Una volta in campagna il massimo era il Landini testa calda, un trattore che ha rivoluzionato il modo di coltivare. Quasi un secolo dopo torna il trattore testa calda e non necessariamente, stavolta, è un dato positivo. Il fronte della protesta si sta dividendo e c’è il rischio che liberi spore che con le giuste rivendicazioni di chi suda la terra non c’entra nulla: anzi. Si temono sul fronte del Cra che vuole sfilare giovedì a Roma fino al Colosseo infiltrazioni da parte di Giuliano Castellino, ex leader di Forza Nuova, che da giorni ha annunciato di voler partecipare con la sua Ancora Italia. E per questo il movimento di Riscatto Agricolo ha preso le distanze. Resta in piedi il nodo degli sgravi fiscali anche se il più stringente è quello dei prezzi all’origine. Ieri pomeriggio c’è stato un incontro definito «distensivo» tra il ministro Francesco Lollobrigida e gli esponenti di Riscatto Agricolo, la formazione che raggruppa diversi comitati in Italia e che ha incassato il successo mediatico della lettura del proprio comunicato dal palco di Sanremo. Lollobrigida ha promesso dopo un incontro durato due ore che è stato gestito dal sottosegretario Patrizio La Pietra l’esenzione Irpef ora fissata al tetto dei 10.000 euro e un tavolo tecnico di confronto sui prezzi. Davide Pedretti – giovane allevatore mantovano che è un dei leader di Riscatto Agricolo – commentando dal suo presidio di Brescia ha detto: «Abbiamo ottenuto, ma non molliamo finché l’accordo non sarà nero su bianco. Anche se a Roma stanno pensando di tornare nei luoghi di origine, una ventina di presidi rimarranno operativi, in Lombardia, in Friuli Venezia Giulia, Campania, Puglia, in Sardegna. Aspettiamo fino al 26 febbraio quando ci sarà la riunione straordinaria della Commissione Ue a Bruxelles, dove si vedrà se le modifiche alla Pac annunciate saranno realizzate (prima fra tutte lo stop all’obbligo di lasciare il 4% dei terreni incolti). L’esenzione dell’Irpef non è il punto forte della nostra protesta, vogliamo che ci paghino il giusto prezzo ai nostri prodotti». Eppure sull’esenzione all’Irpef si concentra il braccio di ferro all’interno della maggioranza di governo. Ieri pomeriggio Lollobrigida, in accordo anche con il ministro per l’Economia Giancarlo Giorgetti ha presentato attraverso il ministro per i rapporti col Parlamento Luca Ceriani in commissione Bilancio l’emendamento al Milleproroghe che aesenta dall’Irpef i redditi dominicali fino a 10 mila euro. All’erario questa misura costa attorno ai 200 milioni di euro ma la platea dei destinatari è molto ampia. Coldiretti stima che ne beneficerebbe un’azienda ogni 9 (387.000 su circa 430.000 interessate dal rincaro Irpef). Matteo Salvini ha riunito i suoi esperti di agricoltura e i capigruppo di Camera e Senato perché intende andare oltre: tiene il punto sul tetto di esenzione a 30.000 euro. Dal ministero agricolo fanno notare che il governo ha già portato a 8 miliardi l’investimento del Pnrr destinato al settore agricolo: 2 miliardi per abbattere le emissioni e circa 850 milioni per favorire l’agro-fotovoltaico che comunque porta un incremento di reddito agli agricoltori. La previsione iniziale era di 4,9 miliardi, ma la decisione di alzare i fondi era stata presa prima delle proteste. Sono gli stessi agricoltori a dire che sul lato fiscale la mitigazione proposta sull’Irpef potrebbe essere sufficiente. Dove non mollano è sulla redditività. Salvatore Fais che è uno dei maggiori leader di Riscatto Agricolo insiste: «Il nostro obbiettivo prioritario resta un tavolo tecnico dove partecipare sempre con il governo. Primo punto per importanza, è quello dei costi dei nostri prodotti. Bisogna lavorare immediatamente su questa cosa». C’è un secondo obbiettivo politico evidente: quello del riconoscimento di Riscatto Agricolo come rappresentante dei campi al