Youtrend, società di rilevazioni delle tendenze politiche assai vicina alla sinistra, ha messo a confronto i due schieramentinelle Regioni andate al voto e il risultato è che Fdi, Lega e Forza Italia stanno al 46,8%, mentre l’opposizione sta al 49,7%. Dunque, i progressisti sono avanti e potrebbero vincere al prossimo giro? Non proprio, perché le sei Regioni in cui si sono svolte le elezioni non rappresentano tutta l’Italia, ma solo una parte di essa, quella più spostata a sinistra. Tuttavia, per capire come è andata domenica e lunedì scorsi basta guardare cosa presero le due coalizioni alle ultime politiche. Il centrodestra aveva il 42,7%, il centrosinistra il 51,4%. In pratica, se tre anni fa il centrosinistra era avanti di 8,7 punti nelle sei Regioni, oggi il vantaggio si è ridotto al 2,9%. Altro che vittoria. Macché fine della luna di miele tra centrodestra e italiani. Ma a prescindere da numeri, flussi elettorali e formule politiche, nel 2025 sono andati alle urne gli abitanti di sei Regioni. Tre di queste erano guidate dal Pd, mentre le altre tre erano governate da un leghista, da un esponente di Fratelli d’Italia e da uno di Forza Italia. Alla fine, tre sono rimaste a sinistra, tre sono restate a destra. A un certo punto, con Matteo Ricci, ex sindaco di Pesaro, Schlein aveva pensato di poter riconquistare le Marche, battendo il pupillo di Meloni. Ma nonostante i sondaggi tarocchi fatti circolare alla vigilia del voto nella speranza di influenzare il risultato, in Regione è stato confermato Francesco Acquaroli. In Veneto, prima c’era un leghista di lungo corso come Luca Zaia e ora c’è un giovane leghista come Alberto Stefani. E in Calabria Roberto Occhiuto di Forza Italia è succeduto a Roberto Occhiuto. Insomma, in conclusione pari e patta: tre a tre, come prima. E però un cambiamento si registra in una delle tre Regioni governate dalla sinistra: in Campania, dove prima governava Vincenzo De Luca, ovvero un governatore del Pd, adesso c’è Roberto Fico, ex presidente della Camera e grillino della prima ora. In altre parole, Giuseppe Conte ha guadagnato un presidente di Regione ed Elly Schlein lo ha perso. Volendo sintetizzare, la coalizione di centrosinistra è un po’ più di sinistra di prima e un po’ meno di centro, non proprio una buona notizia per quanti sognano di rifondare una democrazia cristiana in formato terza Repubblica. Il paradosso della vittoria di Fico però è che a portarlo al successo sono stati soprattutto i voti del Pd, non certo quelli del Movimento 5 stelle, che con le regionali ha ottenuto uno dei peggiori risultati di sempre, perdendo anche in Calabria, dove pure aveva schierato il papà del reddito di cittadinanza (Pasquale Tridico). Un’ultima osservazione su un fattore che evidenzia le contraddizioni a sinistra è il risultato di Puglia e Toscana, dove ha vinto l’ala socialista del partito democratico, cioè quella che si contrappone all’attuale segretaria. Dunque, per andare al sodo: dopo il voto gli equilibri nel centrodestra restano immutati, mentre nel centrosinistra in Campania si volta pagina con un grillino e nelle altre due Regioni vince la linea che contrasta con quella di Schlein. Detta in poche parole, la vittoria di cui si parla in questi giorni rischia di diventare un problema, perché tenere insieme gli opposti, senza che né Giuseppe Conte né l’ala riformista che ha trionfato a Firenze e Bari riconoscano la leadership di Schlein, alla lunga può trasformare il campo largo in un campo minato.
