(Totaleu)
Lo ha detto l'eurodeputato di Fratelli d'Italia Paolo Inselvini alla sessione plenaria di Strasburgo.
Lo ha detto l'eurodeputato di Fratelli d'Italia Paolo Inselvini alla sessione plenaria di Strasburgo.
Francia e Spagna richiudono il timido spiraglio aperto dall’ammissione della Von der Leyen («Così favoriamo la Cina») e impongono di rispettare la data del 2035 per il «tutto elettrico». Una condanna a morte per il settore.
Non fai in tempo a pensare che rallentando i progetti green la Von der Leyen ne abbia combinata una giusta, che l’Europa ti riporta subito alla triste realtà. Il giorno dopo la lettera, zeppa di contraddizioni e omissioni, con la quale però il presidente del governo Ue annunciava una revisione anticipata, entro fine anno, del regolamento sulle emissioni di CO2 per le auto e apriva a e-fuel e biocarburanti avanzati, si è trasformato nella fiera dei distinguo.
Il primo, il più pesante, è arrivato da Francia e Spagna. I due Paesi hanno chiesto di aggiungere un punto di discussione all’agenda del Consiglio Ambiente Ue. Un punto dirimente: l’obiettivo 2035 di emissioni zero per l’automotive con l’uscita dal motore a combustione interna non si tocca. «Questa decisione, che ha orientato investimenti industriali per decine di miliardi di euro in Europa dal 2023», si legge nel testo visionato da Public Policy, «non deve essere rimessa in discussione. Il futuro dell’industria automobilistica europea sarà elettrico». Poi certo si apre a elementi di flessibilità, ma il succo del discorso resta che la deadline al 2035 non può essere barattata con nessuna altra concessione.
Motivo? Secondo Parigi e Madrid, senza sostituire progressivamente i veicoli termici con quelli elettrici l’obiettivo della neutralità climatica resterà una chimera. Anche perché Sánchez e Macron restano convinti che l’auto elettrica continui a rappresentare un’opportunità economica. Dalla quale dipende la prosecuzione dei più importanti progetti industriali, modello gigafactory.
Dichiarazioni che potevano avere un senso (in quanto non confutate dalla realtà) forse tre anni fa, quando, nel pieno del furore ideologico ambientalista non ci si era ancora resi conto della tragedia economica nella quale il Green deal stava trascinando l’Europa. Da allora c’è stato il crollo delle produzioni. Tutti i principali player del settore, con qualche distinguo, Renault ha sofferto un po’ meno, sono precipitati. I progetti, tipo giga-factory di Termoli, sono stati abbandonati e le vendite delle elettriche hanno fatto registrare qualche flebile sussulto a fronte della scossa che in molti vaticinavano. Tutto questo mentre Stellantis «alleggeriva» di forza lavoro e nuovi modelli gli stabilimenti italiani, e la Germania provava a riconvertire la sua industria sul riarmo. Insomma un cataclisma. Eppure Spagna e Francia parlano di opportunità economica.
Da una parte perché la Spagna è l’emblema, con il governo socialista di Pedro Sánchez e la super-vice presidente Ue, Teresa Ribera, dello spirito del Green deal. E dall’altro in quanto la Francia, che con l’accordo di Parigi ha dato il là a tutto il processo della transizione ambientale, ha risentito meno, per diversi motivi, dei contraccolpi della svolta ecologica. E dalle difficoltà altrui trova giovamento. Niente di nuovo sotto il cielo di Bruxelles. Con l’Unione che nei momenti che contano puntualmente si spacca sulla base degli interessi dei singoli Paesi. E non solo quelli.
Perché ancor più paradossale appariva ieri la presa di posizione di Christine Lagarde. Il presidente della Banca Centrale europea, che quando si tratta di fornire un assist a Parigi si fa trovare sempre pronta, ieri si è lanciato nell’ennesimo peana per le rinnovabili.