di là delle associazioni di categoria. E di certo un altro risultato lo hanno raggiunto: porre la questione al centro del dibattito. Lo stesso ministro Lollobrigida ha risposto a Carlo Calenda che ha bollato come insufficiente l’intervento sull’Irpef sollecitando un’azione comune con la Francia – lì la protesta rimane accesissima – anche in sede europea affermando: «Azione è foriera di suggerimenti che sono sempre utili, se non altro, a sottolineare ciò che il governo sta già facendo. Tra questi, ci sono le verifiche automatiche che scatteranno in presenza di acquisti inferiori al prezzo medio di produzione pubblicato da Ismea. Quanto al rapporto con Marc Fesnau (è il ministro francese) sosterrò la proposta di stoppare le importazioni di prodotti che non hanno i nostri stessi standard». Ma c’è una parte del mondo agricolo che non è affatto convinta. Son quelli del Cra (agricoltori traditi) capeggiati da Danilo Calvani (già uno dei leader dei forconi) che annuncia: «Ci saranno 20.000 persone con mezzi agricoli al Circo Massimo per giovedì alle 15 e da lì ci muoveremo. Un gruppo di nostri trattori partirà in corteo dal presidio di Cecchina e arriveranno nel cuore di Roma. Dovrebbero essere una quindicina di mezzi scortati dalle forze dell'ordine. Quella di dopodomani sarà solo la prima delle nostre manifestazioni. La nostra protesta andrà avanti».
Come previsto, alla fine ci sono arrivati. L’avevano toccata piano (per i loro standard) nei giorni scorsi, sostenendo che la guerra in Israele fosse stata causata dalla «estrema destra». Lia Quartapelle, illustre esponente del Pd, lo ha dichiarato senza mezzi termini: «C’è una cosa che da oggi sarà più chiara a tutti», ha detto, «ed è la natura di Hamas. Hamas è un movimento terrorista e fondamentalista, con ideologia di estrema destra, che prende in ostaggio i civili e che esibisce come trofeo una donna anziana rapita per le strade di Gaza».
Subito le ha fatto eco Giorgio Gori ribadendo analogo concetto: tutto il dolore, tutte le morti, tutti i colpi di mitra sono il frutto avvelenato dell’ideologia di estrema destra. Noi ci siamo permessi di ricavare da queste frasi tutto sommato morbide il vero significato del ragionamento. Per la sinistra italiana è stata tutta colpa dei fascisti. Ieri, puntuale, è arrivata la conferma tramite un articolo del solito fascistologo di Repubblica, Paolo Berizzi, il quale si è precipitato a chiarire che in Italia «nei partiti e gruppi d’ultradestra l’aggressione a Israele fa riemergere l’antisemitismo travestito da antisionismo». Secondo il Berizzi, «da Forza Nuova a Do.Ra, i neofascisti si schierano con i terroristi». Ora, potremmo notare che i due gruppi citati non sono numericamente maggioritari nella cosiddetta estrema destra. E potremmo pure fare presente che nel mondo identitario le posizioni sono in realtà molto più sfaccettate.
Ma in fondo non importa, perché le tesi di Repubblica prescindono totalmente dalla realtà e sono funzionali a un racconto preciso: quello per cui «hanno stato i fascisti». La trovata non è niente male, bisogna riconoscerlo. Perché puntando il dito contro i perfidi fasci la sinistra può agevolmente lavarsi la coscienza e distogliere l’attenzione dal suo passato. Un passato che la imbarazza parecchio. Ci risulta infatti (e certo non soltanto a noi) che nel corso degli anni a sostenere la causa palestinese sia stata certo una parte della destra radicale, ma soprattutto la sinistra, compresa quella istituzionale. Più in generale, anche al di fuori dei confini italiani, i progressisti hanno a lungo flirtato con i movimenti islamici. Un feeling durato anni, che si basava su una sorta di grande fraintendimento: alla sinistra i musulmani andavano bene fin quando recitavano la parte dei migranti vittime di razzismo, molto meno quando esibivano posizioni conservatrici.
