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Lo ha detto Riccardo Preve, presidente della Federazione dei Risifici Europei (Ferm), a margine dell'evento sul riso organizzato all'Eurocamera di Bruxelles dall'eurodeputato di Fratelli d'Italia Carlo Fidanza.
Lo ha detto Riccardo Preve, presidente della Federazione dei Risifici Europei (Ferm), a margine dell'evento sul riso organizzato all'Eurocamera di Bruxelles dall'eurodeputato di Fratelli d'Italia Carlo Fidanza.
Ci hanno messo solo 25 anni, ma finalmente anche gli industriali della chimica si sono accorti che la Cina non è un simpatico panda ma un drago con le fauci spalancate. Il rischio si chiama desertificazione produttiva. Ora che le importazioni dalla Cina sono passate dal 6 al 17% - con un incremento del 183% - e che la produzione interna scende dell’1,5% dopo quattro anni di discesa continua, il presidente di Confindustria Emanuele Orsini ha lanciato l’allarme: «Servono gli eurobond per mettere al centro l’industria». Per la lobby degli industriali il primo problema è sempre quello di ottenere sussidi e contributi. All’assemblea di Federchimica al Teatro Lirico di Milano, si sono sentiti accenti molto preoccupati. Anche in quello che rappresenta il fiore all’occhiello dell’industria nazionale (come dimenticare il primo brevetto della plastica o Raul Gardini come profeta della bio-chimica) si sono accorti, seppure con qualche decennio di ritardo, che la globalizzazione non era un pranzo di gala e che la Ue sulla transizione green non ha capito nulla.
Il presidente di Federchimica, Francesco Buzzella, ha presentato il conto: «Solo l’anno scorso in Europa hanno chiuso impianti che producevano 11 milioni di tonnellate. Tutti prodotti che ora importiamo prevalentemente dall’Asia e dalla Cina. Pechino opera in un contesto di asimmetria competitiva: dal 2021 ai primi otto mesi del 2025 la quota cinese sull’import italiano di chimica è passata dal 6 al 17%». Tradotto: ci hanno colonizzato il mercato mentre la Ue discuteva degli imballaggi biodegradabili. Buzzella non si limita a lanciare l’allarme: «In meno di 25 anni dal suo ingresso nel Wto, la Cina è diventata la seconda superpotenza economica, industriale e commerciale del mondo. Tra concorrenza sleale, protezionismo e sovracapacità produttiva sta contribuendo a desertificare interi settori industriali della Ue e non solo». Come se fosse una sorpresa.
Intanto la chimica italiana si sta sciogliendo come una pastiglia nell’acqua: -11% di produzione dal 2021 al 2024, e un altro -1,5% in arrivo per il 2025. Quattro anni consecutivi di calo per un settore che vale 65 miliardi di fatturato, con oltre 2.800 imprese e 113.000 addetti. «Per evitare la desertificazione industriale bisogna intervenire presto», implora Buzzella. E come? Con più investimenti, ovviamente. Meglio se con il sostegno di stato considerato che «solo il 30% delle imprese ha pianificato investimenti significativi in Italia nei prossimi anni». In pratica: ci lamentiamo del deserto, ma nessuno vuole piantare alberi. A rincarare la dose ci pensa Emanuele Orsini, che come sempre chiede aiuto: «L’Europa dovrebbe fare una cosa semplice, degli eurobond per rimettere al centro l’industria». Visto che con Giorgetti non riesce, almeno per il momento, a spuntarla, chiede soldi a Bruxelles. Nel frattempo bisogna chiudere la guerra commerciale: «Gli Stati Uniti hanno una capacità di spesa che altri mercati non hanno. Dobbiamo continuare a puntare sugli Usa, perché mercati più piccoli come il Mercosur non hanno la stessa capacità». Tradotto: non molliamo Washington, che almeno compra ancora. Ma Orsini non si ferma e almeno su una cosa ha ragione: «Il green deal non ha portato alcun beneficio. Bisogna fare un saldo tra effetti e benefici e tirare una linea. Al centro deve essere messa la neutralità tecnologica». E giù la stoccata: «Abbiamo abbassato le emissioni per avere la Cina che ha aperto 100 centrali a carbone per darci le auto elettriche che noi non riusciamo a ricaricare perché l’energia costa troppo?». Un applauso spontaneo, forse per disperazione più che per convinzione.
