La Grande Mela presa a morsi dai migranti. Il sindaco di New York ha gli incubi anche da sveglio nel grande ufficio al City Hall. Vede il torsolo, teme rivolte popolari e lancia allarmi: «In tutta la mia vita non ho mai affrontato un problema per il quale non vedo la fine», «La crisi distruggerà la città». E ancora: «Non abbiamo alcun sostegno nazionale, non riceviamo nessun aiuto», con questo puntando il dito direttamente contro la Casa Bianca. Il primo cittadino democratico Eric Leroy Adams è con le spalle al muro, continua a contare gli immigrati illegali (110.000 nell’ultimo anno) speditigli direttamente dai governatori repubblicani - soprattutto Greg Abbott del Texas e Ron DeSantis della Florida -, ai quali si sommano i disperati in cerca di futuro nella metropoli globale, dentro la pancia dell’America dem travolta dall’accoglienza diffusa.
Conosciamo bene la definizione. Era lo slogan preferito del presidente della Repubblica Sergio Mattarella; era il refrain di Bruxelles; era uno dei capisaldi elettorali del Pd; era la strategia di Luciana Lamorgese da prefetto di Milano, quando pose le basi per l’invasione che oggi il sindaco Giuseppe Sala finge di non vedere perché non riesce a controllare. Homeless e ancora homeless secondo l’equivoco del progressismo planetario. Oggi è singolare notare che a New York siano diventati più realisti che al Nazareno. A lower Manhattan il sindaco è preoccupato e impotente. Dopo aver dato del «pazzo» al governatore texano (la provocazione è estrema e funziona) si rivolge a Joe Biden, a Kamala Harris, ai responsabili di un «liberi tutti» non più sostenibile neppure nella patria delle opportunità per tutti.
Adams teme che i nuovi schiavi distruggano il mondo del lavoro, che vadano a ingrossare le file della malavita, che degrado e violenza siano impossibili da arginare. «L’ondata migratoria costituisce un enorme peso finanziario per la città, ed è uno dei motivi per cui ho dovuto ordinare molteplici tagli al bilancio alle agenzie cittadine», ha spiegato al sito Politico. Finora l’impatto diretto sui servizi primari è stato limitato, poiché la maggior parte dei risparmi deriva dall’eliminazione delle posizioni vacanti e dalla rivalutazione della spesa sanitaria. Ma ormai non c’è più spazio per giochi di prestigio e il mayor ha annunciato ulteriori sforbiciate nel prossimo bilancio: «Abbiamo un deficit di 12 miliardi di dollari, prevedo tagli. Ogni servizio ai cittadini ne sarà influenzato».
Nelle capitali americane del grande abbraccio terzomondista la situazione è al limite: San Francisco è in pieno declino e paga la fuga delle aziende, Los Angeles è una somma di ghetti per ricchi in un oceano di precarietà e New York è travolta da «un problema che la distruggerà». I numeri indicano un collasso imminente: City Hall ha ricevuto circa 140 milioni di dollari in fondi federali, mentre nell’ultimo anno fiscale ha speso 1,5 miliardi per alloggi e servizi ai migranti. Le proiezioni sono nere, per fine anno si prevede un buco di 4 miliardi solo per ammortizzare l’impatto dei clandestini. Anche dal punto di vista dell’immagine si temono contraccolpi: i 194 rifugi sparsi per Brooklyn e per il Queens non bastano più e l’idea di realizzare un’immensa tendopoli in Central Park scandalizza i residenti.
«Non c’è più posto, siamo al punto di rottura», ha allargato le braccia il sindaco in conferenza stampa. Sembra di essere dentro un film anni 90: catastrofismo hollywoodiano, fuga da New York. Così fra i dem più realisti alla guida di Stati e città del Midwest si fa largo un’ipotesi che Adams ha fatto propria. Qualcosa di innominabile per la Casa Bianca. «Serve una “strategia di decompressione” al confine per rallentare la migrazione verso New York. È fondamentale che l’amministrazione federale acceleri i permessi di lavoro per i richiedenti asilo, in modo che possano legalmente guadagnare e provvedere a se stessi». Il sindaco di colore, ex capo della polizia, ha ripetutamente chiesto nuovi finanziamenti federali alzando la voce: «Non può essere solo un problema della città». Ha chiamato direttamente il presidente Biden provocando tensione tra i due ceppi del partito democratico, quello amministrativo e quello ideologico. Ma non ha ottenuto niente.
Mentre si moltiplicano le manifestazioni contro l’invasione e le risse fra chi dice basta e chi scende in piazza contro «il suprematismo bianco», la Casa Bianca è immobile. Biden sa che ogni restrizione potrebbe fargli perdere consenso tra i fedelissimi a un anno dalle elezioni. Una patata bollente mentre i repubblicani gongolano, pronti a sfruttare in chiave elettorale lo showdown. Il deputato Nick LaLota ha scritto su Twitter (o X che dir si voglia): «Il primo passo verso la soluzione di un problema è ammettere di averne uno. Ringraziamo il sindaco Adams per essere stato sincero in questa clip sulla portata della crisi migratoria di New York. Ora deve abrogare le politiche di protezione della città. E Biden deve ripristinare il “Remain” in Messico».
Il presidente repubblicano della Camera, Kevin McCarthy, ha affondato il colpo: «La situazione è diventata così grave che anche i leader delle roccaforti democratiche come New York City e Massachusetts stanno gettando la spugna. Non riescono a sopportare la tensione che il massiccio afflusso di persone ha avuto sulla loro città e sul loro Stato. È un dato di fatto». Dentro la Grande Mela c’è un bruco enorme. Il boomerang dell’accoglienza sta arrivando sul naso di chi lo ha lanciato.