In ogni caso, i fatti parlano chiaro. Sin dai tempi della guerra fredda, la maggior parte dei gruppi radicali comunisti, dalla Raf alle Brigate rosse, hanno supportato la lotta palestinese, e in qualche caso hanno stretto rapporti «di lavoro» con i combattenti islamici. Più di recente, pure la sinistra istituzionale non ha trascurato di schierarsi contro Israele. Chi scrive, a metà degli anni 2000, condusse assieme ad alcuni colleghi una battaglia per permettere agli scrittori israeliani di parlare liberamente al Salone del libro di Torino, dopo che una robusta fetta di partiti e movimenti post comunisti aveva organizzato un boicottaggio allo scopo di ridurli al silenzio. Vale la pena, a tale proposito, di citare almeno un altro caso. Fu proprio il Pd a candidare, a Milano, Sumaya Abdel Qader, palestinese di origine, velatissima, proveniente da un mondo che certo non stravedeva per le politiche israeliane. Con lei faceva scambio di effusioni politico-amorose proprio Lia Quartapelle, la stessa che oggi giudica Hamas fascista. Con Sel, ormai oltre un decennio fa, fu candidato Davide Piccardo, oggi direttore della rivista La Luce. È proprio lui, con estrema lucidità e onestà intellettuale, a confermarci che la sinistra, storicamente, ha sempre sostenuto la lotta palestinese. «Sono dispiaciuto che la sinistra italiana, che ha sempre sostenuto le legittime rivendicazioni di indipendenza del popolo palestinese oggi sembro appiattita sulle posizioni di Netanyahu», ci dice. «Mi dispiace pure che, come sulla vicenda ucraina, non si veda alcuna distinzione fra destra e sinistra: Meloni e Schlein hanno le stesse posizioni entrambi i conflitti. Mi pare una involuzione dello scenario politico italiano».
Per quanto ci riguarda, ciascuno ha diritto di sostenere le idee e le visioni che più gli aggradano. Basta avere rispetto della intelligenza degli italiani: che oggi, dopo le atrocità commesse da Hamas, a sinistra provino a rinnegare i propri trascorsi è vergognoso, oltre che patetico. Ed è pure un monito per Israele: da amici così, meglio guardarsi.
Il 10 novembre 1958 nasceva a Roma una delle voci più originali del panorama musicale «non conforme». Che riuscì persino a farsi fare pubblicità sul quotidiano comunista.
Il 10 novembre 1958 nasceva a Roma Massimo Morsello, attivista politico e protagonista di quella che è stata chiamata la «musica non conforme» con uno stile e una poetica di fatto unici per quel genere. Di madre bulgara, emigrata in Italia dopo l'ascesa al potere del partito comunista, Morsello già nel 1975, all'età di 16 anni, aveva cominciato a frequentare le sedi del Fronte della gioventù e del Fuan, rispettivamente organizzazione giovanile e universitaria dell'Msi, seppur entrambe dotate di una spiccata autonomia rispetto al partito. Morsello aveva cominciato a frequentare la sezione «dura» del Fuan di via Siena, a Roma, cominciando nel frattempo a farsi notare anche come cantautore. Al terzo campo Hobbit era stato lui a capeggiare la delegazione che volle attuare una pesante contestazione e irruppe sul palco proprio durante un concerto per leggere un comunicato dalle carceri. Era la rottura simbolica e politica fra il mondo giovanile che cercava una risposta «metapolitica» e quello che sceglieva la via extraparlamentare.
Il 10 gennaio 1979, Morsello è presente a Roma alla manifestazione in cui viene ucciso con un colpo alla nuca Alberto Giaquinto, un giovane di soli 17 anni che morirà di lì a poco. Per quella morte fu condannato un agente di Pubblica Sicurezza per eccesso colposo di legittima difesa. Coinvolto in vari processi legati ai fatti degli anni di piombo, Morsello scelse di espatriare in Inghilterra, dove resterà per molti anni, rivelandosi un capace imprenditore e costruendo una rete anche politica. Insieme a lui c'era anche l'ex dirigente di Terza posizione, Roberto Fiore, con il quale Morsello fonderà Forza nuova.
