«La Germania, come gli Stati Uniti, cerca di frenare l’impennata dei richiedenti asilo». Così titolava ieri l’edizione europea del Wall Street Journal. Che anche il governo tedesco stia pensando a un modo per rallentare l’invasione, respingendo l’ondata di migranti, lo avevamo capito da un pezzo, soprattutto dopo che il ministro dell’Economia e vicecancelliere Robert Habeck aveva parlato di dare un taglio secco ai sussidi a favore dei profughi. Ma il quotidiano americano ieri ha fatto un passo avanti, rivelando l’intenzione di Berlino di spostare il problema un po’ più in là, vale a dire in terra straniera. Infatti, secondo il corrispondente della testata a cui si abbevera la comunità finanziaria internazionale, il cancelliere Olaf Scholz «sta lavorando a un piano per inviare alcuni richiedenti asilo in Africa». Sì, avete letto bene, il governo semaforo (ne fanno parte i socialdemocratici, i liberaldemocratici e i verdi, da qui la simpatica definizione) studia un accordo con Kenya, Ghana, Senegal, Marocco e altri Paesi del continente per «ospitare alcuni richiedenti asilo in attesa delle loro domande di accoglienza». Processo che, precisa il giornale americano, «a volte può richiedere anni». In pratica, la Germania si appresta a fare quello che intende fare l’Italia, cioè mandare i migranti il più lontano possibile, con la differenza che Giorgia Meloni ha scelto l’Albania, che sebbene non faccia parte dell’Unione è pur sempre Europa, mentre i tedeschi meditano di raggiungere intese direttamente con l’Africa. Certo, mentre da noi si usano toni apocalittici contro la decisione di trasferire tremila extracomunitari a Tirana e si parla di deportazione, tirando addirittura in ballo Guantanamo, la prigione extraterritoriale dove gli americani hanno rinchiuso i jihadisti, i tedeschi sostengono di voler «solo» esternalizzare il controllo e la gestione dei flussi migratori. Esternalizzare non fa venire in mente i vagoni piombati e nemmeno i campi di concentramento evocati dalla sinistra di casa nostra. È un verbo gentile, diffuso nelle aziende quando si sceglie di conferire all’esterno una produzione, rinunciando a farla in casa propria. Sarà per questo che nessuno ieri si è indignato di fronte all’articolo del Wall Street Journal. Mentre dopo la conferenza stampa di Giorgia Meloni ed Edi Rama, i compagni hanno dissotterrato l’ascia di guerra evocando la violazione della Costituzione (la Carta è come la mamma: vi si ricorre ogni volta che si è in difficoltà nella speranza che dia uno scappellotto al compagno che ci ha rubato il pallone), ieri a Largo del Nazareno non è volata una mosca. Tutti zitti nonostante fino al giorno prima avessero strepitato, parlando di palesi violazioni delle norme internazionali e di scelta disumana. A un certo punto, come abbiamo già raccontato, Schlein e il vicesegretario per le questioni internazionali, tal Giuseppe Provenzano, coppia sostenuta da quel fine giurista che è l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando, hanno addirittura ipotizzato una ritorsione nei confronti del premier albanese, reo di aver sottoscritto l’intesa con Meloni con il dichiarato scopo di aiutare l’Italia. Essendo Edi Rama il capo del partito socialista della repubblica balcanica, la compagna Elly e i suoi accoliti hanno minacciato di far cacciare il premier di Tirana dal Pse, ovvero dal gruppo che rappresenta i socialisti europei, in quanto non in linea con le politiche umanitarie che ispirano lo schieramento. L’iniziativa, oltre a rivelarsi velleitaria e dimostrare che il furore ideologico spesso spinge a schierarsi perfino contro il proprio Paese (è l’obiezione mossa da Rama), ha coperto il Pd e tutta la sinistra di ridicolo. Non soltanto perché il primo ministro albanese ha liquidato le accuse del Partito democratico con un paio di frasi nette, definendolo un partito di pazzi che neppure conosce le procedure, ma anche perché hanno dimostrato una volta di più di non avere alcuna idea concreta su come affrontare il fenomeno migratorio e di essere come sempre in ritardo sui tempi. Se l’Inghilterra, ma anche la Danimarca, parlano di spedire i richiedenti asilo in Rwanda e l’idea è copiata addirittura dalla Germania, significa che il vento sta cambiando e con i chiari di luna che si registrano sulla scena economica non è più tempo di accoglienza indiscriminata. I tedeschi, per bocca della relatrice dei liberaldemocratici sul tema migratorio, sollecitano il ministro dell’Interno a «facilitare l’elaborazione delle richieste d’asilo nei Paesi terzi», vale a dire in Africa. E stiamo parlando di un partito che sta al governo e occupa ruoli importanti. L’aria che tira dev’essere poi mutata anche a Bruxelles perché, nonostante le pressioni esercitate dalla sinistra italiana, in Europa si sono guardati bene dallo schierarsi contro l’alleanza fra Italia e Albania. Insomma, più passano i giorni e più i veri extracomunitari appaiono gli esponenti della sinistra. Infatti, mentre il governo semaforo fa scattare il rosso per gli arrivi dall’Africa, sono ancora fermi ai box dell’accoglienza. E se questa è la linea dei prossimi mesi, probabilmente sono destinati a rimanerci per un bel po’.
