Nel 2017, usando uno pseudonimo, riuscì a farsi pubblicare da una prestigiosa rivista di filosofia un articolo parodia del femminismo sul «pene concettuale». Volutamente riempito di nonsense. Peter Boghossian dimostrò così che l’accademia statunitense trangugiava qualsiasi sciocchezza, purché fosse impacchettata con un linguaggio iniziatico post-strutturalista e veicolasse l’ideologia à la page. Filosofo, professore universitario, divulgatore, sostenitore del dialogo socratico: lo studioso americano è rimasto profondamente turbato dall’omicidio di Charlie Kirk.
Che opinione aveva di lui?
«Era un devoto sostenitore del free speech e un campione della discussione aperta. Agiva in coerenza con quello che diceva e si confrontava di frequente con le persone che si trovavano in disaccordo con le sue idee. Ha creato Turning point Usa per reagire alla monocultura dell’ideologia progressista nei campus e ha spronato gli studenti a mettere in questione le narrative dominanti e a impegnarsi in discussioni difficili».
Diffondeva odio?
«Gli ideologi che lo hanno etichettato come un “odiatore” o un “demagogo” lo hanno fatto per cercare di troncare ogni discussione, anziché entrare nel merito dei suoi argomenti. Hanno trasformato in una virtù la pigrizia intellettuale, il non dover compiere la fatica di comprendere e controbattere alle sue tesi. Perciò, si sono accovacciati nelle loro camere d’eco e sono diventati più fragili che mai nella loro certezza ideologica. Charlie ha offerto loro un’opportunità di mettere alla prova le loro idee in presa diretta. Non sono stati all’altezza della sfida. Hanno fallito».
Entrambi portavate avanti lo stesso sforzo: ricostruire la tradizione del confronto aperto nelle università, contrastando la «chiusura della mente americana», tanto per citare il titolo di un famoso saggio di Alan Bloom.
«Concordo in pieno. The closing of the american mind di Bloom colse il problema: le università sono passate dal cercare la verità attraverso un’indagine rigorosa all’imporre il conformismo ideologico».
Parla per esperienza?
«In quanto ex educatore di un’università che non nominerò (la nominiamo noi: è la Portland State University, ndr), mi dimisi nel 2021 perché quell’istituzione era diventata apertamente ostile alla discussione aperta. L’amministrazione e il corpo docente erano interessati esclusivamente a imporre l’ortodossia morale e la polizia del pensiero, in opposizione all’esplorazione delle idee. Tutto ciò ha provocato una specie di danno cognitivo e sociale agli studenti».
Anche Kirk ne era colpito.
«Charlie, attraverso discussioni e dibattiti aperti con professori, amministratori e studenti era in prima linea in una battaglia molto simile alla mia. Organizzava eventi per portare le voci del conservatorismo nelle camere d’eco e sfidare gli “spazi sicuri” che soffocano il dibattito. I nostri approcci erano diversi: il mio era un po’ più accademico, dava enfasi alle domande socratiche e all’epistemologia di strada per aiutare le persone a mettere sotto esame le loro convinzioni; il suo era conservatore in senso lato, dato che radunava i giovani contro quello che, correttamente, egli identificava come l’indottrinamento di sinistra. Una cosa tanto più importante in un’era in cui esprimersi liberamente ed essere in disaccordo viene equiparato al perpetrare violenze o al fare del male. La sua morte non fa altro che rimarcare quanto sia impellente che proseguiamo in questo sforzo».
L’omicidio ha qualche nesso con il fatto che Kirk sostenesse il diritto di possedere armi?
«No».
A sinistra, alcuni insinuano che, essendo un esponente Maga che diffondeva odio, Kirk se la sia cercata. Piergiorgio Odifreddi ha detto che sparare a un trumpiano o a un Martin Luther King non è la stessa cosa.
«È una giustificazione mostruosa. Rivela il marciume morale nel modo in cui alcuni, a sinistra - e sì, a farlo sono sproporzionatamente quelli di sinistra! - vedono i loro avversari politici. Il commento di Odifreddi, poco dopo la morte di Charlie, in sostanza afferma che assassinare un esponente Maga come Kirk non è paragonabile a uccidere un’icona dei diritti civili come Martin Luther King, in virtù delle loro differenti ideologie…».
Ma perché i progressisti sembrano giustificare così la violenza?
«Ciò deriva da un’ideologia che reinterpreta il disaccordo come “danno” o “violenza”. Nei circoli progressisti e nel mondo accademico, ovviamente, ho avuto modo di constatarlo di persona: se credi che le parole di qualcuno causino disagio emotivo ai gruppi marginalizzati, allora zittirlo o persino eliminarlo diventa moralmente tollerabile in quanto “autodifesa”».
Autodifesa?