Youtrend, società di rilevazioni delle tendenze politiche assai vicina alla sinistra, ha messo a confronto i due schieramentinelle Regioni andate al voto e il risultato è che Fdi, Lega e Forza Italia stanno al 46,8%, mentre l’opposizione sta al 49,7%. Dunque, i progressisti sono avanti e potrebbero vincere al prossimo giro? Non proprio, perché le sei Regioni in cui si sono svolte le elezioni non rappresentano tutta l’Italia, ma solo una parte di essa, quella più spostata a sinistra. Tuttavia, per capire come è andata domenica e lunedì scorsi basta guardare cosa presero le due coalizioni alle ultime politiche. Il centrodestra aveva il 42,7%, il centrosinistra il 51,4%. In pratica, se tre anni fa il centrosinistra era avanti di 8,7 punti nelle sei Regioni, oggi il vantaggio si è ridotto al 2,9%. Altro che vittoria. Macché fine della luna di miele tra centrodestra e italiani. Ma a prescindere da numeri, flussi elettorali e formule politiche, nel 2025 sono andati alle urne gli abitanti di sei Regioni. Tre di queste erano guidate dal Pd, mentre le altre tre erano governate da un leghista, da un esponente di Fratelli d’Italia e da uno di Forza Italia. Alla fine, tre sono rimaste a sinistra, tre sono restate a destra. A un certo punto, con Matteo Ricci, ex sindaco di Pesaro, Schlein aveva pensato di poter riconquistare le Marche, battendo il pupillo di Meloni. Ma nonostante i sondaggi tarocchi fatti circolare alla vigilia del voto nella speranza di influenzare il risultato, in Regione è stato confermato Francesco Acquaroli. In Veneto, prima c’era un leghista di lungo corso come Luca Zaia e ora c’è un giovane leghista come Alberto Stefani. E in Calabria Roberto Occhiuto di Forza Italia è succeduto a Roberto Occhiuto. Insomma, in conclusione pari e patta: tre a tre, come prima. E però un cambiamento si registra in una delle tre Regioni governate dalla sinistra: in Campania, dove prima governava Vincenzo De Luca, ovvero un governatore del Pd, adesso c’è Roberto Fico, ex presidente della Camera e grillino della prima ora. In altre parole, Giuseppe Conte ha guadagnato un presidente di Regione ed Elly Schlein lo ha perso. Volendo sintetizzare, la coalizione di centrosinistra è un po’ più di sinistra di prima e un po’ meno di centro, non proprio una buona notizia per quanti sognano di rifondare una democrazia cristiana in formato terza Repubblica. Il paradosso della vittoria di Fico però è che a portarlo al successo sono stati soprattutto i voti del Pd, non certo quelli del Movimento 5 stelle, che con le regionali ha ottenuto uno dei peggiori risultati di sempre, perdendo anche in Calabria, dove pure aveva schierato il papà del reddito di cittadinanza (Pasquale Tridico). Un’ultima osservazione su un fattore che evidenzia le contraddizioni a sinistra è il risultato di Puglia e Toscana, dove ha vinto l’ala socialista del partito democratico, cioè quella che si contrappone all’attuale segretaria. Dunque, per andare al sodo: dopo il voto gli equilibri nel centrodestra restano immutati, mentre nel centrosinistra in Campania si volta pagina con un grillino e nelle altre due Regioni vince la linea che contrasta con quella di Schlein. Detta in poche parole, la vittoria di cui si parla in questi giorni rischia di diventare un problema, perché tenere insieme gli opposti, senza che né Giuseppe Conte né l’ala riformista che ha trionfato a Firenze e Bari riconoscano la leadership di Schlein, alla lunga può trasformare il campo largo in un campo minato.
Alle 17.34 Matteo Ricci ha gettato la spugna: «Ho appena chiamato Francesco Acquaroli per complimentarmi». A nemmeno tre ore dalla chiusura delle urne (seggi poco frequentati: l’affluenza si è fermata al 50,01%, quasi dieci punti in meno di cinque anni fa), le Marche che dovevano essere l’Ohio d’Italia e spalancare al campo largo una prateria di vittorie si sono trasformate in un «ahia» per il Pd di Elly Schlein (solo a tarda sera ha inviato un ringraziamento al suo candidato sonoramente battuto per poi aggiungere: «Sapevamo che non sarebbe stato facile nelle Marche») e, soprattutto, per Giuseppe Conte che, se saranno confermate le proiezioni, di fatto dimezza i voti (cinque anni fa, Acquaroli aveva vinto con il 49,13% delle preferenze, lasciando 12 punti indietro il centrosinistra mentre gli allora grillini si erano fermati all’8,6%, oggi galleggiano al 5%, ndr).e» a insieme si perde.