Alla Conferenza sul Clima organizzata dalla Banca centrale di Norvegia ha indossato l’elmetto verde e ha usato i toni enfatici delle occasioni che contano. «Ciò che fai fa la differenza», ha sottolineato citando l’antropologa Jane Goodall, scomparsa di recente, «e devi decidere quale differenza vuoi fare». «Sono sicura», ha spiegato, «che l’Europa sceglierà saggiamente sottolineando che la recente crisi energetica europea ha rivelato una dura verità: la nostra dipendenza dai combustibili fossili importati non è più sostenibile. L’acuirsi della crisi climatica rende questa lezione ancora più chiara. Le energie rinnovabili rappresentano la strada più chiara per ridurre al minimo i compromessi tra gli obiettivi della politica energetica in termini di sicurezza, sostenibilità e convenienza».
Endorsement alle rinnovabili che avrebbe, forse, avuto un senso qualche anno fa, ma che oggi è contraddetto dalla realtà. La realtà della stessa Spagna che seppur con tutti le sue peculiarità verdi dimostra come di sole rinnovabili (basta pensare ai blackout e al problema dell’interconnessione delle reti) non si vive. E dell’esplosione della Cina che avendo il monopolio sulla maggior parte delle materie prime necessarie alla transizione ora può fare il bello e il cattivo tempo.
L’Europa si è ingabbiata con le sue mani. E per uscire dalle sue galere avrebbe bisogno di una svolta. Ma questo importa poco ai singoli Stati, vedi Francia e Spagna, e ancor meno alla Von der Leyen, che a parte qualche letterina isolata ancora ieri parlava di «sfide più grandi rispetto a un anno fa (crescita esponenziale dell’intelligenza artificiale, dazi, conflitti ndr) per cui bisogna mantenere la rotta nell’attuazione del rapporto Draghi. Ma deve essere un Draghi plus». Lo stesso Draghi che un mese aveva ribaltato l’Europa perché il suo programma era rimasto lettera morta.
L’argomento non è affatto nuovo, ma è ritornato alla ribalta a seguito di un recente editoriale della prestigiosa rivista medica internazionale British medical journal, in cui si ripropone, per motivi ecologici, secondo i canoni dell’ideologia green, di abbandonare le tradizionali pratiche di sepoltura o cremazione dei defunti, a favore di pratiche di «compostaggio» del cadavere. Di che cosa si tratta? Il compostaggio è una tecnica utilizzata per trasformare le sostanze organiche in «compost», un prodotto utile come fertilizzante della terra. In pratica, si tratta di un metodo per riciclare gli scarti organici - come avanzi di cibo, scarti di giardino, carcasse di animali - attraverso un processo di decomposizione naturale a opera di micro-organismi (batteri e funghi), con fermentazione aerobica. Gli impianti di compostaggio funzionano «imitando» la natura, accelerando cioè i processi di degradazione, in anidride carbonica, acqua e sostanza organica stabilizzata. In pratica, la proposta è di trattare i nostri defunti come «materiale organico di scarto», utilizzandoli come fertilizzanti. Con l’aggiunta di perseguire il «nobile» obiettivo di un maggiore rispetto per l’ambiente: meno anidride carbonica, niente inquinamento, minor consumo di legno (per le bare) e quindi rispetto per le piante e le foreste, e uso razionale del terreno. Basta cimiteri!
Ma non possiamo fermarci qui. Già spunta la proposta di un trattamento ancora più «green» e radicale: l’«acquamazione», detta anche «biocremazione in acqua», già utilizzata nel 1992 per eliminare i resti degli animali infettati dal «morbo della Mucca pazza». Consiste in una pratica di «riduzione» del cadavere tramite immersione in acqua, in apposito macchinario: la salma viene immersa in una soluzione di acqua e idrossido di potassio, a più di 150 gradi centigradi (idrolisi alcalina), per quattro ore. Al termine, i tessuti molli si liquefanno, mentre le ossa- opportunamente tritate - possono essere raccolte in una piccola cassetta da cremazione. La parte liquida viene utilizzata come fertilizzante. È piuttosto costosa - circa 6.000 dollari - ma già si sta lavorando per ricavarne un vantaggio economico non indifferente: utilizzare il carbonio prodotto per produrre diamanti artificiali, accattivandosi la simpatia del cliente con uno slogan di grande impatto emotivo «un diamante è per sempre!».
