Il destino dei 5 Stelle è segnato e porta a un'inevitabile integrazione con il Pd, di cui probabilmente diventerà una costola. Se fino a ieri, infatti, c'erano dubbi sulla evoluzione del Movimento, ora si possono mettere da parte. Perché, dopo aver più volte sostenuto di avere una linea politica antitetica a quella dem, i grillini con il Pd non solo hanno fatto un governo, ma ora si preparano ad andare a braccetto con il partito di Bibbiano pure alle prossime regionali.
A dare il via libera all'operazione è stato lo stesso Luigi Di Maio, un signore la cui carriera politica è appesa a un filo, cioè alla sopravvivenza di questa legislatura. Il capo politico pentastellato, in una lettera al quotidiano La Nazione, ha aperto ieri la porta a un'intesa con il Pd fino a prima respinta. Lo ha fatto ricorrendo a un escamotage linguistico, che se da una parte esclude un patto con Nicola Zingaretti, dall'altra nei fatti lo propone. Si tratterebbe in pratica di candidare un esponente terzo, uno dei cosiddetti uomini della società civile, cioè un signore non immediatamente riconducibile né al Movimento né al Pd. Una volta trovata la testa di legno da mettere capolista per imbrogliare gli elettori, il resto verrebbe facile e di conseguenza, perché ogni partito con il proprio simbolo, dunque sia i 5 stelle che i piddini, sosterrebbe il prescelto.
L'operazione, per i grillini e per i democratici, presenterebbe numerosi vantaggi, a cominciare dalla possibilità di ridurre i rischi di una sconfitta. Già, perché le prossime elezioni regionali sono un banco di prova piuttosto complicato per la maggioranza che sostiene il Conte due. Se si presentassero separati al voto, sia il Movimento che il Pd, rischierebbero una batosta. I primi perché alle elezioni amministrative sono quasi sempre andati male e, con molta facilità, lo sarebbero anche questa volta, visto che rispetto alle elezioni nazionali del 4 marzo dello scorso anno oggi sono dati in calo, cioè attorno al venti per cento. Ai secondi potrebbe anche andare peggio, in quanto il voto riguarderebbe le regioni da sempre governate dai compagni, ossia Umbria, Toscana e Emilia e Romagna. Perdere nei feudi rossi equivarrebbe a una catastrofe, a cui difficilmente Nicola Zingaretti e il governo dell'inciucio potrebbero sopravvivere. Basti ricordare che nel 2000, il primo comunista che riuscì a conquistare con un altro ribaltone Palazzo Chigi, cioè Massimo D'Alema, fu costretto a fare le valigie dopo aver perso le elezioni regionali. E all'epoca non era in gioco il cuore rosso dell'impero, ma la Puglia, il Lazio e la Calabria. E visto che là dove da sempre governa la sinistra, alle ultime amministrative diverse città sono cadute in mano al centrodestra, nel Pd è suonato l'allarme ed è venuta l'idea di replicare il modello dell'ammucchiata già sperimentato con il governo.
Fino a ieri, fra i 5 Stelle c'era chi si dimostrava contrario, preoccupato di mischiarsi troppo con i compagni fino a sembrarne una corrente. Ma con la lettera al quotidiano toscano, Di Maio ha tagliato la testa al toro, dichiarandosi pronto all'inciucio, anche se mascherato da scelta civica. Nella sostanza, pur di non vedere saltare il banco, cioè il Conte due, il capo pentastellato è pronto a fare da stampella a un sistema che da settant'anni malgoverna quelle regioni. Basti ricordare che la prima scadenza elettorale è quella umbra, dove la governatrice e la giunta sono state costrette alle dimissioni dallo scandalo della sanità. Sapendo di rischiare il controllo della regione, Zingaretti aveva provato a puntellare Catiuscia Marini, la presidentessa finita nella bufera, ma poi era stato costretto ad alzare bandiera bianca, accettando che a decidere fossero gli elettori. Ora però, per il segretario del Pd c'è un'occasione insperata di salvare il feudo rosso ed è offerta dallo stesso Di Maio, che propone di sommare i voti dei 5 Stelle a quelli del Pd, proprio come piace a Dario Franceschini, il democristiano che ha ispirato anche l'alleanza per il Conte due.
