2019-04-15
I maniaci del senza. Niente zucchero, lattosio, glutine, Ogm... Niente cibo! Urge un piatto di buon senso
Nell'epoca dell'homo dieteticus, in troppi sono ossessionati da ciò che mangiano e, soprattutto, non mangiano. Si illudono sia più sano, sempre e comunque Si arriva a sacralizzare o demonizzare gli alimenti in base all'impatto che si crede avrebbero sull'organismo. Il nostro corpo si merita davvero più equilibrio: recuperiamolo cosìAvrete notato che da qualche manciata di anni le confezioni del cibo presentano, e in maniera crescente, una nuova caratteristica: l'indicazione di cosa, quell'alimento, «non» contiene. Senza glutine, senza zucchero, senza polifosfati, senza olio di palma, senza antibiotici (somministrati ad animali allevati), senza ogm, senza lattosio. Arriveremo al paradosso della confezione vuota con la scritta senza cibo, ma intanto ci chiediamo: tutti coloro che acquistano alimenti «senza» sono intolleranti? No. È «solo» una neomania imparentata innanzitutto con l'ortoressia (una forma di disturbo alimentare che di declina nell'estrema attenzione a regole alimentari e caratteristiche dei cibi).L'indicazione del senza, in realtà, ha una ragione. Sacrosanta. Ossia evitare che gli intolleranti a un determinato componente alimentare e persone con prescrizione medica di dieta escludente qualcosa, inconsapevolmente, l'assumano. La storia parte dal dolce I primi «senza» sono stati i prodotti dolciari senza zucchero, nati per i diabetici, portatori della prima grande problematica di massa dell'alimentazione nella società del benessere. Costoro dovevano giustamente evitare lo zucchero ma, ben presto, il cibo a loro riservato è diventato abituale per chi voleva stare a dieta. Sia che ne avesse bisogno, sia che non ne avesse.Il problema dell'acquisto di cibo per intolleranti, da parte di chi intollerante non è, è proprio questo. Un cibo senza nasce per esigenze salutari che riguardano poche persone, ma poi attrae anche chi non ha nessuna prescrizione medica di divieto (il sale per l'iperteso, lo zucchero per il diabetico, il grasso per l'ipercolesterolemico e così via) né intolleranza. Quell'attrazione è figlia di un'altra problematica dell'alimentazione nella società del benessere, cioè che il cibo sia diventato, come dice perfettamente l'antropologo Marino Niola, «pensiero dominante del nostro tempo». Una vera e propria ossessione nei confronti del cibo che ce lo fa percepire da una parte come un pericolo e dall'altra come una salvezza, portandoci a sacralizzare l'alimento o la caratteristica di assunzione «salvifici» e a demonizzare quelli «dannosi», anche se siamo sani come un pesce, potremmo mangiare di tutto e, soprattutto, dovremmo farlo per mantenerci in salute.Tradizione addioL'autoprescrizione e la conversione ai cibi senza sono anche figlie della messa in discussione di tutto ciò che appartiene alla tradizione, cioè che da naturale è diventato culturale: così come si contestano la procreazione eterosessuale, i confini nazionali, la dualità maschile e femminile imbarcandosi in modalità assolutamente acritica nella «procreazione» omosex, nell'internazionalismo ottuso e nel gender fluid, si crocifigge la dieta locale «normale». Anche in questo caso l'essere umano contemporaneo vuol fare il creatore, nello specifico il medico e il dietologo, di sé stesso. Che noia la pasta e lenticchie cotta nel tegame di coccio, ammollando prima i legumi almeno dodici ore perché rilascino gli antinutrienti nell'acqua invece che nel nostro stomaco, come intuitivamente sapevano nonne e bisnonne. Molto meglio una pasta di legumi che disintegra la tradizione pastaiola italiana e ci fa ingurgitare legumi semplicemente tritati, una «pasta» senza la vera pasta, quindi una non pasta, che nasce anch'essa per diabetici e celiaci ma finisce nei piatti di chiunque! «Non mangio carne», «Sono vegano», si dice al ristoratore come se si stesse affermando un'identità che invece dovrebbe essere costituita da altro e una qualche superiorità morale sullo stesso, mentre la rinuncia etica al mangiare gli animali e i loro derivati si può semplicemente agire ordinando piatti che non li contengono.La cultura del cibo senza è nata così, e non pensiate che riguardi soltanto il latte senza lattosio, caso di cibo «senza» in quanto mondato dall'elemento che invece gli sarebbe naturale. Siamo già giunti alla follia dell'indicazione del «naturalmente senza», perché se senza è un valore aggiunto, allora va notificato anche in caso di naturale e quindi ovvia assenza. Cosa dovremmo dire, di fronte a una confezione di latte vaccino che ci informa di essere «naturalmente senza glutine», se non: «E grazie che non contiene glutine, è latte…»? Il senza esce anche dal supermercato e si insinua nella cucina: si moltiplicano, infatti, anche i ricettari senza, con la comica e involontaria assurdità di dover valutare ricette come «Crema pasticcera senza latte, senza uova, senza zucchero, senza farina»... Uno si domanda, giustamente, che pasticcera possa mai essere senza tutti e quattro i suoi unici ingredienti. I quali sono sostituiti da surrogati, come il latte vegetale, il sostituto d'uovo (come il gel di semi di lino o altri preparati già pronti), dolcificanti come la stevia che ora va per la maggiore e amidi o farine di legumi. Avrebbe più senso chiamarla «Non crema pasticcera», ma su questo non si riflette: ciò che conta è che così ridotta può soddisfare vegetariani, vegani, sensibili al glutine, modaioli vari del senza, cioè