Nel frattempo, tuttavia, Morsello prosegue anche la sua «carriera» artistica. I suoi album, come detto, si discostano con decisione dal resto della produzione della «musica alternativa», soprattutto per la ricercatezza dei testi, quasi mai didascalici, come invece accade quasi sempre nella musica politicizzata, di destra e di sinistra. Pensiamo solo al suo brano forse più famoso, «Nostri canti assassini», con quell'incipit che riassume la dimensione esistenziale di più generazioni di «esuli in patria»: «Entrammo nella vita dalla porta sbagliata...». O a canzoni come quella dedicata agli esuli politici, «Figli di una frontiera». Anche brani politicamente più espliciti, come quello dedicato al leader fascista belga Leon Degrelle, colpiscono per la ricostruzione delicata e intimistica delle atmosfere dell'esilio madrileno del capo vallone, più che per celebrazioni nostalgiche. Per il timbro di voce e lo stile, Morsello viene quindi definito dai giornali «il De Gregori nero».
Legata alla produzione musicale di Morsello è anche la divertente beffa messa in piedi contro il quotidiano comunista Il manifesto. Morsello riuscì infatti a far pubblicare sul giornale una pubblicità del suo disco La direzione del vento. Pubblicizzato come autenticamente rivoluzionario, con la messa in risalto della posizione di solidarietà al popolo palestinese e alla causa anti Maastricht, il quotidiano di sinistra dedicò al disco una mezza pagina interna. Il giorno successivo però, su segnalazione di alcuni lettori, il giornale si rese conto di quanto accaduto e pubblicò un articolo di scuse ai lettori.
Nella seconda metà degli anni Novanta, dopo che gli venne diagnosticato un cancro non più curabile, Morsello si sottoporrà alla controversa terapia del professor Di Bella, a cui dedicherà la canzone «Buon anno Professore». Nell'aprile 1999, Morsello, nonostante le condanne e per via delle sue precarie condizioni di salute, poté rientrare in Italia senza venire incarcerato, usufruendo dei benefici della legge Simeone. Morirà a Londra il 10 marzo 2001 dopo una lunga malattia.
Si accende, Beatrice Venezi. È appassionata quando dirige orchestre in tutto il mondo e pure quando parla di sé e delle sue idee. C’è chi non gliele perdona. Si dice stanca di «questa Italia della mistificazione», ma pure non getta la spugna: «Andrò a votare, certo, spero che le cose cambino». La raggiungiamo al telefono tra un viaggio di lavoro e un altro. Classe 1990, è tra le poche donne al mondo a dirigere orchestre a livello internazionale e ha ricevuto numerosi riconoscimenti. Nelle ultime settimane ha fatto danzare la sua bacchetta in Alto Adige, a Paestum e Catania e pure in Giappone. La aspettano teatri italiani e francesi. Oltre a qualche nuovo progetto che ancora non ci svela.
I retroscena politici nelle scorse settimane la davano sicura candidata con Fratelli d’Italia. E invece…
«Le posso dire che nessun giornalista mi ha mai chiamato per chiedere conferma? E che anche quando ho messo a punto un comunicato per smentire non si sono riportate per intero le mie parole? Mi viene il dubbio di non potermi fidare più di nessun giornale: è questo lo stato di salute dell’informazione italiana?».
Come è andata davvero?
«Sono lusingata del fatto che qualcuno abbia pensato a me. Semplicemente, ho confermato che preferisco continuare a fare il mio lavoro, essere utile al mio Paese così».
La politica di palazzo non l’affascina?
«Non posso a oggi escludere nulla per il mio futuro. Ma occuparsi di politica nel senso più alto del termine è anche portare la cultura italiana nel mondo, guardare al bene comune, no?».
Di cultura si parla poco, in questa campagna elettorale.
«Ce ne sarebbe invece bisogno. È un Paese ammalato di gerontocrazia proprio a partire dalla cultura. In questi giorni si parla poi tanto di questione femminile, ma a sproposito…».
I non appassionati di musica la conobbero dal palco di Sanremo. Disse allora che preferiva essere chiamata «direttore», o «maestro», e non «direttrice». Fu bufera.
«Pensi che ancora me lo rinfacciano».
Ha molti nemici?
«Tanti odiatori seriali, sì. I classici leoni da tastiera. Ma di recente ho deciso di ricorrere a una querela verso una persona che si professa critico musicale ma che non mi ha mai visto dirigere. E si sono calmati un poco».
Cosa le dicono?
«Di tutto, davvero. Quel che però non accetto è l’attacco sul mio lavoro: mi accusavano di non aver mai diretto opera, anche se il mio curriculum parla da solo».