Insomma, nati gridando un grande vaffa... al sistema, in particolare a quello democristiano e comunista che ha dominato prima e seconda repubblica usando le leve di Palazzo Chigi e del Quirinale, oggi i 5 Stelle si riscoprono custodi di quello stesso sistema. Dovevano aprire la scatola di tonno e oggi di quella stessa scatola sono i più tenaci e strenui difensori. Da movimento del cambiamento a movimento della conservazione. Da incendiari a pompieri.
Di questo passo pare evidente quale sarà la prossima mossa. Da stampella del Pd che oggi sono, diventeranno una delle gambe del tavolo su cui si reggerà il partito di Zingaretti. Anzi, più precisamente ne diventeranno una costola. Ci saranno la corrente del segretario, quelle di Renzi e di Orlando e infine l'area che fa capo a Di Maio. Chissà però se, una volta entrati a far parte del sistema, la scelta del prossimo presidente della Repubblica la farà ancora la piattaforma Rousseau. Forse no: forse Rousseau sarà mandato in pensione. In attesa del vitalizio.
«I nuovi patrioti all'amatriciana. La loro inconfondibile sobrietà fa rima con credibilità». Il titano del pensiero occidentale, titolare del post su Twitter con il quale stigmatizzava qualche giorno fa il cappello tricolore di Daniela Santanchè dopo aver gettato napalm su chi criticò l'abito di Teresa Bellanova, è Alessia Morani, fino a ieri tuttologa amatoriale del Pd e da domani sottosegretario all'Economia. Cercata e trovata con il lanternino fra le seconde file del renzismo da social, la signora maceratese col caschetto (43 anni) rappresenta l'ultima moda dei Competenti d'assalto. Sarebbe stata perfetta all'Istruzione: qualche tempo fa fece ridere mezza Italia sostenendo che «il tricolore è nato con la lotta antifascista». È laureata in giurisprudenza ma alle medie, mentre spiegavano il Risorgimento, doveva aver contratto la varicella.
Frequentatrice compulsiva di Facebook e Twitter, è il profilo di punta delle nomine di Giuseppe Conte per il suo «nuovo umanesimo italiano» e può degnamente rappresentare le altre 14 donne scelte come viceministre o sottosegretarie. A difesa di tutte si può aggiungere che le decantate quote rosa sono state una volta di più calpestate e ridotte ad argomento da social o da apericena di fine estate a Capalbio. A conferma di un indirizzo politico preciso, i nominati del Sud prevalgono largamente sul Nord. Ma conta la qualità, e amazzoni come Morani, Laura Castelli (viceministro all'Economia dopo aver vinto il derby grillino con Stefano Buffagni), Anna Ascani (viceministro all'Istruzione in quota Luca Lotti) e Simona Malpezzi (sottosegretaria renziana ai Rapporti col Parlamento) sono da considerare fuoriclasse mediatiche.
Hanno criticato per un anno Matteo Salvini, ma non perdono un talk show e - quando si sdraiano sul divano per un quarto d'ora di meritato riposo - si distinguono per l'attività del pollice sui tasti dello smartphone. Lady Morani è la Cristiano Ronaldo della compagnia, praticamente inarrivabile sia per quantità di tweet che per qualità di gaffe. Molte storicamente indirizzate contro il Movimento 5 stelle, che ha aumentato la sua tolleranza gastrica dandole il via libera.
La scelta del ministero dell'Economia è perfetta per applicare la teoria dell'ipoteca felice. Ospite di Quinta colonna di Paolo Del Debbio, un giorno Morani risolse così le angosce di una pensionata che non riusciva ad arrivare a fine mese con un assegno di 650 euro: «Esiste uno strumento che conosciamo poco, pensato proprio per gli anziani proprietari di casa che percepiscono pensioni troppo basse. Si chiama prestito vitalizio ipotecario e consente agli anziani di rimanere a vivere nella loro casa». Praticamente stava consigliando ai pensionati di impegnare l'abitazione per ovviare alle carenze dello stato sociale. Fu zittita da Giorgia Meloni: «Volete regalare le case degli italiani alle banche». La nomina di Anna Ascani (31 anni, Città di Castello) è sorprendente per due motivi: è anch'essa fervente renziana in quota Lotti - i capi sono assenti ma gli ascari dilagano - ed è già stata protagonista dei disastri della Buona Scuola, aspramente criticata dai grillini che se la ritrovano allegramente al loro fianco. Nota per aver lanciato quella riforma nel 2015 con un imbarazzante errore su Twitter (scrisse #labuonasola, nel senso di bidone), ha trascorso il mese di agosto a rigettare ogni alleanza con il M5s. Lo aveva anche giurato sui social: «L'accordo se lo facciano senza di me». È solo viceministro. Ruolo per il quale una settimana fa ha spettinato il premier. La newsletter ufficiale di presentazione di un suo intervento a Londra recitava: «Anna Ascani, vicepresidente del Pd e viceministro all'Istruzione», quando le nomine erano ancora in gestazione. Si era autoincoronata prima del tempo. Per uscire dall'imbarazzo ha precisato che «l'errore è da attribuirsi agli organizzatori, influenzati dalle notizie divulgate dalla stampa in questi giorni».