la tribù alimentare alla quale si appartiene. Dice Niola: «Ciascuna tribù alimentare si identifica nelle sue passioni e ossessioni, totem e tabù. Tofu contro carne, soia contro uova, quinoa contro grano, crudo contro cotto. Insomma, se il cibo è il pensiero dominante del nostro tempo la dieta ha smesso di essere una misura di benessere per diventare una condizione dell'essere. Come dire che se una volta eravamo noi a fare la nostra dieta adesso è la nostra dieta a fare noi». Secondo Niola, la nostra è l'epoca dell'homo dieteticus. L'antropologo ha dedicato un bellissimo libro, proprio intitolato così, a questo neouomo ossessionato da quello che mangia e che, soprattutto, non mangia. Se guardiamo al passato, ci sono stati vari momenti durante i quali si mangiava senza. Non per scelta: per necessità. Digiuni forzatiSi pensi ai periodi di carestia, per cause naturali o, peggio ancora, alla povertà e alla fame che vigevano durante e dopo le guerre, come le ultime due mondiali. Allora erano normali libri come L'arte di mangiar poco di Orazio Fletcher (1930) o Cucina di guerra. Cento ricette di cucina igienica senza carne di Giulia Peyretti, che insegnavano come mangiare il meglio possibile quando alcuni cibi mancavano proprio e quelli basilari si dovevano comperare alla «borsa nera». Oggi, invece, il cibo abbonda e noi ne rifuggiamo. Non rifuggiamo in maniera sana da quell'abbondanza mangiando il necessario, ricercando il cibo prodotto naturalmente, portando con noi le ricette della tradizione, ma in maniera distorta, affiliandoci a una o più delle tante «sette» alimentari, cercando superfood che vengono da altre parti del mondo e schifando i nostri, in una specie di bulimia della novità senza fine. Sempre di Marino Niola è il bel concetto di «Med Pride», Orgoglio Mediterraneo, col consiglio di tenerci stretti la nostra dieta mediterranea, fantasticamente onnivora. Anche Attilio Speciani, allergologo e immunologo specializzato nella cura delle infiammazioni da cibo la pensa così: «Oggi sappiamo che ci sono le cosiddette infiammazioni dovute al contatto con certe sostanze, ma è sbagliato colpevolizzare il cibo fino a rinunciare a certi alimenti.Intolleranze, ma vere Le intolleranze scientificamente riconosciute sono solo due: al lattosio (si verifica per mancanza di lattasi, un enzima che abbiamo a livello intestinale) e al glutine (dovuta alla celiachia, malattia immunologica importante). Per quasi tutti gli altri sintomi legati al consumo di cibi parliamo di infiammazioni», ha spiegato in una recente intervista al settimanale Starbene. Il suo libro Le intolleranze alimentari non esistono. La relazione infiammatoria tra cibo e salute finalmente spiegata in modo scientifico racconta con dovizia di particolari meccanismi molto complessi. In sostanza, l'errore che commettiamo dopo aver individuato per autodiagnosi o consulti con terapisti che non sono medici (e ce ne sono veramente tanti, in giro e con «sedi» on line, di azzeccagarbugli che pontificano a vanvera di come nutrirsi e perché, con frotte di indottrinati che ne diventano seguaci) o anche con medici, un alimento che ci infastidisce, è che lo eliminiamo. Succede, per esempio, con la sensibilità al glutine non celiaca, nella quale rientrano tutti coloro che pur non essendo annoverati nella casistica dei celiachi perché gli esami autoimmunologici sono negativi, ne dichiarano i sintomi. L'approccio tipico è quello di nutrirsi come i celiachi, col risultato che si sta eliminando dalla nutrizione non un alimento che scatenerebbe una reazione autoimmune, non un alimento che procurerebbe una reazione allergica, ma un alimento che si potrebbe benissimo mangiare ma in dosi inferiori. Dice Speciani: «Un conto è scansare, come facevano gli uomini primitivi, un tubero che si rivelava velenoso, un altro rinunciare alla nostra alimentazione, che è tanto più sana quanto più è onnivora. Quando si decide per un'eliminazione rigida, il risultato non sarà solo una dieta sbagliata ma anche un regime che, per compensare l'alimento soppresso, ci spingerà a consumare in eccesso un sostituto, innestando un'altra infiammazione». Speciani consiglia di eseguire il Food inflammation test per misurare i livelli di citochine infiammatorie e immunoglobuline G specifiche, che si alzano in caso di eccesso o reiterazione di cibi nella dieta. I cibi sono suddivisi in Grandi gruppi alimentari e naturalmente il test - che si può fare in farmacia o in centri specializzati - non prevede autodiagnosi, ma diagnosi medica. L'obiettivo di una tale impostazione è riaffermare la tolleranza al cibo in opposizione all'intolleranza immaginaria o psicologica che dilagano. E riaffermare il concetto di dieta di rotazione al posto della dieta di eliminazione. La morale dell'onnivoroTornando a Niola, «il segreto della vittoria dell'Homo Sapiens sulle altre specie è il suo carattere onnivoro che lo ha reso adattabile a tutti i tipi di cibo, oggi con i tabù alimentari rischiamo un tipo di regressione poco visibile ma pericolosa. Non si può immaginare in questo momento cosa possa diventare un vegano a tutti i costi ad esempio, però c'è il rischio che a lungo andare diventerà una persona disadattata, e il cibo, anziché aggregare, diventi un fattore di disintegrazione sociale e quindi di regressione». In effetti, i nostri avi potevano avere mille difetti, sì, ma non quello di rifiutare un invito a mangiare per disapprovazione «teorica» di qualsiasi questione intrinseca e collaterale concernente il cucinato.