. L’autorità marittima, che nel 2022 ha salvato quasi 60.000 persone e nel 2023 già 9.000, si sarebbe rivolta all’avvocatura dello Stato per difendere la propria reputazione, cosa mai accaduta nella storia. Del resto le accuse di aver lasciato morire i migranti, non sono accettabili né tollerabili per il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini. «Faccio un appello a certa politica e a certo giornalismo: limitate la polemica alla politica e ai palazzi parlamentari, non coinvolgete pezzi di Stato di cui siamo orgogliosi. Perché gli uomini e le donne della Guardia costiera anche stanotte erano per mare soccorrendo, salvando e portando in sicurezza», ha ribadito ieri Salvini. D’altra parte, chi ha responsabilità in tutta questa vicenda sono senza dubbio gli scafisti che hanno deciso di affrontare il mare in condizioni pessime, in un tratto di costa privo di approdi. Ma anche Frontex potrebbe dover chiarire la sua posizione, anche perché, come ha già riportato il nostro giornale, il sistema di rilevamento europea aveva evidenziato il fatto che ci fosse una sola persona sul ponte superiore e di come la barca galleggiasse bene. Nel team Multipurpose Aereal Surveillance di Varsavia, infatti, all’interno del Frontex Situation Center, dove arrivano le immagini del velivolo Eagle 1 che monitora le cose, c’è anche un rappresentante dei diritti umani della stessa Frontex che ha il compito di promuovere «la piena applicazione dei diritti soggettivi delle persone viste dai sistemi di bordo e delle procedure applicate». Quando arrivano le immagini delle imbarcazioni vengono valutate dal team di esperti. Nella notte tra il 25 e 26 febbraio, la segnalazione è quella di un’ «imbarcazione» che non viene «ritenuta in una condizione di emergenza» e dove «la presenza di migranti è solamente presunta, infatti il dispositivo ha come obiettivo l’avvistamento di imbarcazioni dirette verso il territorio europeo adibiti a qualsiasi traffico illecito (droga, immigrazione, traffico di carburante ecc). Viene evidenziato che il natante è di possibile interesse per le conseguenti attività di law enforcement, viene avvistata a bordo una sola persona in coperta e vengono comunicati gli elementi cinematici del mezzo diretto verso le coste nazionali».
La procura di Crotone ha aperto un fascicolo per fare luce sulla macchina dei soccorsi di quella maledetta notte, ma non ci sono indagati né ancora un’ipotesi di reato. Nel frattempo, però, i carabinieri hanno iniziato a raccogliere documenti e registrazioni audio su quanto avvenuto quella notte. Tra questi c’è anche la relazione della Guardia costiera che aveva assegnato alla barca Summer Love con a bordo 180 migranti il codice «Ev. Imm. 533/2023». Nella relazione c’è il racconto, minuto per minuto, di quanto accaduto la notte tra il 25 e il 26 febbraio scorsi davanti alle coste di Cutro, nel crotonese. Nel testo emerge in modo chiaro come la Guardia costiera abbia seguito passo per passo quanto stava accadendo. «Ore 23.37», si legge, «la Guardia di finanza di Vibo Valentia contattava la Capitaneria di porto di Reggio Calabria chiedendo se fossero a conoscenza della segnalazione dell’Eagle 1 precisando che si trattava di un’attività di polizia che stava seguendo la Gdf, la stessa precisava altresì che c’era una loro unità in mare (V5006), uscita da Crotone e pianificata sino alle ore 6 che avrebbe atteso l’arrivo del target. Mrsc Reggio Calabria manifestava la disponibilità ad avvisare Roccella e Crotone (sorgitori della Cp 321 e Cp 326) ma al telefono Roan Gdf precisava che per il momento “l’attività viene gestita” dalla Gdf». Così alle 23.39, si legge ancora nella relazione, «Mrsc Reggio Calabria (cioè il Centro di soccorso) riportava a Mrcc di Roma che erano state allertate le vedette Cp 321 (su Crotone) e Cp 326 (su Roccella) e veniva riferito che la Gdf aveva fatto sapere: di avere classificato l’operazione con “attività di polizia marittima”, che in mare c’era la V5006 pianificata fino alle 6 dell’indomani e che avrebbe atteso l’imbarcazione “sotto costa”, condizioni meteo marine permettendo». Era quindi un’attività di polizia, non di soccorso. Alle 3.48 la Guardia di finanza avvertiva che stava facendo rientro per le condizioni avverse, «ma che sarebbero state impiegate in caso di richieste di soccorso». In particolare, da quanto era emerso fino a quell’ora, «non c’erano elementi d criticità, anche perché era visibile una sola persona a bordo». Pochi minuti e la barca si sarebbe spezzata con 180 persone a bordo.