«La Germania, come gli Stati Uniti, cerca di frenare l’impennata dei richiedenti asilo». Così titolava ieri l’edizione europea del Wall Street Journal. Che anche il governo tedesco stia pensando a un modo per rallentare l’invasione, respingendo l’ondata di migranti, lo avevamo capito da un pezzo, soprattutto dopo che il ministro dell’Economia e vicecancelliere Robert Habeck aveva parlato di dare un taglio secco ai sussidi a favore dei profughi. Ma il quotidiano americano ieri ha fatto un passo avanti, rivelando l’intenzione di Berlino di spostare il problema un po’ più in là, vale a dire in terra straniera. Infatti, secondo il corrispondente della testata a cui si abbevera la comunità finanziaria internazionale, il cancelliere Olaf Scholz «sta lavorando a un piano per inviare alcuni richiedenti asilo in Africa». Sì, avete letto bene, il governo semaforo (ne fanno parte i socialdemocratici, i liberaldemocratici e i verdi, da qui la simpatica definizione) studia un accordo con Kenya, Ghana, Senegal, Marocco e altri Paesi del continente per «ospitare alcuni richiedenti asilo in attesa delle loro domande di accoglienza». Processo che, precisa il giornale americano, «a volte può richiedere anni». In pratica, la Germania si appresta a fare quello che intende fare l’Italia, cioè mandare i migranti il più lontano possibile, con la differenza che Giorgia Meloni ha scelto l’Albania, che sebbene non faccia parte dell’Unione è pur sempre Europa, mentre i tedeschi meditano di raggiungere intese direttamente con l’Africa. Certo, mentre da noi si usano toni apocalittici contro la decisione di trasferire tremila extracomunitari a Tirana e si parla di deportazione, tirando addirittura in ballo Guantanamo, la prigione extraterritoriale dove gli americani hanno rinchiuso i jihadisti, i tedeschi sostengono di voler «solo» esternalizzare il controllo e la gestione dei flussi migratori. Esternalizzare non fa venire in mente i vagoni piombati e nemmeno i campi di concentramento evocati dalla sinistra di casa nostra. È un verbo gentile, diffuso nelle aziende quando si sceglie di conferire all’esterno una produzione, rinunciando a farla in casa propria. Sarà per questo che nessuno ieri si è indignato di fronte all’articolo del Wall Street Journal. Mentre dopo la conferenza stampa di Giorgia Meloni ed Edi Rama, i compagni hanno dissotterrato l’ascia di guerra evocando la violazione della Costituzione (la Carta è come la mamma: vi si ricorre ogni volta che si è in difficoltà nella speranza che dia uno scappellotto al compagno che ci ha rubato il pallone), ieri a Largo del Nazareno non è volata una mosca. Tutti zitti nonostante fino al giorno prima avessero strepitato, parlando di palesi violazioni delle norme internazionali e di scelta disumana. A un certo punto, come abbiamo già raccontato, Schlein e il vicesegretario per le questioni internazionali, tal Giuseppe Provenzano, coppia sostenuta da quel fine giurista che è l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando, hanno addirittura ipotizzato una ritorsione nei confronti del premier albanese, reo di aver sottoscritto l’intesa con Meloni con il dichiarato scopo di aiutare l’Italia. Essendo Edi Rama il capo del partito socialista della repubblica balcanica, la compagna Elly e i suoi accoliti hanno minacciato di far cacciare il premier di Tirana dal Pse, ovvero dal gruppo che rappresenta i socialisti europei, in quanto non in linea con le politiche umanitarie che ispirano lo schieramento. L’iniziativa, oltre a rivelarsi velleitaria e dimostrare che il furore ideologico spesso spinge a schierarsi perfino contro il proprio Paese (è l’obiezione mossa da Rama), ha coperto il Pd e tutta la sinistra di ridicolo. Non soltanto perché il primo ministro albanese ha liquidato le accuse del Partito democratico con un paio di frasi