La pastina all’uovo agglutinata (allora la celiachia non si sapeva cosa fosse), la maglia di Maradona, il negozio nei pressi di Houston Street dove i Baci andavano a ruba. Finisce tutto; dagli scaffali italiani sparisce la pasta Buitoni, il marchio che ha dato il là all’industria alimentare nazionale e che è al tempo stesso gloria e atto d’accusa per il capitalismo più rapace che capace. Buitoni sono stati i primi spaghetti confezionati ed erano di lusso perché fino agli anni Cinquanta si compravano in drogheria avvolti nella carta-zucchero e legati con lo spago qualche etto alla volta. Se in qualche loft vedete quei bei mobili con i cassetti a vetro che fanno tanto vintage, erano gli scaffali della pasta. Fu la Fratelli Buitoni, una fabbrica di Sansepolcro - lì dove Piero della Francesca inventò la prospettiva matematica in pittura e dove c’è la Crocefissione, il più bel dipinto murale del mondo -, a produrre, si era agli albori degli anni Trenta, la prima pasta secca confezionata. Era già passato un secolo da quando Giovan Battista Buitoni e la moglie Giulia Boninsegni - ancora le donne di Sansepolcro la venerano come una santa laica e come un’antesignana delle lotte femministe - nel 1827 avevano aperto il loro «negozio con opificio di paste alimentari» in zona Pacioli, il cuore del Borgo. Su questa storia che sarà poi quella della Perugina e di una passione bruciante tra Luisa Spagnoli, che aveva inventato il Bacio ed è stata una donna e un’imprenditrice eccezionale, e Giovani Buitoni cala il sipario. La Nestlé non ha rinnovato la concessione del marchio alla Newlat e se lo tiene per sé. Aspetterà, dice, 18 mesi prima di venderlo. Ma non ci sarà più la pasta Buitoni. La multinazionale svizzera vuole produrre ancora a marchio Buitoni le pizze surgelate, i sughi pronti, ma con la tradizione c’entrano poco. Angelo Mastrolia, titolare della Newlat, ha rinunciato dopo aver pagato alla Nesltè per 13 anni di affitto del marchio oltre 20 milioni, e produrrà la pasta a proprio marchio, probabilmente Delverde, nello storico stabilimento di Sansepolcro, nell’aretino, che aveva rilevato dalla multinazionale e nel quale ha fatto investimenti per 12 milioni. «Siamo un gruppo forte», ha commentato, «andiamo da soli. Certo se Nestlé venderà il marchio, come se venderà quello Perugina, ci faremo un pensiero». Ma ciò che resta nel forno, scimmiottando un film da Oscar, è l’amaro di vedere questa storia imprenditoriale finire così. Il declino della Buitoni è di lunga pezza, ma fu sanzionato quando la comprò Carlo De Benedetti che l’ha girata alla Nestlé. Ma anche la storia della Newlat è un paradigma di cosa è successo nell’industria agroalimentare italiana. Newlat raccoglie di fatto la Eurolat costituta da Sergio Cragnotti partendo dalla Polenghi Lombardo per approfittare della svendita orchestrata da Romano Pordi e transitata attraverso il carneade Carlo Saverio Lamiranda della Cirio-Bertolli-De Rica. Cragnotti rivendette i marchi a Calisto Tanzi (scomparso una settimana fa) il patron della Parmalat e autore dello scandalo finanziario del secolo. Angelo Mastrolia ha ricomposto nelle sue mani investendo moltissimo una parte di quel puzzle che rischiava di andare disperso. Oggi controlla Delverde (pastificio che era finito agli argentini dopo il fallimento) Optimus, Giglio, Ala, Polenghi. Mastrolia ha rimesso insieme un importante polo agroalimentare e con lo stabilimento di Sansepolcro ha vinto la scommessa sui prodotti da forno (fette biscottate) e sulla pasta secca. La fabbrica è quella storica dei Buitoni, la pasta ha la qualità storica dei Buitoni, ma il marchio sarà quello aziendale di Mastrolia. «Non potevamo fare altrimenti» ha commentato l’imprenditore salernitano che ha base in Emilia. La produzione continua, ed è già tantissimo, ma la storia finisce qui.
