Anche se gli errori del gruppo sono evidenti, tutto il settore è vittima di una transizione a metà. Come dimostra Renault.
(IStock)
Surreale report di Eurostat che registra come la CO2 si riduca in Europa (senza apprezzabili conseguenze) ma non nel resto del pianeta. E soprattutto «scopre» che la produce il fatto di vivere. «I nuclei responsabili per il 24%». È ora di preparare le difese.
Buone notizie in arrivo per gli ambientalisti, ma cattive per i cittadini comuni che temono le ricadute delle politiche green sulla loro vita. Comincio dalla prime. Secondo l’ultimo aggiornamento Eurostat sulle emissioni di gas serra, nell’area dell’Unione europea, nonostante un aumento del Pil si è registrata una diminuzione delle esalazioni inquinanti. Nei primi tre mesi dell’anno, i Paesi che fanno parte della Ue hanno infatti prodotto 941.000 tonnellate di CO2, a fronte delle 969.000 emesse nello stesso periodo del 2022. In pratica, a fronte di una crescita del Prodotto interno lordo dell’1,2 per cento, si è avuta una contrazione delle diffusioni di gas serra del 2,9 per cento. La media a dire il vero tradisce il fatto che mentre in 15 Paesi le emissioni si sono fortemente ridotte, in sei sono aumentate. Ma ancor più interessante è la notizia che mentre il calo di CO2 si è registrato nei Paesi più industrializzati (Germania, Francia, Italia tra gli altri), l’aumento ha riguardato Irlanda, Lettonia, Slovacchia, Danimarca, Svezia e Finlandia. Insomma, i Paesi che noi giudicheremmo a naso più verdi, in realtà sono quelli che dal punto di vista delle emissioni inquinanti si sono dimostrati meno virtuosi.
E qui purtroppo vengono le cattive notizie. Perché se è vero che a fronte di un incremento del Pil non c’è stata una crescita dell’inquinamento di gas serra nell’area euro, è altrettanto vero che il resto del mondo seguita a mandare in circolo CO2 come prima e più di prima, rendendo praticamente in gran parte vano tutto lo sforzo che da anni stanno facendo Bruxelles e dintorni.
Fin qui però la faccenda potrebbe apparire scontata. Si sa infatti che Cina, India e più in generale i Paesi del Far East non si fanno molti scrupoli nell’aumentare le loro produzioni a scapito dell’ambiente. Tanto si dibatte in Europa di come ridurre le emissioni per evitare il surriscaldamento globale, tanto in Cina, in India, in Vietnam e in Cambogia si ignora il problema, occupati come sono ad aumentare il reddito pro capite della popolazione.
Tuttavia, la notizia peggiore non è questa, bensì quella che si coglie nel medesimo rapporto Eurostat sulle emissioni inquinanti in diminuzione. Gli esperti, infatti, hanno rilevato che le 941.000 tonnellate di CO2 non sono prodotte in massima parte dalle industrie, come sarebbe facile immaginare, ma dalle famiglie. Sì, case, auto e attività domestiche producono da sole il 24 per cento di inquinamento, contro appena il 20 di fabbriche e uffici.
Il dato vi sembra di poca importanza? Beh, vi sbagliate, perché conoscendo i burocrati di Bruxelles e soprattutto personaggi del calibro del commissario Frans Timmermans, il falco ambientalista che vorrebbe mettere le mutande anti emissioni perfino alle vacche ma per risolvere il problema sarebbe pronto anche ad abbattere tutti i capi di bestiame, si rischiano misure estreme a carico delle famiglie.
La conferma che a inquinare di più sono le abitazioni e le auto private porta infatti con sé una serie di conseguenze facilmente immaginabili. Se fino a ieri gli interventi per ridurre la dispersione di calore e aumentare l’efficienza ambientale degli alloggi erano solo consigliati, presto potrebbero diventare obbligatori.
A prescindere dal fatto che mentre noi europei produciamo meno CO2, la Ue potrebbe varare nuove e più stringenti misure proprio a carico delle famiglie che, come è noto, ha già da tempo messo del mirino.
Poi c’è la questione delle auto private. Bruxelles vuole che entro il 2035 si dismettano i motori a combustione per adottare i veicoli carbon free, vale a dire elettrici e anche questa per i cittadini medi è una fregatura che si unisce a quella degli alloggi rispettosi dell’ambiente.
Le auto elettriche insieme alle case green rischiano infatti di costare care al cittadino medio, il quale sarà costretto a pagare di più per avere di meno. Auto sempre più costose anche se solo per un pubblico di consumatori sempre più ridotto, appartamenti sempre più moderni, ma anche sempre più cari.