Laura Castelli, un imperioso ritorno come viceministro dell'Economia e delle Finanze. Solo ad ascoltare il suo nome gli italiani hanno tirato un sospiro di sollievo che fa garrire le bandiere da Vipiteno a Lampedusa.
Senza la pasionaria grillina torinese (33 anni) il crac dei conti pubblici sarebbe stato inevitabile. Nel primo governo Conte si era infatti distinta per aver teorizzato in televisione che «i tassi dei mutui non dipendono dallo spread». E al direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, che le chiedeva a Otto e mezzo dove si stessero stampando le tessere del reddito di cittadinanza rispose: «Quando pubblicheremo il progetto completo e avrete il testo, vi daremo anche tutti i dettagli». Il Poligrafico dello Stato non è una tipografia segreta. Il Game of Polthrones continua e arriva a sintesi con Simona Malpezzi (milanese del Pd, 47 anni) che ha due tratti in comune con la Ascani: un debole per il Giglio magico ed è invisa a molti insegnanti per i pasticci della Buona Scuola. Chiamata da Renzi a dirigere il Dipartimento Scuola del partito, espresse la sua incontenibile felicità con un post farcito di sgrammaticature e ripetizioni. Turbata dalle critiche dei docenti, si rifugiò accusando i giornali che l'avevano presa in castagna, con la replica: «Costruiteli meglio i fake». Ma l'orario di pubblicazione la tradì. Anch'essa travolta dalla notorietà televisiva, un giorno disse che «i vitalizi sono nati con un significato diverso come fu stabilito dai nostri padri costituzionali».
Sarebbe costituenti, ma di fronte al nuovo umanesimo in arrivo cosa volete che sia.
«Un ignobile mercato delle vacche». Sono le 13 di ieri, quando un parlamentare del M5s manda questa risposta via sms al cronista che gli chiede di descrivere cosa stia succedendo intorno alla nomina dei sottosegretari e dei viceministri. Nomina che il premier Giuseppe Conte, come da lui stesso dichiarato, voleva a tutti i costi inserire nell'ordine del giorno del Consiglio dei ministri di ieri, e invece slittata a data da destinarsi, forse lunedì prossimo. Il Pd è pronto, la squadra è già stata definita. Il M5s, invece, è in pieno caos. La corsa alla poltrona sta letteralmente mandando in frantumi quello che doveva essere il movimento antisistema, ed è diventato il movimento per la sistemazione. Luigi Di Maio, dopo aver conquistato il ministero degli Esteri, ha mollato la guida effettiva del partito. Vincenzo Spadafora, che dovrebbe assisterlo nelle vicende organizzative, non riesce neanche a compilare una lista di sottosegretari. Deputati e senatori pentastellati si sbranano tra loro: una rissa politica che sta mettendo a dura prova la proverbiale moderazione di Conte, che si è esposto ed ha rimediato una figuraccia. Ragion per cui ieri ha preteso l'elenco entro la serata, o stamani al più tardi. Il metodo delle rose di nomi partorito da Di Maio, infatti, ha scatenato una bufera che non accenna a placarsi. Il (fu?) capo politico del M5s ha chiesto ai membri di ciascuna commissione parlamentare di indicare una rosa di cinque nomi di potenziali sottosegretari per il relativo ministero, riservandosi la scelta finale. Gravissimo errore: in tanti, tra i componenti delle varie commissioni, si sono auto inseriti nelle rispettive rose. Un cortocircuito devastante. La corsa alla poltrona è dovuta a diversi fattori: prima di tutto, diventare sottosegretari significa, alle prossime elezioni, avere la ragionevole certezza di essere ricandidati alle parlamentarie sulla piattaforma Rousseau. Per un deputato o un senatore che vive ogni minuto la sensazione netta di assistere all'ineluttabile dissoluzione del suo partito, si tratta di vita o di morte. I parlamentari al primo mandato, un anno e mezzo fa, quando c'era da completare la squadra del governo Lega-M5s, appagati da stipendio, velluti, poltrone e benefit che non avrebbero mai sognato nella vita, avevano lasciato che le poltrone da viceministro e sottosegretario fossero appannaggio, per lo più, dei colleghi al secondo mandato, riconoscendone