Ancora una volta, ci troviamo di fronte a pratiche figlie di una cultura nihilista e materialista, totalmente immanente, che considera la persona umana un semplice accidente biologico, oltretutto inquinante, che può riscattare e riabilitare il senso della vita grazie alla distruzione e trasformazione del corpo in «compost» fertilizzante. Nessuna trascendenza, nessun «al di là», nulla di ultraterreno, nessuna memoria di fronte a una tomba. Resta soltanto la ben magra «soddisfazione» di aver fatto crescere un po’ di erba in un campo e di aver sfamato qualche mucca o capra. Che tristezza! Un soffitto di cemento che nasconde il cielo; vuoto soffocante e tenebre insopportabili, se anche solo pensiamo come ogni cultura, in ogni tempo e in ogni luogo, ha considerato il rito funebre come un momento fondamentale dell’esistenza umana, al punto che, storicamente, abbiamo attribuito la nascita della civiltà, alla costruzione delle prime necropoli.
Stiamo vivendo un vero e purtroppo tragico cambiamento d’epoca, connotato da segnali terribilmente preoccupanti: la vita umana considerata come una merce, che si può manipolare a piacimento, fare e disfare, e il corpo non è altro che un ingombrante fardello di ossa e muscoli di cui liberarsi quando e come si vuole. E pensare che il corpo è proprio lo strumento attraverso il quale cresce e si manifesta la persona: è la condizione necessaria e sufficiente perché esista la persona e con lei il caleidoscopio della sua esistenza. Da qui la dignità del corpo - che non è idolatria del corpo, senza sesso e senza anima - che invoca rispetto e dignità. Siamo nel cuore dell’estate, alla vigilia della Festa della Assunzione di Maria in cielo, con il corpo; come con il corpo il Redentore è risorto e asceso al cielo: il nostro corpo ha una dignità che ci trascende e attende la sua piena realizzazione in cielo. Con il corpo!
Lo ha dichiarato l'eurodeputato di Fratelli d'Italia durante il dibattito sulla Pac (Politica agricola comune) all'Eurocamera di Strasburgo.
Guarda caso il giorno in cui l’Onu allarmata per il caldo tropicale ricorda a tutti noi che vivremo una vita inaccettabile e ricca di privazione per via della crisi climatica, Bruxelles lancia la nuova strategia che però si basa sempre sul medesimo schema: quello delle tre carte. La commissaria e vice presidente Teresa Ribera assieme al collega per il clima Wopke Hoekstra hanno presentato le linee guida aggiornate alla transizione green e alla lotta contro le emissioni di CO2. Formalmente si tratta di spostare l’obiettivo per l’Unione di ridurre del 90% le emissioni nette di gas a effetto serra rispetto ai livelli del 1990 alla data del 2040. Ci sarà un appuntamento intermedio fra cinque anni, data in cui il calcolo del taglio dovrebbe arrivare al 55%, mentre - assicurano i tecnocrati di Bruxelles - si delinea «una maggiore flessibilità per raggiungere tale obiettivo, in vista del perseguimento di un’economia europea decarbonizzata entro il 2050». Ci saranno sistemi di compensazione delle emissioni, aperture alla neutralità tecnologica, sistemi intermedi per alleggerire le tasse e le imposte (vedi lo schema di Ets), ma in realtà dietro la spolverata di marketing la Commissione non cambia assolutamente strada. Mantiene intatte le norme che comporteranno nel 2027 imposte sulle auto non elettriche e soprattutto un percorso di interventi sulle case con l’idea di renderle green. Su queste colonne ci siamo soffermati infinite volte sul pericolo di un iter così ideologico e il fatto che venga a parole annacquato non deve far cadere nessuno nel tranello. Il problema, che è anche la follia, di fondo resta intonso. Non c’è alcuna valutazione ex ante sull’impatto che le nuove norme avranno sul futuro dell’industria europea, sull’occupazione, sull’inflazione e quindi sulla capacità di produrre ricchezza.