Sul fronte politico, Gilberto Pichetto Fratin, ministro dell’Ambiente, si lancia in qualche promessa: «L’energy release è un meccanismo per andare incontro alle imprese fortemente energivore. All’inizio l’Europa ci ha sollevato dei dubbi, ora è diventata una best practice. Ma dobbiamo fare qualcosa di più forte per una massa più consistente di imprese». Non chiede eurobond, ma un po’ di realismo. Poi tocca a Tommaso Foti, ministro per gli Affari Europei, pronunciare la requisitoria contro Bruxelles: «Il green deal non è stato un errore ma un accidente ideologico voluto per deindustrializzare l’Europa. Bisogna smontarlo per evitare un suicidio annunciato». Insomma, un funerale con orazione politica. Morale: dopo anni di illusioni sulla «transizione verde», scopriamo che ci siamo consegnati alla Cina, che produce energia con il carbone, e ci rivende pure le batterie e i pannelli che avevamo sognato di fabbricare in casa. Gli industriali adesso gridano al pericolo, ma sono gli stessi che, fino a ieri, firmavano memorandum d’intesa con Pechino sorridendo davanti ai dragoni. E ora chiedono soldi all’Europa. Magari in yuan.
Terre rare, Ue in difficoltà chiama la Cina. Cobalto, mercato lungo ma arriva l’acquirente. Export di petrolio russo al top. Maxi progetto idroelettrico in Congo. Il Vietnam abbandona la politica dei due figli.
Per la prima volta non ci saranno tagli alla capacità di pesca nel Mediterraneo. Si potrebbe dire Italia batte euroburocrazia e follia green 1 a 0. «Beh sì», commenta soddisfatto Francesco Lollobrigida, ministro per la Sovranità alimentare di ritorno da Bruxelles dove ha ottenuto un successo decisivo per la nostra marineria, «siamo riusciti a respingere un’idea sbagliata: i burocrati senza neppure consultare il commissario alla pesca avevano deciso per il 2025 un taglio del 38% delle catture nel Mediterraneo. Noi tessendo una rete con altri tre Paesi siamo riusciti a portare a zero il taglio che avrebbe dato un colpo mortale alle nostre flotte che praticano la cattura a strascico».
Come c’è riuscito?
«Con la centralità che l’Italia ha ritrovato in Europa. Abbiamo - numeri alla mano - dimostrato che l’idea di bloccare la pesca in Mediterraneo ha dato scarsissimi benefici in termini di ambiente, ma ha prodotto una diminuzione della flotta italiana del 23% in dieci anni e l’ha dimezzata in 30 anni. Per una ragione elementare: per ogni barca italiana in disarmo ne vanno in mare due di Paesi terzi non soggetti a vincoli europei. È l’Europa lontanissima dai territori che elabora schemi astrusi che voleva imporre la povertà ai nostri pescatori».
A questo si aggiunge che l’Italia ha dovuto aumentare le importazioni?
«Era lo schema di Frans Timmermans che con la sua ideologia green ha costretto l’Europa a diminuire le produzioni. Viene da pensare che siccome l’Olanda, il Paese di Timmermans, vive di importazioni, la sensibilità dell’allora vicepresidente sull’equilibrio che l’Europa deve mantenere fosse un po’ sbilanciata: prima il green e poi il resto. Quella visione è in parte tramontata, ma per cambiarla bisogna lavorare tanto».
Il nuovo commissario, la spagnola Teresa Ribera, pare ispirarsi a Timmermans…
«In parte e comunque non ha il potere di Timmermans. È un lungo discorso che potremmo chiamare la gerarchia del palazzo. I burocrati s’inventano poteri di veto per salire nei piani alti dei palazzi di Bruxelles. Al dodicesimo piano sta Ursula von der Leyen, ma oggi all’undicesimo c’è Raffaele Fitto, Paolo Gentiloni aveva l’ufficio all’ottavo piano. A Bruxelles devi stare dentro e al tempo stesso scardinare la gerarchia del palazzo».
L’Italia ha dunque riacquistato centralità?
«Profetizzavano: il centrodestra sarà spazzato via dall’Europa. Dopo due anni - ieri ero al ricevimento di Politico che è diventato il primo opinion maker a Bruxelles - Giorgia Meloni viene incoronata come leader più potente in Europa. Vuol dire che stiamo facendo, anche con i nostri funzionari, un ottimo lavoro. Anche sul Green deal le posizioni di Ecr stanno facendo breccia. Si vede dai provvedimenti. Questo sulla pesca ne è un esempio».
Anche l’agricoltura ha riacquistato centralità? E le produzioni mediterranee?