nette, definendolo un partito di pazzi che neppure conosce le procedure, ma anche perché hanno dimostrato una volta di più di non avere alcuna idea concreta su come affrontare il fenomeno migratorio e di essere come sempre in ritardo sui tempi. Se l’Inghilterra, ma anche la Danimarca, parlano di spedire i richiedenti asilo in Rwanda e l’idea è copiata addirittura dalla Germania, significa che il vento sta cambiando e con i chiari di luna che si registrano sulla scena economica non è più tempo di accoglienza indiscriminata. I tedeschi, per bocca della relatrice dei liberaldemocratici sul tema migratorio, sollecitano il ministro dell’Interno a «facilitare l’elaborazione delle richieste d’asilo nei Paesi terzi», vale a dire in Africa. E stiamo parlando di un partito che sta al governo e occupa ruoli importanti. L’aria che tira dev’essere poi mutata anche a Bruxelles perché, nonostante le pressioni esercitate dalla sinistra italiana, in Europa si sono guardati bene dallo schierarsi contro l’alleanza fra Italia e Albania. Insomma, più passano i giorni e più i veri extracomunitari appaiono gli esponenti della sinistra. Infatti, mentre il governo semaforo fa scattare il rosso per gli arrivi dall’Africa, sono ancora fermi ai box dell’accoglienza. E se questa è la linea dei prossimi mesi, probabilmente sono destinati a rimanerci per un bel po’.
La Grande Mela presa a morsi dai migranti. Il sindaco di New York ha gli incubi anche da sveglio nel grande ufficio al City Hall. Vede il torsolo, teme rivolte popolari e lancia allarmi: «In tutta la mia vita non ho mai affrontato un problema per il quale non vedo la fine», «La crisi distruggerà la città». E ancora: «Non abbiamo alcun sostegno nazionale, non riceviamo nessun aiuto», con questo puntando il dito direttamente contro la Casa Bianca. Il primo cittadino democratico Eric Leroy Adams è con le spalle al muro, continua a contare gli immigrati illegali (110.000 nell’ultimo anno) speditigli direttamente dai governatori repubblicani - soprattutto Greg Abbott del Texas e Ron DeSantis della Florida -, ai quali si sommano i disperati in cerca di futuro nella metropoli globale, dentro la pancia dell’America dem travolta dall’accoglienza diffusa.
Conosciamo bene la definizione. Era lo slogan preferito del presidente della Repubblica Sergio Mattarella; era il refrain di Bruxelles; era uno dei capisaldi elettorali del Pd; era la strategia di Luciana Lamorgese da prefetto di Milano, quando pose le basi per l’invasione che oggi il sindaco Giuseppe Sala finge di non vedere perché non riesce a controllare. Homeless e ancora homeless secondo l’equivoco del progressismo planetario. Oggi è singolare notare che a New York siano diventati più realisti che al Nazareno. A lower Manhattan il sindaco è preoccupato e impotente. Dopo aver dato del «pazzo» al governatore texano (la provocazione è estrema e funziona) si rivolge a Joe Biden, a Kamala Harris, ai responsabili di un «liberi tutti» non più sostenibile neppure nella patria delle opportunità per tutti.
Adams teme che i nuovi schiavi distruggano il mondo del lavoro, che vadano a ingrossare le file della malavita, che degrado e violenza siano impossibili da arginare. «L’ondata migratoria costituisce un enorme peso finanziario per la città, ed è uno dei motivi per cui ho dovuto ordinare molteplici tagli al bilancio alle agenzie cittadine», ha spiegato al sito Politico. Finora l’impatto diretto sui servizi primari è stato limitato, poiché la maggior parte dei risparmi deriva dall’eliminazione delle posizioni vacanti e dalla rivalutazione della spesa sanitaria. Ma ormai non c’è più spazio per giochi di prestigio e il mayor ha annunciato ulteriori sforbiciate nel prossimo bilancio: «Abbiamo un deficit di 12 miliardi di dollari, prevedo tagli. Ogni servizio ai cittadini ne sarà influenzato».