I maniaci del senza. Niente zucchero, lattosio, glutine, Ogm... Niente cibo! Urge un piatto di buon senso
Avrete notato che da qualche manciata di anni le confezioni del cibo presentano, e in maniera crescente, una nuova caratteristica: l'indicazione di cosa, quell'alimento, «non» contiene. Senza glutine, senza zucchero, senza polifosfati, senza olio di palma, senza antibiotici (somministrati ad animali allevati), senza ogm, senza lattosio. Arriveremo al paradosso della confezione vuota con la scritta senza cibo, ma intanto ci chiediamo: tutti coloro che acquistano alimenti «senza» sono intolleranti? No. È «solo» una neomania imparentata innanzitutto con l'ortoressia (una forma di disturbo alimentare che di declina nell'estrema attenzione a regole alimentari e caratteristiche dei cibi).
L'indicazione del senza, in realtà, ha una ragione. Sacrosanta. Ossia evitare che gli intolleranti a un determinato componente alimentare e persone con prescrizione medica di dieta escludente qualcosa, inconsapevolmente, l'assumano.
La storia parte dal dolce
I primi «senza» sono stati i prodotti dolciari senza zucchero, nati per i diabetici, portatori della prima grande problematica di massa dell'alimentazione nella società del benessere. Costoro dovevano giustamente evitare lo zucchero ma, ben presto, il cibo a loro riservato è diventato abituale per chi voleva stare a dieta. Sia che ne avesse bisogno, sia che non ne avesse.
Il problema dell'acquisto di cibo per intolleranti, da parte di chi intollerante non è, è proprio questo. Un cibo senza nasce per esigenze salutari che riguardano poche persone, ma poi attrae anche chi non ha nessuna prescrizione medica di divieto (il sale per l'iperteso, lo zucchero per il diabetico, il grasso per l'ipercolesterolemico e così via) né intolleranza. Quell'attrazione è figlia di un'altra problematica dell'alimentazione nella società del benessere, cioè che il cibo sia diventato, come dice perfettamente l'antropologo Marino Niola, «pensiero dominante del nostro tempo». Una vera e propria ossessione nei confronti del cibo che ce lo fa percepire da una parte come un pericolo e dall'altra come una salvezza, portandoci a sacralizzare l'alimento o la caratteristica di assunzione «salvifici» e a demonizzare quelli «dannosi», anche se siamo sani come un pesce, potremmo mangiare di tutto e, soprattutto, dovremmo farlo per mantenerci in salute.
Tradizione addio
L'autoprescrizione e la conversione ai cibi senza sono anche figlie della messa in discussione di tutto ciò che appartiene alla tradizione, cioè che da naturale è diventato culturale: così come si contestano la procreazione eterosessuale, i confini nazionali, la dualità maschile e femminile imbarcandosi in modalità assolutamente acritica nella «procreazione» omosex, nell'internazionalismo ottuso e nel gender fluid, si crocifigge la dieta locale «normale». Anche in questo caso l'essere umano contemporaneo vuol fare il creatore, nello specifico il medico e il dietologo, di sé stesso. Che noia la pasta e lenticchie cotta nel tegame di coccio, ammollando prima i legumi almeno dodici ore perché rilascino gli antinutrienti nell'acqua invece che nel nostro stomaco, come intuitivamente sapevano nonne e bisnonne. Molto meglio una pasta di legumi che disintegra la tradizione pastaiola italiana e ci fa ingurgitare legumi semplicemente tritati, una «pasta» senza la vera pasta, quindi una non pasta, che nasce anch'essa per diabetici e celiaci ma finisce nei piatti di chiunque! «Non mangio carne», «Sono vegano», si dice al ristoratore come se si stesse affermando un'identità che invece dovrebbe essere costituita da altro e una qualche superiorità morale sullo stesso, mentre la rinuncia etica al mangiare gli animali e i loro derivati si può semplicemente agire ordinando piatti che non li contengono.