Fin dai primissimi exit poll si è capito che il presidente uscente, sostenuto da tutto il centrodestra, sarebbe stato anche rientrante. Si è passati dal 50,8 a 49,1 dei primi exit poll, in poche ore, al risultato reale (scriviamo a circa metà delle sezioni) che dà ad Acquaroli il 52,6% e allo sfidante il 44,2%, con un distacco di otto punti e mezzo, superiore anche agli ultimi sondaggi. Dal Pd ne era circolato uno a poche ore dal voto, ripreso da Alessia Morani in corsa al Consiglio regionale, che indicava Ricci in testa. Swg, la società demoscopica, non solo ha smentito i numeri a lei attribuiti, ma ha minacciato le vie legali per quanto accaduto. Il Pd ha provato di tutto: dalla distribuzione di patatine sulle spiagge al treno per Gaza che, con a bordo Matteo Ricci, si è mosso sulla tratta San Benedetto-Pesaro. L’appello di Ricci («Se vinco, il primo atto sarà riconoscere la Palestina») evidentemente non ha pagato. Dalle urne marchigiane una «rivoluzione» si è comunque compiuta.
Per la prima volta il Pd lascia il primo posto a Fratelli d’Italia. Il partito di Acquaroli ha raccolto il 27% dei consensi più che doppiando gli altri alleati di coalizione. Il Pd si ferma poco sopra al 22%, ma il crollo vero è quello dei 5 stelle che passano dall’8,6% di cinque anni fa al 5%. La vittoria di Acquaroli è stata salutata subito dalla premier Giorgia Meloni: «Ha le elezioni regionali nelle Marche confermandosi presidente. Gli elettori hanno premiato una persona che, in questi anni, ha lavorato senza sosta per la sua Regione e i suoi cittadini. Sono certa che continuerà nel suo impegno con la stessa passione e determinazione. Complimenti Francesco e buon lavoro». Va detto che Acquaroli migliora il risultato di cinque anni fa quando era stato eletto strappando le Marche a una egemonia del centrosinistra che durava da 30 anni con il 49,1 % dei voti.
Un risvolto nazionale la vittoria di Acquaroli - è stato giovanissimo sindaco a Potenza Picena, poi deputato per Fdi, laureato in economia è appassionato di agricoltura e turismo - l’ha avuto. Ad Ancona è arrivata Arianna Meloni come coordinatrice del partito che ha sottolineato, con l’onorevole Galeazzo Bignami, capogruppo alla Camera, la centralità di questo voto: «La vittoria di Acquaroli è la conferma del buon lavoro che è stato fatto sul territorio. Avevamo vinto una prima volta sconfiggendo la sinistra, siamo stati riconfermati come già era successo con Marco Marsilio in Abruzzo, l’altro presidente di Regione di Fratelli d’Italia. È un segno evidente che Fdi ha una classe dirigente che sa governare». Ma dalla conferenza di saluto per la vittoria di Francesco Acquaroli - ha voluto accanto a sé tutti gli esponenti della coalizione - sono uscite due indicazioni: la prima è che, sulle prossime candidature, il centrodestra è pronto a trovare la quadra e che Fdi lavora a una riforma della legge elettorale impostata sull’idea del premierato o, quanto meno, con indicazione del presidente del Consiglio.
Il neo governatore, nel suo ringraziamento agli elettori, ha sottolineato: «Cinque anni fa avevamo prodotto una forte discontinuità e abbiamo affrontato problemi e sfide che erano rimaste irrisolti. Grazie anche a un rapporto positivo con il governo, che ha prestato ascolto alle nostre esigenze, abbiamo iniziato un lavoro che va dalle infrastrutture alla sanità all’economia perché il nostro primo impegno è costruire un futuro per i giovani delle Marche che ora vogliamo portare a termine anche con le molte riforme che abbiamo messo in campo».
