La sinistra ne ha fatto un cavallo di battaglia: chiunque osi criticare George Soros e la sua Open society è senz’altro un complottista. E pure antisemita, se vogliamo dirla tutta. Questo tic dialettico, naturalmente, è nientemeno che un miserabile tentativo di nascondersi dietro la proverbiale foglia di fico.
Le gesta del finanziere ungherese con passaporto americano, infatti, sono note da tempo immemore: dalla speculazione sulla lira fino alle «rivoluzioni colorate» aizzate ai quattro angoli del globo, soprattutto nell’Europa orientale postcomunista. Senza dimenticare, più di recente, lo zampino dell’Open society nelle denunce alla Corte penale internazionale contro il governo Meloni per il caso Almasri, come ricostruito sulla Verità da Fabio Amendolara.
Le varie operazioni di destabilizzazione portate avanti dagli agenti sorosiani, com’è noto, sono spesso avvenute sotto il cappello dell’Usaid. Che, peraltro, ha inondato le fondazioni dell’Open society con fiumi di denaro. Basti pensare che, nel bilancio federale del 2025, l’anno scorso Joe Biden ha stanziato per l’Usaid la bellezza di circa 30 miliardi di dollari, di cui una cospicua parte era indirizzata alla rete di associazioni sorosiane.
Tuttavia, non appena insediato, Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per imporre un congelamento di 90 giorni su tutti gli aiuti esteri del governo. In seguito, il nuovo segretario di Stato americano, Marco Rubio, ha annunciato la decisione di accorpare l’Usaid al dipartimento di Stato americano. Tradotto: rubinetti chiusi e più stretto controllo sull’agenzia, incluso lo stanziamento dei suoi fondi.
Nei salotti dell’Open society, ovviamente, è subito suonato l’allarme. Se Washington ha stretto i cordoni della borsa, allora occorre rivolgersi all’Unione europea, l’altra mucca da cui Soros munge consistenti finanziamenti. Una mossa che, però, non è passata inosservata. Tanto che Viktor Orbán non ha perso tempo a mettere in guardia le istituzioni europee dalle truppe di questuanti del noto speculatore: «I nostri timori si sono avverati: la rete di Ong globaliste di Soros sta fuggendo a Bruxelles, dopo che il presidente Trump ha inferto un duro colpo alle loro attività negli Stati Uniti», ha scritto ieri su X il primo ministro ungherese. Che poi ha spiegato: «Ora 63 di queste Ong stanno chiedendo soldi a Bruxelles, sotto le mentite spoglie di vari progetti per i diritti umani. Non accadrà! Non lasceremo che trovino un rifugio sicuro in Europa! I file di Usaid hanno rivelato le pratiche oscure della rete globalista. Non abboccheremo di nuovo all’amo».
Circa una settimana fa, in effetti, questa pletora di sigle e siglette sorosiane ha inviato un «appello urgente» a Bruxelles per invitare «i leader dell’Ue ad agire immediatamente per affrontare la crisi globale degli aiuti allo sviluppo innescata dalle recenti decisioni dell’amministrazione statunitense». Come spiegano le Ong, il congelamento dei fondi voluto da Trump «ha già portato a conseguenze immediate e devastanti, tra cui la chiusura di cliniche, la sospensione di programmi di cura salvavita per le malattie, l’interruzione della tutela dei diritti umani e delle iniziative sullo Stato di diritto, nonché una crisi di finanziamenti per le Ong in tutto il mondo».
Nel loro grido di dolore indirizzato a Bruxelles, gli agenti sorosiani si sono lamentati anche della reintroduzione della Global gag rule. Si tratta di una norma, istituita nel 1985 da Ronald Reagan, che blocca i finanziamenti federali statunitensi per le Ong che sostengono la pratica dell’aborto. Revocata dai presidenti democratici, la norma è sempre stata riattivata da quelli repubblicani. Non ultimo, appunto, lo stesso Trump. Ebbene, il recente ripristino della Global gag rule, denunciano le Ong di Soros, «minaccia ulteriormente l’accesso ai servizi essenziali per la salute sessuale e riproduttiva». Tradotto: ostacola le politiche abortiste.
Finita la parte dell’appello intrisa di gemiti e copiose lacrime, inizia quella in cui le sigle sorosiane battono cassa: «Esortiamo l’Ue, in quanto maggiore fornitore di aiuti esteri al mondo, a rafforzare la propria leadership e ad assicurare un sostegno continuo alla democrazia, ai diritti umani, alla salute globale e all’assistenza umanitaria», si legge nel documento stilato dalle Ong. Che poi chiedono «finanziamenti di emergenza per attenuare le carenze finanziarie» create dal congelamento degli aiuti americani. Colpisce, in particolare, la richiesta di «dare priorità ai fondi per i settori più colpiti, tra cui i diritti riproduttivi (l’aborto, ndr), l’uguaglianza di genere e i diritti Lgbtq». Come se non bastasse, l’Unione europea dovrebbe anche «intraprendere azioni diplomatiche per convincere l’amministrazione statunitense a invertire la rotta». Chissà: forse la pacchia è davvero finita.