È fresca di una nomina importante: nuovo direttore artistico di Taormina Arte. Le cronache locali si sono infuocate, il sindaco ha parlato addirittura di «sopruso e cafonata».
«È la solita diatriba politica: in vista delle elezioni ormai ci si attacca a tutto».
Una tessera di partito lei non la ha.
«Mai avuta, certo. Ho solo esposto le mie idee. Ma non serve che le dica come funzionano le cose in Italia: ogni pretesto è buono per far polemica anche quando non necessario, e le nomine sono sempre politiche, in definitiva. Il fatto che i nomi che girano da un teatro all’altro sono sempre gli stessi, nonostante i danni anche in termini di perdite economiche… la dice lunga».
Una lobby?
«Si mira a mantenere un certo tipo di interessi, come su tutto. Così spesso le nomine non sono basate sul valore e sul merito, o sulla visibilità che si vuol dare a un prodotto. Ci tengo a Taormina, è una bella sfida per me, la mia prima volta alle prese con una direzione artistica. La città fu perla del Mediterraneo, va rilanciata senza perder di vista il rapporto con il territorio».
Accanto al suo nome si citano di recente principalmente due cose. Una è che ha partecipato alla convention milanese di Fdi. L’altra è suo padre.
«Ecco, mio padre. E qui volentieri le rispondo anche se non ne ho mai parlato, perché davvero si è passato il segno. Si scrive di me come “figlia di un dirigente di Forza nuova”, come se questo fosse un peccato originale che si tramanda di padre in figlio. Mio padre ha tutto il diritto di pensare e di agire politicamente secondo le sue più profonde convinzioni. Questo, peraltro, garantito dalla “più bella Costituzione del mondo” che però viene tirata in causa solo quando fa comodo. Attribuirmi la doppia colpa di essere figlia di mio padre e di aver partecipato alla convention racconta molto di come vanno le cose in questo Paese. Io ringrazierò sempre papà per avermi insegnato il pensiero critico».
Non è stato un padre rigido?
«Per niente. E con i miei genitori ho viaggiato molto e questo mi ha permesso di confrontarmi con quel che c’è oltre confine. Papà fu anche animatore del primo circolo della città legato al cinema: tutti in famiglia siamo sempre stati innamorati dell’arte e della cultura, con grande curiosità. Insomma, l’esatto contrario di quel che viene descritto oggi come “fascismo”. Bisognerebbe piantarla con questo spauracchio».
Di questo si parla invece molto. Sarebbe in arrivo un’onda nera…
«In primis, il fascismo è finito, e non esistono partiti fascisti in Italia perché sarebbe incostituzionale, non sarebbero in Parlamento. Parte del Paese è ostaggio di chi si professa democratico ma lo è solo se la pensi allo stesso modo. E sistematicamente denigra, sminuisce, ridicolizza e offende. Le strumentalizzazioni le ho vissute sulla mia pelle».
Come?
«Quando ero al liceo artistico - storicamente di un certo orientamento politico, perché è inutile nascondersi dietro a un dito, così stanno le cose - mio padre si candidò alle comunali a Lucca. Il giorno dopo la mia scuola fu tappezzata da manifesti antifascisti che riportavano il mio nome. Erano scritti in modo così puntuale e preciso che poi si scoprì che non erano stati gli studenti a scagliare l’attacco, ma insegnanti e tecnici del laboratorio d’informatica».
Ci soffrì?
«Guardi, un po’ la mia memoria ha cancellato, forse volontariamente. Del disagio però mi ricordo bene, sì. La cattiveria degli insegnanti che mi misero nel mirino per una questione politica nei confronti di mio padre, per mesi. La maturità l’ho fatta con un commissario ministeriale seduto accanto a me a garanzia di imparzialità, dopo un esposto al ministero».
La politica la accompagna insomma fin dai tempi della scuola.
«Forse c’è chi avrebbe preferito che io avessi genitori da centro sociale? Oggi parlano di mio padre come fosse una vergogna. E invece sa che le dico? Che mi vergognerei se avessi avuto genitori che si fumavano gli spinelli. O una madre come la Cirinnà, che pubblica la foto “Dio, Patria e famiglia, che vita di merda”, che invece sono proprio i miei valori».