La cultura del cibo senza è nata così, e non pensiate che riguardi soltanto il latte senza lattosio, caso di cibo «senza» in quanto mondato dall'elemento che invece gli sarebbe naturale. Siamo già giunti alla follia dell'indicazione del «naturalmente senza», perché se senza è un valore aggiunto, allora va notificato anche in caso di naturale e quindi ovvia assenza. Cosa dovremmo dire, di fronte a una confezione di latte vaccino che ci informa di essere «naturalmente senza glutine», se non: «E grazie che non contiene glutine, è latte…»? Il senza esce anche dal supermercato e si insinua nella cucina: si moltiplicano, infatti, anche i ricettari senza, con la comica e involontaria assurdità di dover valutare ricette come «Crema pasticcera senza latte, senza uova, senza zucchero, senza farina»... Uno si domanda, giustamente, che pasticcera possa mai essere senza tutti e quattro i suoi unici ingredienti. I quali sono sostituiti da surrogati, come il latte vegetale, il sostituto d'uovo (come il gel di semi di lino o altri preparati già pronti), dolcificanti come la stevia che ora va per la maggiore e amidi o farine di legumi. Avrebbe più senso chiamarla «Non crema pasticcera», ma su questo non si riflette: ciò che conta è che così ridotta può soddisfare vegetariani, vegani, sensibili al glutine, modaioli vari del senza, cioè la tribù alimentare alla quale si appartiene. Dice Niola: «Ciascuna tribù alimentare si identifica nelle sue passioni e ossessioni, totem e tabù. Tofu contro carne, soia contro uova, quinoa contro grano, crudo contro cotto. Insomma, se il cibo è il pensiero dominante del nostro tempo la dieta ha smesso di essere una misura di benessere per diventare una condizione dell'essere. Come dire che se una volta eravamo noi a fare la nostra dieta adesso è la nostra dieta a fare noi».
Secondo Niola, la nostra è l'epoca dell'homo dieteticus. L'antropologo ha dedicato un bellissimo libro, proprio intitolato così, a questo neouomo ossessionato da quello che mangia e che, soprattutto, non mangia. Se guardiamo al passato, ci sono stati vari momenti durante i quali si mangiava senza. Non per scelta: per necessità.
Digiuni forzati
Si pensi ai periodi di carestia, per cause naturali o, peggio ancora, alla povertà e alla fame che vigevano durante e dopo le guerre, come le ultime due mondiali. Allora erano normali libri come L'arte di mangiar poco di Orazio Fletcher (1930) o Cucina di guerra. Cento ricette di cucina igienica senza carne di Giulia Peyretti, che insegnavano come mangiare il meglio possibile quando alcuni cibi mancavano proprio e quelli basilari si dovevano comperare alla «borsa nera».
Oggi, invece, il cibo abbonda e noi ne rifuggiamo. Non rifuggiamo in maniera sana da quell'abbondanza mangiando il necessario, ricercando il cibo prodotto naturalmente, portando con noi le ricette della tradizione, ma in maniera distorta, affiliandoci a una o più delle tante «sette» alimentari, cercando superfood che vengono da altre parti del mondo e schifando i nostri, in una specie di bulimia della novità senza fine. Sempre di Marino Niola è il bel concetto di «Med Pride», Orgoglio Mediterraneo, col consiglio di tenerci stretti la nostra dieta mediterranea, fantasticamente onnivora. Anche Attilio Speciani, allergologo e immunologo specializzato nella cura delle infiammazioni da cibo la pensa così: «Oggi sappiamo che ci sono le cosiddette infiammazioni dovute al contatto con certe sostanze, ma è sbagliato colpevolizzare il cibo fino a rinunciare a certi alimenti.