l'esperienza. Stavolta no, stavolta sono proprio deputati e senatori al primo mandato ad essere letteralmente assatanati. L'atmosfera nel M5s è mefitica, i grillini mettono in circolazione veleni l'uno contro l'altro. Nessuno regge il timone, nessuno mantiene la rotta. Il caso di Elisabetta Trenta è paradossale. L'ex ministro della Difesa sta facendo fuoco e fiamme per ottenere la poltrona di sottosegretario all'Interno, nonostante una retrocessione del genere sia di consueto esclusa per principio. Il problema della Trenta è che, non essendo nemmeno parlamentare, rischia di trovarsi, politicamente, a spasso. L'orgoglio viene messo da parte, offuscato dalla brama di un posticino al sole. Il Viminale è l'oggetto dei desideri dei grillini: le autocandidature a sottosegretario all'Interno sono il quadruplo di quelle relative agli altri ministeri. La visibilità ottenuta da Matteo Salvini acceca le menti dei grillini, come se bastasse una scrivania al Viminale per crescere a dismisura in popolarità. Non solo: ci si rimangia anche la parola scritta. «Siamo convinti», avevano affermato tre giorni fa, attraverso una stizzita nota, i presidenti di Commissione del M5s alla Camera, Marta Grande, Filippo Gallinella, Carla Ruocco, Giuseppe Brescia, Marialucia Lorefice, Gianluca Rizzo e Luigi Gallo, «che i nomi che verranno selezionati saranno tra le figure migliori del gruppo parlamentare e non solo. Abbiamo detto a più riprese che adempieremo al nostro ruolo fino alla scadenza naturale e speriamo che ciò valga per tutti. Il M5s non è un ufficio di collocamento». Bene (anzi male): a quanto risulta alla Verità, alcuni dei essi hanno già cambiato idea e si propongono in maniera asfissiante per l'agognata poltrona. Matteo Salvini, che i grillini li conosce meglio di chiunque altro, inizia a togliersi qualche macigno dalle scarpe: «Dopo neanche una settimana al governo», azzanna Salvini, contemplando la figuraccia stratosferica del M5s, «già si scannano per la distribuzione delle poltrone. Presidente Mattarella, davvero gli Italiani meritavano uno schifo simile?». Già, Mattarella. Il capo dello Stato assiste a quanto sta accadendo, immaginiamo, con sconcerto e amarezza. Il Pd, invece, se la gode: ha la squadra pronta, i team di collaboratori già insediati, sta accumulando un vantaggio operativo piovuto dal cielo, inatteso. In questo marasma, in questo festival del più sfrenato poltronismo, la leadership di Di Maio affonda, trascinando quella di Spadafora. Troppi intrighi, troppe promesse, troppi «o si fa così o ve ne pentirete»: non sarà un caso, sussurrano i bene informati, se alla fine la stragrande maggioranza dei sottosegretari proverranno dal Senato. Il ricatto politico è più efficace a Palazzo Madama, dove la maggioranza è risicata e gli appetiti insaziabili. La speranza di chi ancora crede nel progetto politico del M5s è che Giuseppe Conte, dopo la figuraccia dello slittamento di ieri, avochi a sé la pratica.
(...) gli ex democristiani del Ppi e poi arrivarono a dar loro manforte l'Udeur di Clemente Mastella e per un certo tempo pure Francesco Cossiga.
Dunque, dicevamo, mettetevi il cuore in pace. Il Conte bis vedrà la luce e, purtroppo, durerà per tutta la legislatura. Come ormai si è capito, a volerlo sono in troppi. L'Europa innanzitutto, che non vedeva l'ora di levarsi dai piedi Matteo Salvini, considerato dalle parti di Bruxelles una vera e propria spina nel fianco. E poi la Chiesa, che con papa Francesco pensa più ai migranti che agli italiani. Infine, a tifare perché il governo nascesse c'era tutto l'establishment, ovvero quelli che contano in Italia, i quali intravedevano nell'avanzata leghista un potenziale pericolo, in quanto con Salvini rischiavano di perdere il controllo delle leve di comando. Dunque, la paura dei grillini di ritornare a una vita fuori dalla politica e quella dei renziani di concludere la carriera politica si sommano alle spinte di Ue, Vaticano e poteri forti: uno schieramento micidiale che farà ogni cosa perché l'esecutivo duri.