Laura Boldrini scrisse che il suo voler essere chiamata «maestro» al maschile denotava poca autostima. Se ora dice di essere per Dio, patria e famiglia chissà che diranno…
«Al di là del fatto che per stare sui podi internazionali su cui mi esibisco ci vuole parecchia autoconsapevolezza e sicurezza, è evidente che c’è chi vorrebbe imporre una dittatura culturale. A cui io sinceramente non voglio sottostare. È una continua pseudo-moralizzazione a uso e consumo di un’ideologia. Non mi vergogno dei miei ideali. Mi vergogno di altro».
Ad esempio?
«Ad esempio, di uno Stato che punta sull’assistenzialismo e non incentiva il lavoro. O di chi lucra sul fenomeno dell’immigrazione o usa la parola integrazione per riempirsi la bocca. Come certe pseudo femministe, che da buon braccio armato dell’ideologia accusano di propaganda fascista chi parla di sicurezza delle donne. Vogliamo forse dire che se una donna è aggredita da qualcuno, sia di colore o no, non è da difendere? Sono stanca di chi si arroga il diritto di dare patenti di femminismo».
Quando poi per la prima volta a Palazzo Chigi potrebbe andare una donna…
«Chiunque ci andrà, avrà da fare un lavoro mastodontico. Io mi auguro un cambio di tendenza, ma i problemi in Italia sono tanti. Assurdo però è basare la campagna elettorale su accuse di fascismo e maschilismo, quando l’altro giorno ero alla guardia medica e un giovane dottore, arrabbiatissimo, mi ha raccontato di essersi dovuto portare da casa siringhe e medicinali. Sono questi i veri temi. Altroché le discussioni ridicole e ipocrite sul video dello stupro».
Al voto manca poco, si cerca di convincere gli indecisi.
«Ma non si deve puntare sull’ignoranza delle persone. Il 30% dei ragazzi usciti dalle scuole medie non sa leggere e comprendere un testo. Nella scuola italiana gli insegnanti di musica vengono messi a fare il sostegno con doppio danno verso i ragazzi che hanno bisogno e verso chi ha studiato una vita. Vogliamo parlare di cose serie?».
Lei ha un’altra colpa: quella di esser bella.
«Il mio aspetto fisico mi è stato d’ostacolo, non d’aiuto, in una società che non accetta che una donna possa avere più qualità, essere bella e capace, o che un artista sia bravo a tante cose insieme. All’estero non è così: in Inghilterra o altri Paesi ho visto un atteggiamento diverso. La donna impegnata che ancora sbandiera “io sono mia” in Italia cerca di imporre il suo modello culturale».
Tra poco esce il suo terzo libro, L’ora di musica, un invito alla bellezza e all’armonia, per Utet.
«Sarà in libreria a settembre, sì. La scrittura per me rappresenta un mezzo di divulgazione. Vorrei avvicinare alla musica le persone stimolando la loro curiosità e far scoprire il valore della tradizione italiana. Il libro è concepito come una serie di miniature che raccontano diversi aspetti della musica classica: dagli autori, agli strumenti, alla terminologia».
Tra pochi giorni gli italiani saranno chiamati a votare per il referendum sulla giustizia. Un passaggio alle urne che tocca alcune questioni fondamentali di umanità e di civiltà. Una di queste riguarda la detenzione preventiva a cui ogni anno sono sottoposte troppe persone, innocenti compresi. Anche chi innocente non è, in ogni caso, avrebbe diritto a un processo rapido. Non solo: quando viene commesso un reato, è interesse di tutti individuare il vero responsabile quanto prima. Purtroppo c’è chi resta in carcere mesi e mesi prima di ottenere un verdetto.
È il caso di un uomo che l’anno scorso è stato per giorni sulle prime pagine dei quotidiani, suscitando un putiferio di enormi proporzioni. Stiamo parlando di Roberto Fiore, il fondatore di Forza Nuova, accusato di essere fra coloro che, a ottobre 2021, hanno assaltato la sede romana della Cgil durante una manifestazione contro il green pass. Non possiamo sapere se Fiore sia colpevole o innocente (lui si proclama innocente). Sappiamo però che, dall’anno scorso, è privato della libertà. Dopo aver imperversato sui media per alcune settimane, del suo nome si sono perse quasi del tutto le tracce. La sua voce non si è più sentita. E la vicenda giudiziaria che lo riguarda ha ancora contorni sfuggenti. Abbiamo comunicato con Fiore tramite Vincenzo Di Nanna e Nicola Trisciuoglio, suoi avvocati difensori. Non per fargli gridare una verità parziale. Ma per cercare di capire che cosa, ancora, non torni in un caso che ha suscitato generale indignazione e di cui non si sa abbastanza.