Nelle capitali americane del grande abbraccio terzomondista la situazione è al limite: San Francisco è in pieno declino e paga la fuga delle aziende, Los Angeles è una somma di ghetti per ricchi in un oceano di precarietà e New York è travolta da «un problema che la distruggerà». I numeri indicano un collasso imminente: City Hall ha ricevuto circa 140 milioni di dollari in fondi federali, mentre nell’ultimo anno fiscale ha speso 1,5 miliardi per alloggi e servizi ai migranti. Le proiezioni sono nere, per fine anno si prevede un buco di 4 miliardi solo per ammortizzare l’impatto dei clandestini. Anche dal punto di vista dell’immagine si temono contraccolpi: i 194 rifugi sparsi per Brooklyn e per il Queens non bastano più e l’idea di realizzare un’immensa tendopoli in Central Park scandalizza i residenti.
«Non c’è più posto, siamo al punto di rottura», ha allargato le braccia il sindaco in conferenza stampa. Sembra di essere dentro un film anni 90: catastrofismo hollywoodiano, fuga da New York. Così fra i dem più realisti alla guida di Stati e città del Midwest si fa largo un’ipotesi che Adams ha fatto propria. Qualcosa di innominabile per la Casa Bianca. «Serve una “strategia di decompressione” al confine per rallentare la migrazione verso New York. È fondamentale che l’amministrazione federale acceleri i permessi di lavoro per i richiedenti asilo, in modo che possano legalmente guadagnare e provvedere a se stessi». Il sindaco di colore, ex capo della polizia, ha ripetutamente chiesto nuovi finanziamenti federali alzando la voce: «Non può essere solo un problema della città». Ha chiamato direttamente il presidente Biden provocando tensione tra i due ceppi del partito democratico, quello amministrativo e quello ideologico. Ma non ha ottenuto niente.
Mentre si moltiplicano le manifestazioni contro l’invasione e le risse fra chi dice basta e chi scende in piazza contro «il suprematismo bianco», la Casa Bianca è immobile. Biden sa che ogni restrizione potrebbe fargli perdere consenso tra i fedelissimi a un anno dalle elezioni. Una patata bollente mentre i repubblicani gongolano, pronti a sfruttare in chiave elettorale lo showdown. Il deputato Nick LaLota ha scritto su Twitter (o X che dir si voglia): «Il primo passo verso la soluzione di un problema è ammettere di averne uno. Ringraziamo il sindaco Adams per essere stato sincero in questa clip sulla portata della crisi migratoria di New York. Ora deve abrogare le politiche di protezione della città. E Biden deve ripristinare il “Remain” in Messico».
Il presidente repubblicano della Camera, Kevin McCarthy, ha affondato il colpo: «La situazione è diventata così grave che anche i leader delle roccaforti democratiche come New York City e Massachusetts stanno gettando la spugna. Non riescono a sopportare la tensione che il massiccio afflusso di persone ha avuto sulla loro città e sul loro Stato. È un dato di fatto». Dentro la Grande Mela c’è un bruco enorme. Il boomerang dell’accoglienza sta arrivando sul naso di chi lo ha lanciato.
Nonostante le condizioni meteo avverse, tanto che le motovedette della Guardia costiera e della Guardia di finanza non hanno potuto pattugliare le acque Sar, a Lampedusa dalla notte di martedì il flusso migratorio si è ridotto ma non si è fermato. Due barchini, con complessivi 99 passeggeri salpati da Sfax (Tunisia), sono riusciti ad approdare. La Procura di Agrigento ha subito aperto un fascicolo, perché risulta inimmaginabile che i due barchini siano riusciti ad arrivare quasi a riva con il forte vento e il mare mosso. Il sospetto è che possano essere stati trainati da motopescherecci tunisini almeno fino al confine con le acque territoriali italiane. E proprio ieri l’assetto di Frontex ha agganciato un peschereccio di 15 metri con 270 migranti salpati da Zuara (Libia). Subito dopo ne sono approdati altri 89. In totale, in 24 ore, hanno fatto ingresso in territorio italiano altre 458 persone. Ma la preoccupazione maggiore è per i tunisini che ci riprovano.