Da giorni gli indignati speciali insistono: «Li hanno lasciati morire». Lo ha scritto Repubblica, lo ha ribadito La Stampa, l’ha confermato Avvenire. Per i quotidiani cattocomunisti non ci sono dubbi: il naufragio è di Stato. Per questo i giornali di casa Agnelli hanno deciso di processare la Guardia costiera. Obbiettivo, come ha chiarito Domani, foglio di casa De Benedetti, cioè sempre ramo industrial-radical chic, accusare Matteo Salvini, ministro da cui dipende l’autorità marittima. In realtà, sebbene i toni si siano alzati, nulla avvalora la tesi che a testate unificate si vorrebbe accreditare, e cioè che la strage in cui domenica sono morte 65 persone e altre 30 sono disperse in mare sia colpa dello Stato e dunque di chi è al governo.
Per capirlo basta fare il resoconto di ciò che è successo. Un barcone partito da Smirne carico di migranti arrivati dal Pakistan e dall’Afghanistan, ma anche dalla Tunisia. Gente disperata, che a caro prezzo si affida a tre o forse quattro scafisti. La traversata con destinazione Italia non risulta delle più facili, perché prima il peschereccio su cui sono stipati i profughi si guasta, costringendo uomini, donne e bambini a salire su una bagnarola forse anche meno sicura della precedente. Chi è al timone tuttavia, pare dimostrare una certa esperienza. Infatti, nonostante il mare non sia proprio tranquillo, non fa rotta verso porti più vicini, in Grecia o in Puglia, ma punta diritto verso la costa ionica della Calabria, dove spesso approdano le barche con il loro carico di disperati. La sera del 25 febbraio, dopo che una stazione radio aveva ricevuto un allarme, un aereo Frontex avvista un’imbarcazione sospetta a circa 40 miglia a Sud Est di Isola Capo Rizzuto, nel Crotonese. Il rapporto dell’agenzia europea per il controllo delle frontiere marittime non parla di una barca in avaria, ma segnala che il natante ha una buona galleggiabilità, non ci sono persone in acqua e, a parte una, non si intravedono altre figure sul ponte. Forse sono sotto coperta, ma a giudicare dal messaggio dopo la ricognizione, quella avvistata non è una nave in avaria, semmai un barcone che cerca di approdare sulle spiagge calabresi, come capita spesso.
Così, sulla base di quella segnalazione, partono una motovedetta e un pattugliatore della Guardia di Finanza per cercare di intercettare l’imbarcazione. Il mare è forza 4, dunque le condizioni non sono proibitive. Sono le ore 2.30 del mattino, ma dopo un’ora di navigazione le unità marine delle Fiamme gialle sono costrette a rientrare in porto senza aver agganciato il caicco partito dalla Turchia. Si può anche supporre che il barcone non avesse nessuna intenzione di farsi agganciare, perché essendo carichi di clandestini, gli scafisti che lo conducevano è possibile che abbiano fatto qualsiasi cosa per sottrarsi ai controlli. È la regola dei trafficanti di uomini fuggire alla polizia per evitare di essere arrestati. Una volta in porto, motovedetta e pattugliatore della Gdf fanno rapporto. E alle 3.40 la centrale operativa della Finanza comunica all’autorità marittima di Reggio Calabria che le unità navali delle Fiamme gialle sono rientrate per le condizioni avverse e chiedono un intervento della Guardia costiera, nonostante ancora non ci sia alcuna segnalazione di allarme. Perché la Gdf passa la palla alla Guardia costiera? Perché a differenza dei finanzieri, il corpo delle capitanerie dispone di natanti che possono affrontare anche un mare forza 8. Alle ore 3.50 la sala operativa delle Fiamme gialle, mediante la postazione della rete radar costiera, riesce a identificare la posizione del caicco segnalato da Frontex, ma alle 3.55, contattati dalla sala operativa delle Fiamme gialle, i carabinieri di Crotone comunicano di aver ricevuto una chiamata da un’utenza satellitare che segnala la presenza di un’imbarcazione in difficoltà a poca distanza dalla costa, in località Steccato di Cutro, e dunque gli equipaggi delle imbarcazioni appena rientrati in porto partono verso la località segnalata.