Intolleranze, ma vere
Le intolleranze scientificamente riconosciute sono solo due: al lattosio (si verifica per mancanza di lattasi, un enzima che abbiamo a livello intestinale) e al glutine (dovuta alla celiachia, malattia immunologica importante). Per quasi tutti gli altri sintomi legati al consumo di cibi parliamo di infiammazioni», ha spiegato in una recente intervista al settimanale Starbene. Il suo libro Le intolleranze alimentari non esistono. La relazione infiammatoria tra cibo e salute finalmente spiegata in modo scientifico racconta con dovizia di particolari meccanismi molto complessi.
In sostanza, l'errore che commettiamo dopo aver individuato per autodiagnosi o consulti con terapisti che non sono medici (e ce ne sono veramente tanti, in giro e con «sedi» on line, di azzeccagarbugli che pontificano a vanvera di come nutrirsi e perché, con frotte di indottrinati che ne diventano seguaci) o anche con medici, un alimento che ci infastidisce, è che lo eliminiamo.
Succede, per esempio, con la sensibilità al glutine non celiaca, nella quale rientrano tutti coloro che pur non essendo annoverati nella casistica dei celiachi perché gli esami autoimmunologici sono negativi, ne dichiarano i sintomi. L'approccio tipico è quello di nutrirsi come i celiachi, col risultato che si sta eliminando dalla nutrizione non un alimento che scatenerebbe una reazione autoimmune, non un alimento che procurerebbe una reazione allergica, ma un alimento che si potrebbe benissimo mangiare ma in dosi inferiori.
Dice Speciani: «Un conto è scansare, come facevano gli uomini primitivi, un tubero che si rivelava velenoso, un altro rinunciare alla nostra alimentazione, che è tanto più sana quanto più è onnivora. Quando si decide per un'eliminazione rigida, il risultato non sarà solo una dieta sbagliata ma anche un regime che, per compensare l'alimento soppresso, ci spingerà a consumare in eccesso un sostituto, innestando un'altra infiammazione». Speciani consiglia di eseguire il Food inflammation test per misurare i livelli di citochine infiammatorie e immunoglobuline G specifiche, che si alzano in caso di eccesso o reiterazione di cibi nella dieta.
I cibi sono suddivisi in Grandi gruppi alimentari e naturalmente il test - che si può fare in farmacia o in centri specializzati - non prevede autodiagnosi, ma diagnosi medica. L'obiettivo di una tale impostazione è riaffermare la tolleranza al cibo in opposizione all'intolleranza immaginaria o psicologica che dilagano. E riaffermare il concetto di dieta di rotazione al posto della dieta di eliminazione.
La morale dell'onnivoro
Tornando a Niola, «il segreto della vittoria dell'Homo Sapiens sulle altre specie è il suo carattere onnivoro che lo ha reso adattabile a tutti i tipi di cibo, oggi con i tabù alimentari rischiamo un tipo di regressione poco visibile ma pericolosa. Non si può immaginare in questo momento cosa possa diventare un vegano a tutti i costi ad esempio, però c'è il rischio che a lungo andare diventerà una persona disadattata, e il cibo, anziché aggregare, diventi un fattore di disintegrazione sociale e quindi di regressione». In effetti, i nostri avi potevano avere mille difetti, sì, ma non quello di rifiutare un invito a mangiare per disapprovazione «teorica» di qualsiasi questione intrinseca e collaterale concernente il cucinato.