Dalle urne marchigiane, detto che il sorpasso di Forza Italia (8,6% contro 7,3%) sulla Lega che cinque anni fa aveva il 22,4% dei consensi non crea alcun terremoto nel centrodestra - semmai, il senatore Guido Castelli (Fdi), commissario straordinario alla ricostruzione, con la sua lista civica che ha preso attorno al 4 % ne ha allargato il perimetro - assai diverso è il clima nel campo largo. Per ore non si è avuta alcuna dichiarazione dal Pd. È stato Matteo Ricci a rompere gli indugi concedendo, a scrutini appena iniziati, la vittoria ad Acquaroli. Nelle sue dichiarazioni è sembrato di cogliere una sorta di rivendicazione. Ha detto che meglio di così non poteva andare, che è stata una campagna elettorale in salita e ha ringraziato i leader del centrosinistra che gli sono stati accanto, compreso Giuseppe Conte. In linea con il Pd ha confermato: senza un’alleanza ampia non si vince. Ma con il campo largo si perde, verrebbe da dire (è la decima sconfitta su 13 sfide elettortali, ndr). Matteo Ricci si è lagnato dell’avviso di garanzia - è accusato di concorso in corruzione dalla Procura di Pesaro - e del linciaggio mediatico a cui è stato sottoposto dai «giornali di centrodestra», ribadendo: «Io non ho fatto nulla». E, però, si è avvertito il suo fastidio e smarrimento di fronte a un Giuseppe Conte che ha voluto le carte dell’inchiesta prima di dire sì al campo largo e di fronte al Pd «latitante» che lo ha abbandonato al suo destino.
Al contrario di Acquaroli che era circondato dagli alleati e dai vertici del suo partito, Matteo Ricci, nell’ora della sconfitta, è rimasto solo. Ah, pare che abbia già prenotato il volo per Strasburgo: torna a fare il parlamentare europeo. Con tanti saluti ai (pochi) marchigiani che l’hanno votato.
Francesco Acquaroli: presidente delle Marche, pardon dell’Ohio d’Italia.
«Questa improvvisa attenzione un po’ mi gratifica e un po’ mi sorprende. Fino a qualche anno fa, la nostra regione era ai margini delle strategie nazionali e delle scelte governative. Adesso, invece, è diventata l’Ohio d’Italia».
L’abusata metafora sottende: chi vince nel piccolo Stato americano, trionfa ovunque.
«Numericamente, contiamo poco: abbiamo meno di un milione e mezzo di abitanti. Ma politicamente viene data un’importanza decisiva a queste elezioni: sembra che determineranno i destini della nazione. La verità, come sempre, sta un po’ nel mezzo».
Quando si voterà?
«A settembre: l’ultimo o il penultimo fine settimana del mese».
Sarà la prima tornata. Seguirà il voto in altre cinque regioni. Il centrodestra, però, ancora si accapiglia sul terzo mandato: Lega favorevolissima, Forza Italia ferocemente contraria.
«Sono molto laico su questi temi. Per me vanno bene due mandati, ma concedere il terzo non mi scandalizzerebbe».
Altrove si cincischia, qui si tribola. Sia Elly Schlein che Giorgia Meloni sono pronte a catapultarsi nelle Marche.
«La segretaria del Partito democratico è già stata ad Ancona un mese fa per la festa dell’Unità, assieme a tanti altri esponenti del suo partito: da Bonaccini a Zingaretti. La premier verrà, come accade in ogni regione, per chiudere la campagna elettorale».
Il suo rivale è l’ex sindaco di Pesaro: l’eurodeputato Matteo Ricci. Non un fedelissimo della leader.
«Anche a me pare di ricordare che, alle primarie del 2022, avesse fatto altre scelte».
Lo appoggiano 19 sigle.
«Evito di dare troppo peso a ciò che fanno o dicono gli avversari. Noi andiamo avanti per la nostra strada. All’inizio della legislatura avrei firmato per realizzare la metà delle cose che siamo riusciti a fare».
Sta svicolando.
«È una coalizione certamente spostata a sinistra».
Calenda li ha già mollati.
«Non mi stupisce».
Si definiscono «l’alleanza del cambiamento».
«Più che cambiamento, mi sembra restaurazione. Prima della vittoria del centrodestra, nel 2020, hanno governato per 25 anni filati. Comunque, questa è una regione molto pragmatica. Aldilà delle appartenenze, guarda i risultati e le proposte».
Sembravano certi della vittoria. Ma i sondaggi vi danno ancora in testa di cinque punti.
«In effetti, sono rimasti favorevoli».