Tutto ciò premesso, le grandi manovre sono già cominciate anche se l'esecutivo non ha ancora ottenuto il via libera. Il primo a muoversi è Matteo Renzi, il quale, secondo Il Messaggero, si preparerebbe, dopo la Leopolda di ottobre, a dar vita a un suo gruppo parlamentare, per lo meno alla Camera. Non si tratterebbe ancora del Pdr, ossia del Partito di Renzi, ma semplicemente di un embrione di partito. Con il quale però l'ex presidente del Consiglio prenderebbe due piccioni con una fava. Il primo, ottenere i fondi che il Parlamento mette a disposizione dei gruppi, avendo dunque risorse per l'attività politica. E il secondo, creare un contenitore che, senza il marchio Pd, dovrebbe attrarre i parlamentari di centrodestra in fuga da Forza Italia. Nella pattuglia capitanata da Silvio Berlusconi c'è maretta, innanzitutto perché quasi nessuno riesce a capire in quale direzione stia facendo rotta il Cavaliere, se all'opposizione o verso la neonata maggioranza. Nonostante le rassicurazioni (l'ultima è di ieri, sul Giornale), tra lui e Salvini non c'è mai stato feeling, dunque è difficile che il capo degli azzurri pensi a un'alleanza come ai bei vecchi tempi. Più probabile, invece, che mediti di tenersi le mani libere. E un contenitore guidato dall'ex segretario del Pd, paradossalmente, potrebbe liberare le mani a molti dentro la stessa Forza Italia, perché ci sarebbe la scusa che il Pdr non avrebbe a che fare con il vecchio Pd. A sua volta, usciti i renziani, Nicola Zingaretti avrebbe la possibilità di far rientrare dalla finestra i comunisti di Leu che se ne erano andati dalla porta proprio in polemica con l'ex sindaco di Firenze. Insomma, con le grandi manovre ci sarebbe la possibilità di contentare tutti.
Resta però un problema, ovvero che al momento, nonostante gli sgambetti e gli intrighi, la Lega continua a essere il primo partito d'Italia e dunque, se si dovesse andare a elezioni, farebbe il pieno. In questo caso però, i nostri complottisti sarebbero già pronti all'azione. Il piano prevede che si faccia la benedetta riforma della riduzione dei parlamentari, così da solleticare un po' la pancia degli italiani che detestano la Casta. E poi, dopo aver sottoposto la riforma a un referendum, bisognerà fare una nuova legge elettorale che ridisegni i collegi. Va da sé che il sistema sarà studiato per evitare che Matteo Salvini possa, nel futuro Parlamento, avere la maggioranza. Insomma, insieme al Conte bis si prepara la Porcata bis.
Non è finita, perché la combriccola dei perdenti ha in serbo anche un altro Porcellum. Ieri il nostro Carlo Cambi spiegava sulla Verità che, nonostante il ribaltone di questi giorni, il centrodestra potrebbe avere la possibilità di eleggere il prossimo presidente della Repubblica. Come abbiamo più volte raccontato, a nominare il capo dello Stato nell'ultimo quarto di secolo è sempre stata una maggioranza di centrosinistra. E infatti abbiamo avuto una sfilza di inquilini del Quirinale con una spiccata pendenza da quella parte, a cominciare da Oscar Luigi Scalfaro per poi passare a Giorgio Napolitano. Questa volta, anche se a votare sarà l'attuale Parlamento, le cose però potrebbero cambiare, perché all'elezione del presidente della Repubblica partecipano anche i rappresentanti delle Regioni che, guarda caso, dopo anni di predominio rosso, ora sono in gran parte amministrate dal centrodestra. Risultato, gli amministratori regionali potrebbero fare la differenza. Però ad accorgersi di questa possibilità, a quanto pare, non è stata solo La Verità, ma anche la sinistra, che ora, con la riforma del numero dei parlamentari, potrebbe mettere mano anche al numero di chi vota per il capo dello Stato, riducendo - guarda un po' - il numero dei votanti designati dalle Regioni. In pratica, una Porcata tris, che toglierebbe agli italiani non solo il diritto di votare, ma anche il diritto di influire in qualche misura sulla nomina del prossimo presidente della Repubblica.
Tradotto, se ciò che sta accadendo non è un colpo di Stato, ci somiglia molto.