Ecco, a quell’ora la tragedia era già avvenuta. Il barcone partito dalla Turchia probabilmente era già finito su una secca e affondato senza che la Gdf né la Guardia costiera potessero fare nulla per impedirlo. Non avevano alcuna richiesta di aiuto, non avevano la posizione esatta del natante e nonostante gli sforzi non sono riusciti ad agganciare il caicco prima che naufragasse. Gli indignati speciali si attaccano al lasso di tempo in cui la Finanza torna in porto e chiede all’autorità marittima un intervento. Ma fosse anche uscita con tempestività, la Guardia costiera non avrebbe potuto impedire la tragedia. Dal porto di Crotone alla località Steccato sono 23 miglia marine, che con un mare forza 7 non si percorrono in un quarto d’ora. La barca dei migranti, quando venne segnalata, era a quattro miglia dalla costa, dunque le unità della Capitaneria non sarebbero mai riuscite ad arrivare prima che l’imbarcazione finisse affondata, tanto è vero che le pattuglie della Gdf, una volta allertate dai carabinieri, impiegano quasi un’ora a raggiungere la zona del naufragio. Altro che strage di Stato e nessuno ha voluto salvarli: nessuno ha lasciato morire i migranti e sfruttare la morte di uomini, donne e bambini è solo un uso strumentale e cinico di una tragedia.
Un’ultima osservazione: secondo alcuni, il naufragio non sarebbe la conseguenza delle condizioni del mare, ma di un tentativo di sottrarsi ai controlli. In prossimità della spiaggia gli scafisti, nel tentativo di cambiare rotta, avrebbero eseguito una manovra spericolata. Sarà la magistratura a stabilire se quest’ipotesi sia fondata. Di certo non lo possono dire Repubblica, La Stampa, Avvenire e Domani. Per il semplice motivo che a loro non interessa ciò che è accaduto, ma solo poter attaccare il governo dei cattivi.
Da giorni gli indignati speciali insistono: «Li hanno lasciati morire». Lo ha scritto Repubblica, lo ha ribadito La Stampa, l’ha confermato Avvenire. Per i quotidiani cattocomunisti non ci sono dubbi: il naufragio è di Stato. Per questo i giornali di casa Agnelli hanno deciso di processare la Guardia costiera. Obbiettivo, come ha chiarito Domani, foglio di casa De Benedetti, cioè sempre ramo industrial-radical chic, accusare Matteo Salvini, ministro da cui dipende l’autorità marittima. In realtà, sebbene i toni si siano alzati, nulla avvalora la tesi che a testate unificate si vorrebbe accreditare, e cioè che la strage in cui domenica sono morte 65 persone e altre 30 sono disperse in mare sia colpa dello Stato e dunque di chi è al governo.
Per capirlo basta fare il resoconto di ciò che è successo. Un barcone partito da Smirne carico di migranti arrivati dal Pakistan e dall’Afghanistan, ma anche dalla Tunisia. Gente disperata, che a caro prezzo si affida a tre o forse quattro scafisti. La traversata con destinazione Italia non risulta delle più facili, perché prima il peschereccio su cui sono stipati i profughi si guasta, costringendo uomini, donne e bambini a salire su una bagnarola forse anche meno sicura della precedente. Chi è al timone tuttavia, pare dimostrare una certa esperienza. Infatti, nonostante il mare non sia proprio tranquillo, non fa rotta verso porti più vicini, in Grecia o in Puglia, ma punta diritto verso la costa ionica della Calabria, dove spesso approdano le barche con il loro carico di disperati. La sera del 25 febbraio, dopo che una stazione radio aveva ricevuto un allarme, un aereo Frontex avvista un’imbarcazione sospetta a circa 40 miglia a Sud Est di Isola Capo Rizzuto, nel Crotonese. Il rapporto dell’agenzia europea per il controllo delle frontiere marittime non parla di una barca in avaria, ma segnala che il natante ha una buona galleggiabilità, non ci sono persone in acqua e, a parte una, non si intravedono altre figure sul ponte. Forse sono sotto coperta, ma a giudicare dal messaggio dopo la ricognizione, quella avvistata non è una nave in avaria, semmai un barcone che cerca di approdare sulle spiagge calabresi, come capita spesso.