Ricci assalta: «Verranno massicciamente i ministri: io li chiamo i “tutor del presidente”».
«E cosa dovrebbero fare? In questi anni sono stati molto presenti, dimostrando grande attenzione per il nostro territorio. Finalmente anche le Marche hanno la considerazione che meritano. L’anomalia è che non sia accaduto prima».
La attacca vivacemente su tutto: dalle lista d’attesa nella sanità alle carenze infrastrutturali.
«Credo che così dimostri la sua debolezza: chi ha buone idee entra nel merito, chi parla sempre male dell’avversario è in difficoltà».
Perché?
«Rendere conto a 19 sigle può complicare le cose. Diventa difficile avere un programma condiviso, per esempio».
Il marchigiano Acquaroli ha aplomb anglosassone.
«È ormai da un anno che istigano, che stuzzicano».
Stoicamente, porge l’altra guancia.
«Cerco di non rispondere. Aprirei querelle infinite».
Vogliono la rissa.
«È una tattica. Dicono falsamente che sono l’ultimo in classifica nel gradimento dei governatori spacciando un elenco incompleto. O mi danno della “brava persona”, tentando di sminuirmi».
Non ci casca.
«Se si approfondiscono i temi, non hanno tanto da dire. Soprattutto, visto il lunghissimo periodo in cui hanno amministrato. Pensiamo solo ai cinque anni precedenti alla mia elezione. Non sono riusciti a portare nemmeno un euro per mettere in sicurezza il territorio dopo la calamità del 2014. Per l’alluvione del 2022, invece, il governo ha stanziato 400 milioni di euro».
Evita l’affondo.
«Mi sforzo di non raccogliere le provocazioni. Lascio perdere i dibattiti inutili. Una parte delle persone che non va più a votare lo fa proprio per questo: è stufa di vedere la gente azzuffarsi».
Un sincero moderato.
«Lo sono sempre stato. Ho profondo rispetto delle istituzioni. Quando si riveste un ruolo come il mio, bisogna rappresentare tutti e rispettare ogni opinione».
L’Ohio d’Italia non apprezza le baruffe.
«È fatta da lavoratori responsabili e appassionati. Non siamo gente molto ideologizzata».
Ricci, invece, pare scatenato: «Bocchino è il badante di Acquaroli». Si riferisce allo straripante Italo, direttore editoriale del Secolo d’Italia, suo prezioso consulente.
«Mi sta dando una mano, assieme ad altri amici del partito. Come, del resto, è già capitato in altre regioni».
Banalizza il celebre apporto?
«Ci sono personalità, all’interno della nostra area politica, che ci sostengono. Abbiamo condiviso lo stesso percorso. Anche qua, dove sta la stranezza? Sono forse normali le faide a sinistra in cui si tifa contro il proprio candidato? Bocchino l’ho conosciuto tanti anni fa, ai tempi di Alleanza nazionale. Ma i buoni consigli, comunque, non sostituiscono visione e strategia».
Imbeccate illuminanti?
«Visto che siamo diventati l’Ohio d’Italia, la sua esperienza e le sue relazioni possono dare certamente un’ulteriore spinta».
Lei è un esimio esponente della generazione Atreju. Le sorelle Meloni, Giorgia e Arianna, sono quasi di famiglia.
«È un rapporto ultra ventennale. Da parte mia c’è stima profonda e affetto incondizionato».
Si dimise dal consiglio regionale per fare il sindaco di Potenza Picena.
«Vinceva il centrosinistra da un quarto di secolo. È la città in cui vivo. Dedicarmi al territorio mi ha sempre appassionato».
Poi lasciò il Parlamento per candidarsi a governatore, cinque anni fa.
«Eravamo alla fine del 2019, nel periodo pre natalizio. Stavo andando a Roma in macchina. Chiamò Giorgia. Mi disse che ero stato scelto come candidato presidente. Non fece nemmeno in tempo a finire la frase. Entrai in una serie di lunghe gallerie. Quando finalmente sbucai fuori dall’ultima, erano passati venti minuti. Furono tra i più lunghi della mia vita».
In campagna elettorale girò tutte le Marche con la sua vecchia Golf bianca.
«Alla fine il tachimetro segnava quasi 400.000 chilometri».