Gli investigatori della Squadra mobile di Agrigento ne hanno arrestati 22 tra Lampedusa e Porto Empedocle. Nove sono risultati destinatari di decreti di espulsione e 13 di decreti di respingimento. Su disposizione del pm di turno sono finiti ai domiciliari, alcuni nell’hotspot di Lampedusa, altri nella tensostruttura di Porto Empedocle. Il flusso tunisino è ancora costante. Ieri il presidente Kais Saied durante un incontro a Cartagine con il presidente del Partito popolare europeo Manfred Weber, ha insistito sulla necessità di adottare un approccio comune per affrontare la questione della migrazione irregolare: «Un approccio basato sullo sradicamento delle cause della migrazione irregolare piuttosto che sulla gestione delle conseguenze». L’incontro si è concentrato sul partenariato strategico e sulla stretta cooperazione tra la Tunisia e l’Unione Europea, nonché sulla necessità di aumentare le opportunità di investimento in Tunisia. Saied ha inoltre ribadito la necessità di «lottare contro le organizzazioni criminali coinvolte nella tratta di esseri umani nel nord e nel sud del Mediterraneo». Weber alla fine dell’incontro ha confermato: «Quella della migrazione è una sfida comune di Ue e Tunisia, che dobbiamo affrontare insieme». Ma, allo stesso tempo ha precisato che l’Ue non darà il suo placet al prestito da 900 milioni di euro finché il Fondo monetario internazionale e Tunisi non troveranno un accordo. Weber, prima di partire per Tunisi, aveva preparato la visita con il presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, e aveva parlato con il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani. Anche il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, era a conoscenza della missione del leader del Ppe.
Ieri, a Roma, durante una riunione riservata alla quale, insieme alla autorità italiane, hanno preso parte esponenti di vertice dei servizi segreti tunisini, della Marina militare e di altre autorità, sono stati mostrati i dati dell’attività di prevenzione delle partenze: 45.610 migranti sono stati recuperati in mare o nel momento in cui tentavano di salpare, mentre sono state sequestrati 2.108 barchini. I dati sono stati considerati dalle autorità italiane come sorprendenti. E non è un caso che Meloni e Saied si siano sentiti a telefono. I due leader si sono confrontati sulla necessità di continuare ad aumentare gli sforzi per rafforzare la lotta contro la migrazione illegale. Meloni ha assicurato il costante sostegno alle autorità tunisine anche nel contesto europeo. «L’Italia», ha spiegato Meloni, «sta subendo una pressione migratoria come non si vedeva da molti anni, anche a seguito degli avvenimenti, recenti e meno recenti, nel Sahel, con quantità di arrivi imponenti». Per Meloni l’unico modo per intervenire in modo efficace è «discutere con i Paesi del Nord Africa e coinvolgere l’Europa nel suo complesso». E ha annunciato di aver «deciso di dare piena applicazione al decreto Cutro, in tema di rimpatri».
Una cabina di regia sull’immigrazione si riunirà a Palazzo Chigi ogni settimana, sotto la direzione del sottosegretario Alfredo Mantovano. Repubblica ieri sembra aver cercato di mettere zizzania nel governo, scrivendo che Matteo Salvini ne sarebbe rimasto fuori. La scelta di Meloni di convocare in seduta permanente il Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica, formalmente esclude il dicastero delle Infrastrutture, non previsto per statuto. Il leader del Carroccio è anche vicepremier e potrebbe partecipare in questa veste. Ma fonti della Lega, citate dal quotidiano romano, avrebbero fatto sapere che, ritenendo Mantovano «un accentratore», Salvini si sarebbe limitato a chiedere i risultati quando se ne sarebbe presentata l’occasione, sentendosi libero di criticare l’operato del governo. In realtà, ieri pomeriggio, le agenzie di stampa hanno precisato che Salvini è permanentemente invitato e che «parteciperà a ogni riunione».