«Tra pochi giorni inizia il nostro nono mese di detenzione, abbiamo passato 8 mesi in carcere, di cui poco più di 4 a Poggioreale e il resto chi a Rebibbia e chi, come me, a Frosinone. Oggi molti sono ai domiciliari e due ancora in carcere», racconta Fiore. Colpevole o no, nove mesi di detenzione preventiva non sono pochi. E non sempre sono stati trascorsi con tutti i comfort. «Il trasferimento a Poggioreale viene fatto perché non ci sarebbe stato posto a Roma», sostiene Fiore, «quindi siamo stati messi in celle da 10 persone in isolamento rispetto all’esterno, in condizioni tragicomiche, al punto da impedire ogni contatto con Roma e la possibilità di una reazione difensiva immediata». Se all’imputato Fiore, ovviamente, interessano molto le condizioni della detenzione, agli italiani tutti importa soprattutto l’esito del processo che coinvolge alcuni esponenti di Fn, indicati dalle autorità come responsabili dell’assalto alla sede della Cgil. Su questo punto, Fiore insiste a respingere le tesi dell’accusa. «Agli eventi che sono al centro del processo», dice, «hanno assistito oltre 3.000 persone (parte delle 80.000 che avevano gremito piazza del Popolo), le quali hanno potuto vedere subito, con i loro occhi, che non si è compiuta alcuna devastazione. Coloro che entrano nella Cgil sono persone non riconducibili al gruppo oggi detenuto: persone che entrano e non compiono alcun atto di violenza o danneggiamento. Voglio far notare che sono state identificate 29 persone che sono entrate nella Cgil. A parte me, che entro in accordo con i funzionari della polizia per far uscire le persone onde evitare il peggiorare della situazione, nessuna di queste (giustamente) è detenuta».
La tesi di Fiore è piuttosto chiara: Forza Nuova con i danneggiamenti non c’entra. Che però ci sia stato un attacco alla sede del sindacato, e che una folla sia entrata sfondando un cordone di agenti (non troppo nutrito, a dire il vero), rimane un fatto. Come si è arrivati a tanto? Chi ha compiuto i danneggiamenti? Fiore - e non stupisce - sostiene che esista una volontà precisa di colpire il suo movimento e di criminalizzare la protesta. «Tutti i provvedimenti restrittivi riguardano Fn e ciò avviene nel tentativo di dipingerla come l’organizzazione che stava dietro a tutto. Noi non solo non volevamo l’assalto, tanto che dal palco si è parlato di “assedio”, ed è evidente da alcuni fatti che noi volevamo solamente manifestare pubblicamente di fronte alla sede».
A riguardare oggi le immagini di quel giorno non si nota propriamente un atteggiamento gandhiano. Anzi: gli animi appaiono incendiati, e il clima non è molto sereno. È pur vero che sullo svolgimento dei fatti rimangono ombre. È stata proprio la Verità, nei mesi scorsi, a mostrare alcuni documenti ufficiali dai quali emergeva come i manifestanti fossero stati di fatto scortati fino alla sede del sindacato dalle forze dell’ordine.
Fiore, tramite avvocati, fornisce una ricostruzione di parte ma dettagliata. «C’era un accordo con la polizia confermato dalla prima relazione di servizio del vice questore della Digos di Roma, Silvestri, che già aveva, per conto del questore, permesso nelle precedenti manifestazioni di portare il corteo di fronte alla Rai o in altri luoghi simbolo. La manifestazione in questione era la sedicesima, non la prima…», dice il fondatore di Fn. E prosegue: «Le forze dell’ordine, d’accordo con noi nella concessione di un corteo dinamico fino alla Cgil, non sono andate, com’era logico che fosse, a presidiare il sindacato, ma hanno lasciato - a fronte di almeno 3.000 persone - solamente 17 carabinieri. Dopo gli incidenti, visibili nei filmati, si svolge effettivamente un megafonaggio di 10/15 minuti a conferma del fatto che quello era l’obiettivo. Nessuno, nemmeno nei filmati del processo, riporta questo fatto che denota la natura politica della manifestazione».