Così, sulla base di quella segnalazione, partono una motovedetta e un pattugliatore della Guardia di Finanza per cercare di intercettare l’imbarcazione. Il mare è forza 4, dunque le condizioni non sono proibitive. Sono le ore 2.30 del mattino, ma dopo un’ora di navigazione le unità marine delle Fiamme gialle sono costrette a rientrare in porto senza aver agganciato il caicco partito dalla Turchia. Si può anche supporre che il barcone non avesse nessuna intenzione di farsi agganciare, perché essendo carichi di clandestini, gli scafisti che lo conducevano è possibile che abbiano fatto qualsiasi cosa per sottrarsi ai controlli. È la regola dei trafficanti di uomini fuggire alla polizia per evitare di essere arrestati. Una volta in porto, motovedetta e pattugliatore della Gdf fanno rapporto. E alle 3.40 la centrale operativa della Finanza comunica all’autorità marittima di Reggio Calabria che le unità navali delle Fiamme gialle sono rientrate per le condizioni avverse e chiedono un intervento della Guardia costiera, nonostante ancora non ci sia alcuna segnalazione di allarme. Perché la Gdf passa la palla alla Guardia costiera? Perché a differenza dei finanzieri, il corpo delle capitanerie dispone di natanti che possono affrontare anche un mare forza 8. Alle ore 3.50 la sala operativa delle Fiamme gialle, mediante la postazione della rete radar costiera, riesce a identificare la posizione del caicco segnalato da Frontex, ma alle 3.55, contattati dalla sala operativa delle Fiamme gialle, i carabinieri di Crotone comunicano di aver ricevuto una chiamata da un’utenza satellitare che segnala la presenza di un’imbarcazione in difficoltà a poca distanza dalla costa, in località Steccato di Cutro, e dunque gli equipaggi delle imbarcazioni appena rientrati in porto partono verso la località segnalata.
Ecco, a quell’ora la tragedia era già avvenuta. Il barcone partito dalla Turchia probabilmente era già finito su una secca e affondato senza che la Gdf né la Guardia costiera potessero fare nulla per impedirlo. Non avevano alcuna richiesta di aiuto, non avevano la posizione esatta del natante e nonostante gli sforzi non sono riusciti ad agganciare il caicco prima che naufragasse. Gli indignati speciali si attaccano al lasso di tempo in cui la Finanza torna in porto e chiede all’autorità marittima un intervento. Ma fosse anche uscita con tempestività, la Guardia costiera non avrebbe potuto impedire la tragedia. Dal porto di Crotone alla località Steccato sono 23 miglia marine, che con un mare forza 7 non si percorrono in un quarto d’ora. La barca dei migranti, quando venne segnalata, era a quattro miglia dalla costa, dunque le unità della Capitaneria non sarebbero mai riuscite ad arrivare prima che l’imbarcazione finisse affondata, tanto è vero che le pattuglie della Gdf, una volta allertate dai carabinieri, impiegano quasi un’ora a raggiungere la zona del naufragio. Altro che strage di Stato e nessuno ha voluto salvarli: nessuno ha lasciato morire i migranti e sfruttare la morte di uomini, donne e bambini è solo un uso strumentale e cinico di una tragedia.
Un’ultima osservazione: secondo alcuni, il naufragio non sarebbe la conseguenza delle condizioni del mare, ma di un tentativo di sottrarsi ai controlli. In prossimità della spiaggia gli scafisti, nel tentativo di cambiare rotta, avrebbero eseguito una manovra spericolata. Sarà la magistratura a stabilire se quest’ipotesi sia fondata. Di certo non lo possono dire Repubblica, La Stampa, Avvenire e Domani. Per il semplice motivo che a loro non interessa ciò che è accaduto, ma solo poter attaccare il governo dei cattivi.
Tutti gli osservatori intellettualmente onesti, meno di venti giorni fa, hanno salutato con grande favore la rilevante novità scaturita dall’ultimo Consiglio europeo. Lo abbiamo sottolineato allora e lo ribadiamo oggi: si è trattato di un oggettivo successo di Giorgia Meloni e del suo governo. Non solo un generico riconoscimento (già detto e scritto mille volte) del tema migratorio come una «questione europea», ma molto di più: e cioè l’affermazione di una specificità dei confini marittimi rispetto ai confini di terra dell’Ue. In altre parole, per la prima volta in modo così netto, si sono poste le basi per uscire dal dibattito-trappola sulla redistribuzione degli aventi diritto d’asilo (che a loro volta, come sappiamo, raramente superano il 10% di tutti quelli che arrivano): e peraltro, in quel caso, si tratta di un meccanismo di redistribuzione ostacolato dall’elemento della volontarietà da parte dei diversi Paesi. Per la prima volta, invece, è stata posta la questione nei suoi termini più opportuni: il presidio dei confini marittimi come difesa del perimetro esterno dell’Unione.