Basti pensare che ieri, quando i due commissari sono apparsi per la conferenza stampa, non è stato fatto alcun accenno al comparto dell’automotive. Le quattro ruote, tolte le colpe dei produttori, si trovano in mezzo al guado. Prima spinte a una transizione elettrica fuori da ogni logica e ingolosite da incentivi e adesso costrette a stare in stand by. Con multe per le emissioni soltanto rimandate e senza alcuna indicazione su quale tecnologia l’Europa dovrebbe abbracciare per provare almeno minimamente a fare concorrenza ai colossi Usa e cinesi. Nulla di tutto ciò. Non a caso ieri qualche voce un po’ saggia si è alzata. Il portavoce di Ecr alla commissione Ambiente dell’Europarlamento parla esplicitamente di deindustrializzazione. Concetto ribadito ieri in pieno anche da Carlo Fidanza. Ma anche Forza Italia sembra non starci. «La tutela dell’ambiente è un principio nel quale Fi crede moltissimo, la decarbonizzazione rappresenta oggi innanzitutto un dovere morale. Ma, come abbiamo sempre detto», ha spiegato ieri il portavoce Raffaele Nevi, «gli obiettivi di riduzione delle emissioni devono essere sostenibili dal punto di vista economico e sociale. Bisogna essere molto attenti, soprattutto in questo momento storico, a non indebolire il nostro sistema industriale e produttivo in generale e avere chiarezza sulle risorse disponibili per accompagnare questo percorso». In altre parole: la Commissione europea che fissa la diminuzione delle emissioni del 90% al 2040 «senza una valutazione di impatto industriale e senza la dovuta flessibilità ci vede totalmente contrari», conclude Nevi.
A stroncare l’ennesima follia Ue è l’intera industria siderurgica. Eurofer ieri ha diffuso una nota durissima basata su numeri e buon senso. «Per la decarbonizzazione», osserva l’associazione, «l’industria siderurgica europea sta già facendo la sua parte, ma manca ancora un business case valido per la transizione. Per consentirla, l’Ue deve attuare il piano d’azione per l’acciaio e i metalli in modo molto più deciso, garantendo una protezione commerciale altamente efficace contro la sovraccapacità globale, l’accesso a energia e rottami a basse emissioni di carbonio competitivi a livello internazionale e un Cbam (Carbon Border Adjustment Mechanism, ndr) a tenuta stagna». Cioè che non penalizzi solo le imprese con sede nell’Ue. «L’industria siderurgica europea», sottolinea il direttore generale di Eurofer Alexander Eggert, «sostiene l’obiettivo di neutralità climatica ma solo se riceverà un sostegno tempestivo ed efficace». Un dettaglio che viene però omesso da Eurofer. Non si può andare avanti a sussidi senza piani industriali in grado di produrre margini e impiegare operai. Altrimenti la strada dell’automotive sarà un copione che verrà riproposto agli altri settori. Inoltre, non è possibile che Bruxelles non comprenda il cambiamento in atto tra Usa e Cina. La rivoluzione che sta attraversando il Medio Oriente e l’India. Noi europei saremo sempre più piccoli e incapaci di pesare sulle scelte che saranno coordinate tra i colossi e il Sud globale. A questo punto o siamo di fronte a una ideologia che si auto alimenta fino all’annientamento, oppure c’è malafede. Ci sono forze esterne che si infilano nei gangli decisionali di Bruxelles e manovrano leve a discapito della nostra industria per trasformare il Vecchio Continente in un grande mercato fatto solo da consumatori.