Detto in poche parole, la buona notizia del calo di emissioni di CO2 è vanificata dalla cattiva notizia che le famiglie sono le principali imputate della produzione di gas serra. Di fronte a queste osservazioni, non resta che preparare le difese.
In Olanda hanno creato il partito dei contadini, in Germania è nato un movimento di cittadini arrabbiati. Da noi, di fronte a certe follie green, si potrebbe resuscitare il partito dell’Uomo qualunque, che poi a dire il vero altro non è che l’Uomo di buon senso.
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(IStock)
Surreale report di Eurostat che registra come la CO2 si riduca in Europa (senza apprezzabili conseguenze) ma non nel resto del pianeta. E soprattutto «scopre» che la produce il fatto di vivere. «I nuclei responsabili per il 24%». È ora di preparare le difese.
È scattata quest'oggi alle 12:30 l'edizione numero 41 della storica corsa automobilistica che coinvolge 417 auto in cinque giornate e un percorso di oltre 2000 chilometri.
La prima moto BMW, la R32 del 1923 (BMW Group)
Nel 1923 la prima moto della casa bavarese, la R32. Il suo motore boxer di derivazione aeronautica nato negli anni difficili di Weimar diventerà un simbolo del motociclismo mondiale, ancora oggi sulla cresta dell'onda a 100 anni dall'esordio.
La guerra, per la Germania dell’ultimo kaiser Guglielmo II, si era conclusa drammaticamente. La sconfitta del 1918 aveva comportato la dissoluzione del Deutsches Kaiserreich (il secolare Impero germanico) e l’imposizione delle durissime clausole nate dal Trattato di Versailles. La Germania della Repubblica di Weimar era un paese in ginocchio, messa sul lastrico dalla gravissima inflazione e dal peso della riparazioni di guerra. L’industria meccanica e in particolare quella aeronautica erano paralizzate per il divieto di riarmo incluso nelle clausole della pace e di conseguenza la possibilità di produrre aeroplani.
Tra le aziende che maggiormente avevano contribuito allo sviluppo dell’aviazione militare tedesca, c’era la bavarese Bayerische Flugzeugwerke (BFW) che a partire dal 1916 aveva costruito apparecchi da caccia su licenza e motori aeronautici. Questa azienda si era associata ad un altro produttore di motori per aviazione, la Rapp Motorenwerke, abbandonata durante la guerra dal fondatore e recuperata dall’ingegnere ed ex dipendente BFW Karl Popp. Quest’ultimo perfezionerà nel 1916 la fusione con la Rapp mutando la ragione sociale in Bayerische Motoren Werke (BMW). Uno dei primi prodotti dell’azienda bavarese nel primo dopoguerra fu un piccolo motore pensato per applicazioni industriali, un bicilindrico orizzontale di 494cc con distribuzione a valvole laterali progettato dall’ingegnere Max Friz. L’applicazione motociclistica avvenne poco dopo quando il motore M2 B15 (dove 2 sta per il numero di cilindri e B per boxer) fu montato sulla Helios, una motocicletta progettata inizialmente dalla Bayerische Flugzeugwerke sulla quale era stato montato il bicilindrico ma in posizione longitudinale con i cilindri allineati all’asse del telaio, in modo analogo ad un coevo motore inglese che equipaggiava una meteora del mondo del motociclismo, la britannica ABC. Pur affidabile meccanicamente, il propulsore soffriva per la difficoltà di raffreddamento del cilindro posteriore, nascosto al flusso d’aria. Max Fritz stesso dichiarò il fallimento del progetto affermando che l’unico futuro della Helios sarebbe stato quello di essere gettata in un lago. Bastò tuttavia un’idea semplice ma vincente: cambiare la disposizione del motore rispetto al telaio, con i cilindri trasversali. Questa fu la ricetta base per il futuro successo del marchio bavarese nel campo delle due ruote, che si concretizzò nel 1923 con la prima motocicletta marchiata BMW, la R32. Dotata del boxer da 8,5 cavalli la moto sfiorava la velocità massima di 100 Km/h, un traguardo ragguardevole per l’epoca. La bicilindrica portava con sé due aspetti innovativi, che rimarranno caratteristici di tutta la produzione BMW fino agli anni Novanta: la frizione monodisco a secco e la intramontabile trasmissione cardanica. Il cambio, invece, era un più tradizionale tre marce con leva al serbatoio mentre il telaio era rigido al posteriore e ammortizzato da una balestra anteriormente. La R32 evolvette durante il decennio di Weimar in modelli che ereditarono la medesima impostazione della progenitrice fino al debutto delle R11 e R16 nel 1929, dotate di un telaio totalmente nuovo e con il motore da 750cc, una cubatura che diventerà parte fondamentale della tradizione della casa tedesca. Gli anni Trenta videro lo sviluppo di modelli sempre più innovativi, rappresentati dalla capostipite R5 da mezzo litro di cubatura, caratterizzata da una linea moderna e dal telaio tubolare reso particolarmente elastico dalla saldatura ad arco elettrico e dalle 2 valvole per cilindro, in grado di regalare alla bicilindrica una velocità di punta di 140 km/h. Alla fine del decennio la casa bavarese fu coinvolta integralmente nella produzione bellica, sia per quanto riguardava il segmento dei motori aeronautici che dei veicoli e motoveicoli. Sicuramente il modello più famoso degli anni di guerra fu la R75, dotata di sidecar con trazione sulle due ruote posteriori e cambio con riduttore di velocità per affrontare forti pendenze e i terreni accidentati delle strade di guerra sia in Europa che in Africa settentrionale.