La zuppa inglese? Non è inglese. Il pan di Spagna? Non è spagnolo. L'insalata russa? Non è russa. Questa, quello e quell'altra sono italiani docg, denominazione di origine controllata e garantita. Com'è possibile che dolci e ricette italianissimi si ritrovino con una falsa carta d'identità? Che militino sotto altre bandiere? Non ci bastava la fuga dei cervelli? Adesso ci scappano anche insalate, zuppe, biscotti, creme e, Dio non voglia, anche pizze e pastasciutte? Tranquilli. Nessuna fuga. E nessuno scippo da parte straniera. Se c'è un colpevole è la stessa gastronomia che, lungo i secoli, ha mescolato storia e geografia nel frullatore scodellando equivoci che il tempo ha consolidato, mescolando le carte come un illusionista.
Cominciamo dal pan di Spagna. Lo inventò un giovane cuoco genovese, Giovanni Battista Cabona, detto Giobatta, che era al servizio di Domenico Pallavicini, ambasciatore della Repubblica ligure alla corte di Madrid alla metà del Settecento. Fu in occasione di un banchetto reale che Giobatta, rielaborando la ricetta dei biscotti savoiardi, creò una pasta battuta con uova e farina che chiamò pan di Spagna. Il dolce, ottimo per esaltare creme, zabaioni e altri composti, leggero come una nuvola, entusiasmò el rey, Ferdinando VI di Borbone, e tutta la sua corte che con cavalleria tutta spagnola riconobbe il merito del pasticcere, ribattezzando la sua creatura Génoise. Genovese. E tale il pan di Spagna è rimasto per spagnoli e francesi: pâte génoise, pasta genovese.
Sull'origine della zuppa inglese, italianissimo dolce al cucchiaio, fatto con pan di Spagna imbevuto nell'alkermes e crema pasticcera, ci sono molte ipotesi, qualcuna leggendaria, e si accapigliano tre regioni: Emilia Romagna, Toscana e Marche. Tra gli studiosi dell'arte culinaria c'è chi attribuisce la zuppa a un diplomatico della corte estense (siamo nel 1500) che di ritorno dall'Inghilterra avrebbe rielaborato un dolce anglosassone intinto in un liquore. Altri raccontano che il dolce è stato inventato da una domestica toscana, al servizio di una famiglia inglese residente sulle colline fiorentine. Altri sostengono che era una delle specialità del Caffè Doney, locale fiorentino molto frequentato dagli inglesi che nel 1800 abitavano a Firenze e, da loro, chiamato zuppa inglese. Ad Ancona assicurano che l'aggettivo «inglese» è una metafora: essendo il pan di Spagna imbevuto di liquore, ed essendo, com'è noto, gli inglesi amanti dell'alcol, per trasferimento di significato anche questa zuppa alcolica è inglese. Mah... A codificarlo come «zuppa inglese» ci pensa, alla fine dell'Ottocento, il profeta della cucina italiana. Pellegrino Artusi, romagnolo di nascita, ma residente a Firenze, ne La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene non l'attribuisce a questa o a quella regione. Nella ricetta certosina che propone- è la 675- Artusi nomina, sì, i toscani, ma solo per rimproverarli di preparare una «crema molto sciolta» e servita nelle tazze di caffè. «Fatta in questo modo», li bacchetta, «riesce, è vero, più delicata, ma non si presta per una zuppa inglese nello stampo e non fa bellezza». Per «fare bellezza» Artusi suggerisce di porre nello stampo uno strato di savoiardi intinti nell'alkermes alternato con uno strato di crema alternato a uno strato di savoiardi intinti nel rosolio bianco alternato a un altro strato di crema e così via «fino a riempirne lo stampo». Troppo dolce? «Correggete con rhum o col cognac».
Sull'origine dell'insalata russa c'è una vera e propria insalata di ipotesi. Ma che sia nata in Italia lo riconoscerebbero gli stessi... russi. Scrive Renzo Pellati, attento storico della gastronomia e specialista in scienze dell'alimentazione, nel libro La storia di ciò che mangiamo: «L'insalata russa in Russia non esiste. Viene chiamata “insalata italiana"». I tedeschi la chiamano italianischer salat. Anche in Danimarca la chiamano «insalata all'italiana». E allora, da dove salta fuori il russo? Qui la storia del piatto si complica assai.