«Facciamo un paio di passi indietro. Il primo: l’agricoltura era ed è il settore fondante della Comunità. Nel 1958 l’allora ministro agricolo Mario Ferrari Aggradi ben spiegò che il sostegno all’agricoltura ha due scopi: la sicurezza alimentare, ma prima di tutto impedire lo spopolamento delle campagne, delle zone rurali, pena la perdita di territorio e di biodiversità. È significativo ricordare che contro i Trattati di Roma votarono comunisti e socialisti. Ebbene gli eredi di quelle idee oggi sono ancora lì a non comprendere la centralità dell’agricoltura in Europa che, è questo il secondo dato, hanno affermato i benedettini. Noi abbiamo ripreso da lì e su questo abbiamo fondato l’opera per rimettere l’Italia e l’agricoltura al centro del dibattito e dell’azione europea. La prima cosa che ho fatto da ministro è stata di ricostituire il gruppo Euromediterraneo. Nove Paesi che condividono coltivazioni e problemi come quello della salvaguardia del suolo attraverso l’opera dei contadini, custodi che sono distantissimi dalle fredde elucubrazioni di Bruxelles. Chi non ha mai visto le colline di Montalcino o di Valdobbiadene, chi non solca i nostri arenili, chi non cammina nei nostri boschi, nelle vigne, nelle foreste di ulivi, non può capire. Aveva ragione Emilio Sereni, un comunista che cito sempre e volentieri, a dire che il nostro paesaggio è scolpito dall’agricoltura. E il Mediterraneo è altra cosa da Bruxelles».
Dunque si vince con una battaglia sull’«agricultura» con la U?
«Assolutamente sì, altrimenti come si spiega che qualsiasi prodotto made in Italy suscita interesse e meraviglia? È questo prima di tutto che dobbiamo difendere».
Anche dall’accordo Mercosur? Sembra che i contadini rimettano in moto i trattori…
«L’Italia lo ha detto chiaro: nessuna penalizzazione dell’agricoltura è ammissibile. Noi siamo con la Francia, che è contrarissima, e con la Polonia contro questo accordo per un motivo esiziale: l’agricoltura non può pagare dazio per favorire altri settori. L’Italia dopo 31 anni guida il Copa, la maggiore organizzazione agricola europea (io ho incontrato tutti i sindacati agricoli) che pone tre questioni: la sovranità alimentare, e non a caso così si chiama il ministero che ho l’onore di condurre, non può essere messa in discussione dalla mancanza di reciprocità; agli agricoltori non può essere chiesto nessun ulteriore sacrificio; e il timore che nel lungo periodo le importazioni di carne, di riso, di mais tanto per stare sui raccolti italiani cancellino le nostre produzioni. È un limite invalicabile, non possono non essere tutelati, con una garanzia assoluta, tutti i nostri prodotti a denominazione sia di origine sia geografica. E poi faccio una domanda: siamo sicuri che chi fa le auto continui a produrle in Europa per venderle in Brasile o non vada direttamente in Brasile a fabbricarle?».
In ultimo, sulla Pac si fanno passi avanti?
«L’Italia ha posto un problema fin dal febbraio scorso: la Pac va riformata e soprattutto va aumentato il valore di bilancio. Non è possibile destinare all’agricoltura gli stessi soldi di dieci anni fa. Cominciamo a discuterne nelle prossime settimane, ma come s’è visto sulla pesca l’Italia ha ripreso il suo posto in Europa e le idee dei burocrati non passeranno tanto facilmente».
Una manciata di numeri è sufficiente per avere la conferma di quanto fosse giusto denunciare da subito gli errori alla base del modello di transizione imposto dai socialisti europei. Un grande favore all’economia cinese e soprattutto una mazzata alla nostra sovranità tecnologica. Riportiamo i dati Eurostat. Nel 2023 il Vecchio continente ha importato pannelli solari per una valore di 19,7 miliardi, biocarburante per quasi 4 e turbine eoliche per 300 milioni di euro. Al contrario è riuscita a esportare turbine per un importo di circa 2 miliardi. Sul resto dell’energia verde siamo stati stracciati. Da chi?