Il punto è che adesso la tragedia di Crotone non consente più di girare intorno al problema. Se l’Ue ha deciso di muoversi nel senso della difesa dei suoi confini esterni, stavolta deve farlo davvero, dando sostanza all’obiettivo politico che ha detto di voler perseguire. È immaginabile una panoplia di strumenti: intese con i Paesi da cui avvengono oggi le partenze (per ridurle quanto più possibile), stanziamento di adeguati finanziamenti per irrobustire e facilitare questi accordi, attività sistematiche di pattugliamento e interdizione marittima (sempre concordate con quei Paesi), corridoi umanitari per gli aventi diritto d’asilo, misure di contrasto contro i trafficanti di esseri umani. Ma occorre che queste ed altre azioni prendano corpo: se già ora (mentre siamo in una gelida e pericolosa coda dell’inverno) le partenze sono così numerose, è fin troppo facile immaginare cosa accadrà tra poche settimane, quando la primavera sarà in avvicinamento e le condizioni meteo e quelle del mare saranno decisamente più propizie.
Su questo giornale, da molti anni parliamo del modello australiano, caratterizzato dallo slogan autoesplicativo «fermare le navi per fermare le morti». Quel meccanismo richiede un’attività costante, peraltro affiancata da una sistematica campagna di comunicazione preventiva in funzione dissuasiva. Bruxelles - adesso - non può più tergiversare. Pena lo scaricare sull’Italia un problema insostenibile, oltre che l’alimentare un traffico illegale che è destinato a trasformare il Mediterraneo in un inferno. Né può essere accettabile che la prosecuzione dell’inerzia europea consenta agli immigrazionisti di fare sciacallaggio politico a danno dei governi, come se - in un surreale rovesciamento delle parti e della realtà - la responsabilità delle morti dovesse essere traslata dagli scafisti ai ministri degli Interni.
In questo quadro, un ulteriore eloquente elemento di riflessione è venuto dalla relazione annuale dell’intelligence italiana sulla politica dell’informazione per la sicurezza. Nella parte relativa ai rischi connessi all’emergenza immigrazione, a pagina 37, si legge testualmente: «Sebbene nel corso del 2022 l’incremento più significativo dell’attività di soccorso in mare abbia riguardato le operazioni del Dispositivo istituzionale (ad esempio Frontex, Guardia costiera, Guardia di finanza), si registra anche l’aumento del soccorso in mare effettuato dalle navi Ong, principalmente in area Sar libica». E ancora: «Le attività Sar vengono spesso pubblicizzate sui social network dai facilitatori dell’immigrazione irregolare quale garanzia di maggiore sicurezza del viaggio verso l’Europa». E fin qui tutto torna: è ovvio che scafisti e trafficanti di esseri umani valorizzino, ai propri fini, ogni attività che rappresenti un elemento di potenziale rassicurazione verso i disperati a cui vogliono sottrarre qualche migliaio di dollari. Ma attenzione alla parte successiva delle affermazioni della nostra intelligence: «In tale contesto, la presenza di navigli Sar, infatti, rappresenta un vantaggio logistico per le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico dei migranti, permettendo loro di adeguare il modus operandi in funzione della possibilità di ridurre la qualità delle imbarcazioni utilizzate, aumentando correlativamente i profitti illeciti, ma esponendo a più concreto rischio di naufragio le persone imbarcate». In altri termini, a fronte di queste altre attività navali e di potenziale soccorso, che fanno i trafficanti? Non hanno alcuno scrupolo nel massimizzare il profitto e nel ridurre le spese, anche costringendo i malcapitati a imbarcarsi in situazioni di crescente precarietà. Con le conseguenze che ciascuno può facilmente immaginare: mettere in acqua un guscio di noce carico di esseri umani, mentre le condizioni del mare sono già negative, significa far salire il livello del rischio in modo estremo. Una ragione di più, per l’Ue, per muoversi e dire basta.