Durante la visita in una fabbrica, i dirigenti le domandarono sorpresi: «Ma non ha uno staff?».
«Siamo gente morigerata. Anche adesso i miei collaboratori si contano sulle dita di una mano».
Parco, compassato e campagnolo.
«Sono un marchigiano tipico: una persona tranquilla, non amo strepitare, evito i toni sopra le righe. Sono perfettamente allineato al comune sentire».
La sua famiglia ha un’azienda agricola.
«Ho scoperto in età avanzata la passione per le vigne e gli ulivi. Produciamo vini autoctoni: la vernaccia e la ribona».
L’altra passionaccia è l’Inter.
«La seguo quando posso. Prima andavo anche in trasferta».
L’ultima volta?
«Inter-Atalanta, qualche mese fa».
Roberto Mancini, marchigiano illustrissimo, le ha servito un formidabile assist: «Acquaroli non ha governato bene, ma benissimo».
«Detto da lui, è un onore immenso. Lo ammiro profondamente. Anche lui è un marchigiano doc: umile, garbato, generoso».
L’ex allenatore della nazionale, con i superlativi, non ha lesinato: «Persona non perbene, ma perbenissimo».
«Oltre al successo che ha avuto sia in campo che in panchina, è una persona strepitosa. Ed è uno che, in silenzio, si prodiga sempre per aiutare gli altri. Mi ha sorpreso il suo apprezzamento. Lui è una persona molto discreta, non me l’aspettavo davvero. È stato un grande onore».
Per Ricci non sarebbe stima disinteressata: «La regione lo ha profumatamente pagato, con un milione di euro, per fare il testimonial del turismo».
«Pensare che uno come Mancini possa farsi condizionare da una cosa del genere, è davvero fuori dal mondo. Quest’ennesima uscita infelice dimostra, ancora una volta, quanto siano in difficoltà. E comunque, grazie a quella campagna pubblicitaria, abbiamo avuto il record assoluto di turisti».
Senigallia è in lizza per organizzare nel 2027 il Festival della canzone italiana, visti i pessimi rapporti tra la Rai e Sanremo.
«Così, diventerebbe il Festival di Senigallia. È un’idea meravigliosa. Mi piace moltissimo. La città ha le caratteristiche perfette. C’è persino la famosa rotonda sul mare».
«È il nostro disco che suona» cantava Fred Bongusto. Non c’è tempo da perdere. Bisogna coinvolgere Giorgia.
«Lei è una grande appassionata di musica e di cultura».
Dovrà mettere una buona parola.
«Faremo di tutto per portare avanti la candidatura».
Bisogna spingere.
«Se ci sarà un’opportunità, di sicuro la percorreremo. Non ci sentiamo secondi a nessuno. La nostra regione è bellissima: dal mare agli Appennini, passando per colline stupende e valli mozzafiato. E poi siamo la terra di Leopardi, di Raffaello…».
Di Mancini.
«Se ci penso, mi emoziono ancora».
Hanno lavorato, lottato, studiato gomito a gomito per anni. Lei alla Garbatella, lui a Potenza Picena, a metà strada tra l’Adriatico e l’infinito di Giacomo Lopardi. Da Potenza Picena se apri le finestre vedi Recanati. Francesco Acquaroli ha solo tre anni più di Giorgia Meloni - è del 1974, Ariete, sposato con Lucia, due figli, consulente finanziario con laurea in economia e amministrazione d’impresa - e insieme da Azione Giovani hanno percorso tutto il cursus honorum della nuova destra. Difficile se vieni da una terra di tradizione cattolica, dove la Margherita si è insanguata con il vecchio Pci e ha costruito un sistema di potere blindato mettendo insieme impresa ed ex mezzadria e sfruttando gli intellò.