Questa dunque è la versione di Fiore: i manifestanti No pass volevano semplicemente manifestare di fronte alla sede del sindacato, dove erano giunti in totale accordo con le forze dell’ordine. Una ricostruzione che però è stata smentita con convinzione da Luciana Lamorgese in Parlamento. «Il ministro Lamorgese mente sapendo di mentire perché quando ha parlato in Parlamento aveva già a sua disposizione ben tre annotazioni di servizio che affermavano tutte chiaramente, e senza che si possano avere dubbi al riguardo, che il corteo era stato autorizzato», sostiene Fiore. Anche la Digos, nel corso del processo, ha però negato l’esistenza di accordi. «Già pochi giorni dopo l’intervento della Lamorgese», dichiara Fiore, «la Digos ha cambiato versione e ha affermato che il corteo non era stato autorizzato. Nell’udienza del 6 maggio è esplosa la contraddizione: il presidente del tribunale ha usato parole severe nei confronti del predetto dirigente della Digos, aprendo la possibilità di una sua incriminazione per falsa testimonianza. La Lamorgese dice il falso perché, oltre alla relazione, ci sono filmati ed è evidentissimo che il corteo procede pacificamente all’interno di Villa Borghese con il consenso della polizia e così dichiarano anche i funzionari della Digos».
Non c’è però soltanto l’aspetto giudiziario della vicenda. C’è anche quello politico. Ed è difficile sostenere che quanto avvenuto alla sede della Cgil sia stato opportuno. Anzi, con tutta probabilità quei fatti hanno contribuito a screditare pesantemente la causa dei No green pass. Fiore, sul punto, non si smuove. «Io entro nella sede Cgil in accordo con le forze dell’ordine per raccogliere le persone che stavano dentro e portarle fuori onde evitare che commettessero azioni illegali», ribadisce. «A questo proposito ricordo che sono da 50 anni in politica e so perfettamente che la mia azione politica sarebbe stata compromessa da un’azione violenta, non sono scemo! Quando ci si avvicina alla sede e mentre si concorda con la polizia di situarci fuori dalla Cgil, un gruppo di persone cerca di entrare dentro e dopo poco entra effettivamente dentro. Ma attenzione: secondo l’accusa il reato di devastazione si compirebbe all’interno della Cgil, con la distruzione di alcune suppellettili e di alcuni computer. Nessuno (qui gli addetti alle identificazioni sono chiari) viene riconosciuto mentre compie danni agli oggetti. A chi dice che è stato controproducente l’attacco alla Cgil, rispondo che il 9 ottobre è stata una giornata straordinaria, minata solo in parte dall’operazione, in stile Ufficio affari riservati, che ha deciso che le cose non potevano andare così. Il movimento di popolo doveva essere criminalizzato e Forza nuova doveva esser sciolta. Oggi ci troviamo in un processo che ha già avuto una svolta clamorosa e che rischia di avere ulteriori svolte; sul banco d’accusa finiranno la Lamorgese e le forze di regime che hanno permesso questa operazione, che però non scalfisce il cuore degli italiani».
Fiore non ha dubbi: esiste un complotto contro Fn. «È scandaloso che tutto il Parlamento, salvo un voto contrario, si sia espresso per il nostro scioglimento», dice. «È una ferita alla verità e alla enorme quantità di persone che erano lì, oltre che ai diritti di migliaia di militanti e simpatizzanti di Fn che non si rimarginerà facilmente. Ma Fn non si è sciolta e sta superando adesso la preoccupazione legittima di tanti che hanno temuto di subire la scure repressiva e un eventuale scioglimento che oggi è invece assolutamente da escludere».
Ciascuno può farsi un’idea sulle affermazioni di Fiore e sulle sue posizioni politiche. Ma un’idea chiara vorremmo averla anche su quanto accaduto alla sede della Cgil e sulla gestione dell’intera operazione da parte delle istituzioni. Fiore, nel frattempo, resta privo della libertà. Noi veniamo privati di una verità certa sui fatti del 9 ottobre.