«È una macabra perversione dell’empatia trasformata in bias di posizione (anteporre qualcosa per trasformarlo nell’opzione di default, ndr) e in autoritarismo. Non tutti quelli di sinistra la pensano così, certo, ma il disordine morale di quelli che lo fanno è amplificato dai social media e viene legittimato dalle nostre istituzioni accademiche».
Scusi, ma è un quadro abbastanza desolante…
«Abbiamo disperatamente bisogno di insegnare alle persone a separare le idee dagli individui e a criticare le diverse conclusioni senza deumanizzare chi le afferma. Celebrare un omicidio non è progresso. È rozzo tribalismo - e dovrebbe disgustare tutta la gente per bene».
Uno studio dello Skeptic research center team ha dimostrato che i liberal americani, specie quelli della Gen Z, sono i più inclini a porre fine a un’amicizia o a un rapporto familiare per via di disaccordi ideologici.
«Lo studio ha scoperto che circa un americano su cinque taglierebbe i ponti per motivi politici, ma i liberal (anche se questo termine è carico di fraintendimenti), in particolare quelli della Gen Z e i millennial, hanno molta più probabilità di farlo rispetto ai conservatori o ai moderati. Tra i liberal sotto i 45 anni, il 74% crede che sia giusto interrompere un’amicizia per motivi politici».
E come lo spiega?
«Una spiegazione valida la offre la psicologia morale: il progressismo ha moralizzato sempre di più la politica, trasformando questioni quali il cambiamento climatico, l’identità o le diseguaglianze in beni assoluti, il dissenso sui quali viene visto come malvagio. Ciò crea una spirale della purezza: amici o familiari che non sono d’accordo non sono semplicemente in errore; sono complici del male e persino di minacce esistenziali. Aggiungeteci il ruolo dei social nell’alimentare le bolle ideologiche e otterrete relazioni fragili».
Di nuovo: è desolante.
«Spezza il cuore. Le relazioni dovrebbero resistere a sufficienza ai disaccordi. È uno dei motivi per cui sostengo l’epistemologia di strada: porre domande per comprendere come mai la gente crede ciò in cui crede, senza giudicare, può aiutare a ricomporre queste divisioni».
Però è bizzarro che i conservatori, dopo anni di campagne contro il woke e la censura, invochino l’epurazione di quelli che hanno espresso commenti, ancorché orribili, sull’omicidio Kirk. Vede il rischio di una tirannia al contrario?
«Sì».
Come se ne esce? Puniamo anche parole e pensieri o solo le azioni?
«Una società libera deve punire solo le azioni, non le parole o i pensieri. Punto. I pensieri sono privati e inviolabili; le parole, financo quelle di odio, dovrebbero essere contrastate con altre parole, non con la coercizione. Punire le parole congela la ricerca e trasforma i governi in una psicopolizia. Chi ha prestato attenzione ha visto come le leggi sul discorso d’odio, i codici dei campus, il politically correct e le leggi sulla blasfemia soffochino il dibattito. Non eliminano le idee, buone o cattive che siano; le rendono sotterranee. Mettono fuori uso il metodo per correggere gli errori e così consentono alle cattive idee di prosperare. Azioni come la violenza o la truffa vanno certamente punite. Ma proteggere il diritto di esprimersi è il fondamento della libertà. Senza di esso, non potremmo cercare la verità o rendere il potere responsabile di ciò che compie».
Pensa ci sia la possibilità di superare la pericolosa polarizzazione delle società occidentali?
«Assolutamente. Ma ciò richiede l’impegno deliberato di tutti noi. La polarizzazione fiorisce sul senso di certezza e nelle camere d’eco; appassisce se ci sono curiosità e dialogo. Strumenti tipo l’epistemologia di strada (il metodo di porre domande non aggressive per aiutare le persone a riflettere sulle loro convinzioni) possono aiutare a umanizzare gli avversari e a portare alla luce un terreno comune. Abbiamo visto barlumi di speranza: dialoghi tra esponenti di diverse ideologie nei podcast e persino alcune riflessioni successive alla tragedia della morte di Charlie».
Come ci si arriverà?
«La chiave è riformare il sistema educativo. Le nostre accademie promuovono una follia tossica e divisiva e, per questo, vanno immediatamente private dei fondi. Sì, i docenti devono essere liberi di scrivere e pubblicare le idee che ritengono, non importa quanto folli. Ma questo non significa che il contribuente debba finanziarli».
E il Web?
«Gli algoritmi dei social media devono essere sistemati, in modo tale che premino le sfumature anziché l’indignazione. Gli uomini si adattano. Se ci impegniamo a trattarci reciprocamente da esseri umani anziché da nemici, possiamo ridurre quell’indignazione. Ho dedicato la mia vita a questo perché so che è possibile. La ragione libera. È un modo per farsi strada in mezzo al rumore e comprendere da sé cosa è vero e cosa è falso. Ed è il modo per vivere una vita migliore. La polarizzazione si supera un dialogo alla volta».