Eppure lui è stato il primo a rompere la cortina di ferro del «cattocomunismo» adriatico, un’impresa che pareva impossibile. Anche perché il resto del centrodestra non era disposto a scommettere su questo deputato di fresca nomina che era sì stato giovanissimo consigliere regionale e sindaco del borgo natio, ma sembrava non avere l’aplomb. Invece Giorgia Meloni ha puntato i piedi. È stata la prima volta che Acquaroli è diventato un caso nazionale: o lui candidato o si rompe l’alleanza di centrodestra. E così è stato: il 21 settembre 2020 Acquaroli ha vinto le regionali. Due anni e quattro giorni dopo è toccato a Giorgia Meloni vincere le politiche e ora i due vanno di conserva. Quando gli accenno a cosa pensa del governo, Francesco Acquaroli alza le mani: «Non ne parlo, io mi occupo della Regione». Né vuole pigliarsi rivincite sugli avversari. E sì che un sassolone dalla scarpa dovrebbe pur toglierselo. Perché ci provarono anche con lui a dargli del fascista.
Fu Nicola Zingaretti, allora segretario del Pd, ad accusarlo di nostalgie del ventennio perché Acquaroli aveva partecipato con altri esponenti di Fratelli d’Italia a una cena ad Ascoli Piceno in cui si sarebbe celebrata la marcia su Roma. In campagna elettorale la pregiudiziale antifascista viene sempre buona. Finisce sempre nello stesso modo: Acquaroli presidente delle Marche, Meloni che si avvia a diventare la prima donna presidente del Consiglio. Ne parla con la Verità in questa rarissima intervista: Acquaroli è il politico meno mediatico esistente in Italia.
Lei è uno degli amici più stretti di Giorgia Meloni. Vi siete sentiti? Che le ha detto?
«Ci siamo sentiti, le ho fatto le congratulazioni e condiviso questo momento importante. Ci siamo sentiti spesso prima delle elezioni, soprattutto per parlare della catastrofica alluvione che ha colpito le Marche. Spero ci vedremo presto».
Immagino che lei sia soddisfatto del risultato elettorale. Si è molto speso nella costruzione di Fratelli d’Italia: che significato ha per lei questa vittoria?
«Sono certamente contento del risultato elettorale di Fratelli d’Italia e di tutto il centrodestra. Significa poter costruire quel modello su cui ci stiamo impegnando in Regione, significa rafforzare un’idea di governo che vuole mettere al centro i territori, le categorie, le imprese, le famiglie e i cittadini, dare voce agli interessi di tutti e superare le logiche dei pochi. Rappresentare una visione comune».
Molti hanno votato Fdi, ma pochi conoscono la scelta di diventare militante di Fdi. Lei come ha maturato questa opzione politica e che prezzi ha pagato per questa sua scelta in una Regione dove prevaleva la sinistra?
«La politica per me è passione e soprattutto una forma nobile di impegno civile. A Giorgia Meloni mi lega da sempre una grande fiducia e condivisione, il credere all’importanza della politica attiva legata ai territori. Dare voce a un territorio con una visione politica che mi rappresenta, impegnandomi in prima persona e condividendo il percorso con le persone che sono accanto a me. Non ho pagato alcun prezzo, perché io non faccio politica per avere qualcosa indietro ma per convinzione, quindi per me è stato tutto un’esperienza positiva».
Pensa che la sua vittoria alle Regionali di due anni fa fosse già un segnale che stava cambiando il vento? Che c’era un consenso in maturazione verso il centrodestra e Fdi in particolare?
«La vittoria nelle Marche così come in tante altre regioni e comuni italiani mostra sicuramente che i cittadini considerano il centrodestra una forza di buongoverno. Nello specifico, per la nostra regione, è chiaro che i marchigiani hanno cercato in noi risposte che in 25 anni non avevano trovato nel centrosinistra».
Si è sempre osservato che le Marche sono un laboratorio politico: ciò che succede in riva all’Adriatico poi succede a Roma. Crede che questa condizione si sia verificata anche questa volta?
«Non ho la presunzione di affermarlo, sicuramente ci sono sovrapposizioni che fanno pensare che quanto è accaduto nella nostra regione abbia similitudini con quello che sta accadendo in Italia. Questo tuttavia è anche frutto di un’attenzione costante che da sempre politicamente abbiamo dimostrato per questi territori e non è solo legata ai periodi della campagna elettorale».
Veniamo alla tremenda tragedia che ha colpito la valle del Misa. Avete fatto una stima dei danni e dei tempi che ci vorranno per la ricostruzione?
«C’è stata una devastazione talmente ampia che la ricognizione dei danni alle infrastrutture, ai servizi, alle famiglie e alle imprese, è in via di accertamento. Sicuramente l’ordine non sarà di milioni».