Secondo alcuni l'avrebbe introdotto in Francia, nel 1500, Caterina de' Medici (sempre lei!) andata in sposa a Enrico di Valois, futuro re di Francia. Diffusasi in Francia, l'insalata (non ancora russa) seguì le armate napoleoniche nell'invasione della terra degli zar dove un certo Lucien Olivier l'avrebbe fatta conoscere. Altri ricercatori dicono che non fu così. In Russia l'insalata sarebbe arrivata dalla Polonia, dove l'avrebbe introdotta Bona Sforza, andata sposa a re Sigismondo. Altri sostengono l'origine piemontese: il solito cuoco di corte, questa volta al servizio dei Savoia, avrebbe preparato tale insalata in occasione di una visita dello zar a Torino con verdure comuni in Russia: carote, patate, barbabietole. Il sovrano, molto colpito, tornò in patria portandosi dietro la ricetta. La maionese sarà aggiunta in un secondo tempo, dopo la diffusione dell'insalata. Qui ci fermiamo, anche se ci sono altre teorie (una riguarda il servizio di portata detto «alla russa»). Scegliete quella che preferite. Una cosa è certa: l'insalata russa, come la conosciamo noi, è italiana.
Un altro piatto con il nome ingannevole è la parmigiana. Il ghiottissimo piatto a base di melanzane fritte, gratinate in forno con vari formaggi- soprattutto parmigiano, ma anche pecorino, scamorza, caciocavallo- e successiva aggiunta di passata di pomodoro, aglio e basilico, si chiama parmigiana, ma non è di Parma. È meridionale. Ne contendono la nascita Sicilia e Campania. Chi delle due regioni ha ragione? Per non inimicarsi l'una o l'altra il ministero delle politiche Agricole, alimentari e forestali ha inserito la parmigiana di melanzane, verdura introdotta nel meridione dagli arabi all'inizio del medioevo, nel registro dei prodotti agroalimentari tradizionali (Pat) di entrambe. Anzi, per prevenire eventuali contestazioni da parte della Calabria, ha registrato la parmigiana anche nei suoi Pat. A guardare bene, si scopre una parmigiana anche nei prodotti della gastronomia pugliese: la parmigiana de Santu Ronzu.
Ma perché questo piatto si chiama «parmigiana» e non «siciliana» o «campana» o altro? Forse perché tra i vari ingredienti che entrano in scena recita il Vittorio Gassman dei formaggi, il mattatore dei caci a pasta dura: il parmigiano reggiano? Forse è così, anche se in Sicilia sottolineano che nell'isola la parmigiana di melanzane la preparavano con il pecorino siciliano prima ancora che si diffondesse, in tempi recenti, il formaggio emiliano. A Napoli tirano l'acqua al loro mulino citando due cuochi vissuti a cavallo tra il Settecento e l'Ottocento, Vincenzo Corrado e Ippolito Cavalcanti, autori di altrettanti testi sulla cucina napoletana, che suggeriscono ricette nelle quali consigliano l'abbondante uso del parmigiano tra strato e strato di «zucche lunghe», il primo, e tra strato e strato di melanzane, il secondo.
C'è un aspetto, però, ci porta sulla via Emilia, in direzione di Parma. Il vocabolario Treccani - ma molti altri testi sottolineano la stessa cosa - recita: «Nel linguaggio gastronomico pietanza preparata al modo dei parmigiani e consistente in una preparazione di verdure affettate, infarinate, talvolta passate nell'uovo e fritte, quindi disposte in tegame a strati e condite con sugo di pomodoro, abbondante formaggio parmigiano e talvolta mozzarella e infine cotte in forno: parmigiana di melanzane, di zucchine, di cardi...».