Il Belgio intanto ha sospeso la possibilità per gli uomini soli richiedenti asilo di essere ospitati nei centri di accoglienza del Paese. E il governo è stato attaccato dalla Rete degli avvocati progressisti: «Il messaggio che passa è che gli uomini single sono meno umani di chi ha famiglia o dei minorenni». Già in passato i tribunali Ue avevano condannato il Belgio per non aver favorito il rifugio in diverse occasioni. Tuttavia il governo sembra fermo su questa decisione.
Il Mediterraneo in questi giorni è una tavola piatta. Condizione decisamente favorevole per le traversate di migranti che continuano ad arrivare sulle nostre coste. Sono più di 100.000 ormai dall’inizio dell’anno. Ieri mattina nel porto di Bari ha attraccato la Geo Barents, la nave di Medici senza frontiere, a bordo 55 migranti di cui 42 minorenni non accompagnati. La nave ong di Open Arms, che ha soccorso 195 migranti, sbarcherà martedì 22 nel il porto di Marina di Carrara, mentre la Life Support di Emergency, con 40 naufraghi a bordo, farà rotta verso Ortona.
Nell’hotspot di Lampedusa ce ne sono già 2.427, anche lì molti minori non accompagnati: 228. Arrivano a centinaia ogni giorno e vengono trasferiti a botte di migliaia. Salgono su ogni mezzo: traghetti, aerei o navi militari, perché i pullman non bastano più. Un flusso costante che poi si riversa nelle nostre città. Città che adesso si rivoltano. Sono soprattutto i sindaci dem a protestare, così come i governatori. Per il presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini «la situazione è oltre il livello di guardia». Sempre nella stessa regione, l’assessore al Welfare di Reggio Emilia, Daniele Marchi, anche lui dem, pensa di «organizzare un pullman per portare tutti a dormire al Viminale se il governo continuerà a mandarci migranti senza sosta».
Luca Rizzo Nervo, assessore al Welfare di Bologna, ha detto: «Abbiamo sotto la nostra responsabilità 510 minori stranieri non accompagnati. Noi abbiamo finito tutte le possibilità di accoglienza». Il sindaco di Cremona, Gianluca Galimberti, anche lui del Pd, dice sostanzialmente le stesse cose: «Abbiamo messo ulteriori brandine nelle nostre strutture, abbiamo cercato posti in tutte le comunità della provincia. Ma è del tutto evidente che non ci sono più posti».
«Siamo nella più grande emergenza mai vissuta, almeno da quando sono in carica, e non succede nulla»,attacca il sindaco di Prato, Matteo Biffoni, delegato all’immigrazione dell’Anci, l’associazione dei Comuni italiani, «ho incontrato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi a dicembre, poi c’è stata la convocazione il 4 agosto scorso e nel mezzo solo un po’ di interlocuzione tecnica».
Marcello Pierucci, sindaco dem del piccolo Comune di Camaiore, in Versilia, minaccia di incatenarsi piuttosto che piantare tende. E dice: «Ben cinque nuclei familiari versiliesi sbattuti fuori dai centri di accoglienza straordinaria, è l’ennesimo gravissimo scaricabarile del governo nazionale sui Comuni»
I sindaci leghisti del Veneto non vogliono altri arrivi, il sospetto è che gli amministratori dem, pur non avendo il Partito democratico alcuna capacità di fare una seria opposizione sul tema, stiano montando una crociata per ottenere più fondi. Più fondi che serviranno ad assumere nuovo personale per gestire un nuovo giro di centri di accoglienza che, come già accaduto in passato, potrebbe arricchire molte associazioni.
Intanto il Viminale ha in mente un nuovo piano per la redistribuzione. I migranti non verranno collocati più solo in base alla proporzione della popolazione delle città di destinazione ma anche in base alla superficie del territorio. Rispettivamente il calcolo verrà fatto sul 70% del numero dei residenti e sul 30% dell’ampiezza del territorio dove dovranno essere ospitati. Così si potrebbe avere un aumento di arrivi in Regioni a bassa densità popolosa come Sardegna e Sicilia, per cercare di alleggerire le pressioni nei comuni più popolosi. E sempre con l’idea di diminuire la pressione degli arrivi, nei Cas (Centri di accoglienza straordinaria) si pensa di applicare un turn over. È previsto infatti un censimento degli attuali ospiti, oltre 110.000, per capire se debbano essere ancora assistiti oppure no. Insomma, non soldi a pioggia come vorrebbero i sindaci del Pd, ma ottimizzazione del sistema.