La fine della guerra significò per BMW come per l’intero Paese l’anno zero. I bombardamenti alleati avevano polverizzato gli stabilimenti sul territorio tedesco e la produzione di motociclette si arrestò completamente. A differenza del primo dopoguerra quando le riparazioni affossarono l’economia di Weimar, il nuovo assetto mondiale fece sì che gli Alleati organizzassero una rapida ricostruzione nell’ottica della nuova situazione geopolitica all’alba della Guerra Fredda. Nel 1948 la casa di Monaco di Baviera riprese la produzione dei modelli prebellici, mentre la divisione della Germania generò anche la spartizione degli stabilimenti BMW. Nella DDR gli stabilimenti continuarono per un periodo la produzione sotto il medesimo marchio, fino a quando la casa madre in territorio della Repubblica Federale decise per un’azione legale internazionale dalla quale nacque la tedesco-democratica Eisenacher Motorenwerkes (EMW) che produsse per un periodo utilizzando un marchio del tutto simile a quello originale solamente modificato nei colori, in questo caso arancione in campo bianco.
A Monaco di Baviera gli anni Cinquanta si aprirono con la progettazione di nuovi modelli, tra cui un inedito monocilindrico da 10 Cv che iniziò la difficile ripresa della motorizzazione tedesco occidentale. Il modello di punta del decennio uscì nel 1955, la R69 con propulsore boxer da 549cc e nuovo cardano fu un successo che la rese celebre in tutta Europa, andando ad equipaggiare le forze dell’ordine tedesche. Rimarrà in produzione per quasi tutto il decennio successivo, fino al 1969.
La produzione anni Sessanta continuò all’insegna della strada tracciata dalla R69, con poche se non nulle innovazioni tecniche. Alla fine del decennio, tuttavia, la concezione della motocicletta come mezzo di locomozione primaria fu abbandonata dalla motorizzazione di massa a 4 ruote, mentre la concorrenza estera e la sempre maggiore richiesta di moto performanti spinsero la dirigenza BMW a concepire un modello completamente nuovo, marchiato dal numero seriale /5 («barra cinque») equipaggiate con il rodatissimo boxer a trasmissione cardanica e un telaio tutto nuovo, che abbandonava il trentennale tubolare. Le cilindrate della serie mantenevano le classiche cubature di 500, 600 e 750cc con l’aggiunta dell’inedito 900cc della R90S del 1973 con prestazioni pari alle concorrenti giapponesi e italiane (oltre 200 km/h). Alla fine del decennio, BMW inaugurò le fortunate serie da gran turismo carenate con cilindrata aumentata a 1.000cc (serie R100), presenti in listino anche negli anni Ottanta. Decennio, quest’ultimo, caratterizzato dalla convivenza tra il boxer simbolo della casa (utilizzato anche sulle serie da enduro protagoniste dei successi nella Parigi-Dakar come la R80G/S dotata della prima forcella monobraccio posteriore al mondo) e il 4 cilindri in linea che caratterizzò un altro best seller della casa bavarese, la serie K (da 1.000 e 750cc). Quest’ultima, prodotta in versioni carenate e non fino al decennio successivo, fu affiancata dalla serie F (un monocilidrico 650 e 800cc progettato dall’italiana Aprilia), ma l’intramontabile boxer passato da due a quattro valvole per cilindro continuò ad equipaggiare una nutrita serie di modelli, da turismo e sportivi, con cilindrate da 1.150cc, 1.200 e 1.250cc e una maxi cilindrata di 1.800cc, il «big boxer» montato sulla custom R18. A un secolo di distanza, BMW è oggi sinonimo di bicilindrico, e quanto Harley -Davidson è entrato nella leggenda del motociclismo mondiale. Una storia di un grande successo nato da un piccolo motore in quegli anni di assoluta incertezza che coincisero con gli anni di Weimar. Una vittoria nata da una grande sconfitta.
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