Beh, da Pechino, visto che il 98% di questi pannelli solari viene dalla Cina. L’anno prima, il 2022, non è andata meglio. L’Ufficio di statistica dell’Ue ha spiegato che il valore dei pannelli solari importati è diminuito del 12% rispetto al 2022, ma solo causa di un calo dei prezzi. La quantità è infatti aumentata del 5%. Le importazioni di biocarburanti liquidi hanno registrato un calo del 22% in valore, con un modesto calo del 2% in quantità. La sostanza non cambia. Tanto più che se andiamo a spulciare gli archivi e cercare i dati del 2021 vediamo che il Vecchio continente aveva speso per importare tecnologia verde 13,8 miliardi di euro complessivi. Compresi, cioè, pannelli, biocarburante e turbine. Mentre l’export era arrivato a 5,7 miliardi. Insomma, in un solo biennio, l’importazione è balzata di circa 10 miliardi e l’esportazione è persino calata di 600 milioni. Non è tanto per mettersi qui con il pallottoliere e fare i calcoli sul valore complessivo, ma tutta la politica dovrebbe sbandierare i dati per chiedere un enorme cambio di passo. Esattamente come sta avvenendo per l’automotive. Anzi con maggiore veemenza. Il modello basato sulle rinnovabili ci rende totalmente dipendenti dalla tecnologia altrui e, per di più, non garantisce nemmeno l’equilibrio energetico per la manifattura. Basta andare a vedere i dati che regolarmente diffonde Terna. Meno elettricità da fonti tradizionali, più rinnovabili. Ma molto più fabbisogno dipendente dall’estero. Nel 2023 il Paese ha richiesto poco più di 306 Terawattora: 142 da fonti non rinnovabili, 112,7 da energia rinnovabile e il rimanente, 51,3, importati dall’estero. Tradotto in percentuali significa nell’ordine: 46,5%, 36,8% e 16,7%. Nel 2022 l’esposizione ai produttori stranieri era del 13,6% e l’anno prima nel 2021, ancor meno. Cioè del 13,4%. Prima che scoppiasse la guerra in Ucraina, insomma, eravamo più indipendenti. O, se si vuol dire in altre parol,e eravamo più autonomi dalla geopolitica. Purtroppo le scenario non si limita a questi pochi numeri. Più ci si addentra e più ci si rende conto che lo scacchiere è complesso e pieno di insidie. Per capirlo vale la pena spulciare un altro report sempre firmato Terna e pubblicato qualche mese fa. È il rapporto di adeguatezza relativo al 2023. A pagina 22 si spiega in termini semplici che cosa sia il margine di adeguatezza. Si tratta del valore matematico tra la somma della capacità di generazione elettrica disponibile, il livello di importazione dalle aree contigue e il fabbisogno aumentato della necessaria riserva terziaria. Il picco storico negativo è stato toccato a luglio del 2022, quando il valore ha raggiunto lo zero. O meglio gli zero Gigawatt. Nel 2023 si è risaliti a 2,3 Gigawatt. Comunque pochissimo. Il miglioramento in ogni caso è stato possibile non per un merito complessivo, ma per un demerito. Il Paese ha infatti visto scendere sensibilmente i consumi. La richiesta di energia sulla rete è diminuita del 2,8% rispetto al 2022 e addirittura del 4,3% rispetto al 2021. Non un dettaglio. Per fortuna, nel frattempo è cambiato il governo e l’attuale sembra aver compreso che all’Italia e in generale all’Europa serve il nucleare. La sola energia che ci permette di inquinare meno, garantire un ritorno tecnologico sovrano e bilanciare il peso delle rinnovabile. Non siamo certo a chiedere di eliminarle, ma di creare un mix utile alle aziende e alle tasche dei cittadini.
Confindustria, dopo l’arrivo di Emanuele Orsini, si è schierata in modo chiaro non solo nei confronti della transizione e dell’auto elettriche ma sta ponendo obiettivi chiari sull’energia. Tradotto, anche gli industriali chiedono il nucleare. A breve dovrebbe essere annunciata una newco sotto il controllo del Mef alla quale saranno chiamate a contribuire tre aziende partecipate. Già in precedenza abbiamo raccontato dei progetti di Leonardo relativi allo sviluppo di Smr, small modular reactor, utili per i distretti produttivi o singoli siti da destinare ai data center. Un po’ come sta progettando Google negli Usa. A ciò dovrebbe aggiungersi la valutazione del nucleare di terza generazione che garantirebbe tempi più stretti rispetto agli Smr. Personalmente ci auguriamo che i dati di Eurostat siano un’ulteriore sveglia. Le auto elettriche sono soltanto uno dei temi da rimettere in discussione. Quello della tecnologia green in ambito energetico è un tema ben più ampio e più sensibile per la stabilità di uno Stato e del nostro Continente.