Quanto male le ha fatto sentir dire che lei non era sul posto durante l’alluvione, che era a cena con Guido Crosetto? Lei ha smentito, ma non si è sentito vittima di sciacallaggio politico?
«Purtroppo sono abbastanza abituato e non è la prima volta che accade, basti pensare alla disinformazione subita sul tema dell’aborto. Non ha fatto male a me questo tipo di atteggiamento, ma alla credibilità delle istituzioni. Non appena mi hanno riferito della tragedia ho immediatamente lasciato l’evento in cui ero impegnato e ho raggiunto la sala operativa che si era appena riunita, com’è normale che sia».
L’attacco post alluvione delle opposizioni e soprattutto di esponenti Pd che erano componenti della passata giunta regionale si è ampliato con dichiarazioni di chi rimprovera a lei e all’attuale maggioranza marchigiana di non aver fatto nulla per contrastare la tragedia. Ma nei venti anni precedenti non sembra che il centrosinistra abbia risolto i problemi. Non crede che sia un modo sbagliato di fare politica?
«Come in ogni situazione, parlano gli atti e i fatti. Tutto questo si può riassumere in due numeri, e cioè negli stanziamenti fatti per il dissesto idrogeologico nelle Marche. Dal 2016, anno in cui le competenze sono state attribuite alle regioni, al 2020, sono stati in totale 98 milioni di euro. Nel 2021 e 2022, quindi nei soli due anni del nostro governo, siamo a 106 milioni di euro. Stanziamenti ampliati nell’ultimo assestamento con ulteriori 15 milioni. Numeri che testimoniano che in due anni abbiamo stanziato di più rispetto a tutti i cinque anni precedenti. Detto questo, ognuno sceglie come comportarsi. C’è chi cerca di parlare con atti e chi cerca sempre di parlare dell’avversario, evidentemente non altro da dire».
Le Marche portano ancora le profonde le ferite del terremoto. Forse c’è davvero una distrazione eccessiva sui temi della tutela del territorio. Parte da qui la sua proposta di un’agenzia nazionale. Crede che questa sia una priorità?
«Il tema del governo del territorio è molto serio e ampio e deve partire dall’analisi di quanto accaduto negli ultimi 40 anni: una visione di ambientalismo ideologico, con una mancata pianificazione e un rimbalzo di competenze che ci lascia uno schema frammentato a cui si aggiungono risorse scarse e insufficienti. Ora bisogna intervenire in maniera strutturale, soprattutto su territori come quello marchigiano, ad alto valore paesaggistico ma anche molto fragile. La proposta del Piano nazionale è per creare una risposta strutturata e all’altezza della situazione per la nostra nazione».
Come vede la prospettiva economica delle Marche e dell’Italia in generale?
«È sicuramente la fase più complicata dal dopoguerra a oggi, mi sembra inutile ricordare quanto accaduto solo negli ultimi due anni. Ma i nostri imprenditori hanno sempre mostrato determinazione e forte capacità di reazione. Ora hanno bisogno che le istituzioni diano loro un sostegno reale e tangibile, soprattutto in tema di energia, fisco e semplificazione. Non dobbiamo mettere i bastoni fra le ruote a chi vuole fare, anzi lo Stato deve supportare le imprese perché è solo così che possiamo ripartire».
Il successo elettorale le ha portato via diversi assessori. Il centrodestra ha fatto cappotto nelle Marche nell’uninominale. È più la soddisfazione per il successo o la preoccupazione per il rimpasto?
«Il successo dei nostri assessori è il riconoscimento di una classe dirigente e quindi non può essere mai considerato un problema, ma una opportunità. Sono sicuro che chiunque arriverà al loro posto continuerà sulla strada che abbiamo già intrapreso».
Il Pnrr a che punto è, visto dal suo osservatorio? E sarebbe giusto modificarlo o adeguarlo?
«In questi ultimi mesi molto è cambiato rispetto a quanto è stato varato. Penso sia necessario ragionare sul dare risposte di sistema che possano andare incontro alle esigenze maturate negli ultimi mesi e che si aggiungono a quelle che vengono trattate dal Pnrr, come stanno facendo anche altri Paesi europei».





