il cappio si stringe attorno a Elly Schlein. Che nei pressi della segretaria tirasse una bruttissima aria l’aveva già fatto capire, prima della piazzata, il solito Paolo Mieli, cioè l’uomo che ogni volta si assume il compito di ricordare al Partito democratico da quali poteri dipenda. Quando, dopo circa un annetto di guerra in Ucraina, una frangia dei dem tentò di portare al centro della discussione il tema della pace, subito Mieli intervenne a ribadire che la linea da tenere era quella sancita nel 2022 da Enrico Letta: si combatte fino all’ultimo ucraino. La settimana passata, invece, l’editorialista del Corriere della Sera ha colto l’occasione per biasimare Elly e le sue tentazioni antibelliciste (molto superficiali, certo, ma già così è troppo). «Dall’esperienza passata della Meloni, Schlein avrebbe dovuto apprendere che, quando si è all’opposizione, sulle questioni di principio - come sono ad ogni evidenza quelle connesse a Putin, Trump e Zelensky - si tiene duro», ha scritto Mieli. «È così che ci si candida a guidare un futuro governo. Stavolta l’ha salvata in extremis Stefano Bonaccini». Come a dire: Schlein non è all’altezza, non può aspirare a una futura presidenza del Consiglio. Che questo pensiero sia molto diffuso, soprattutto nei salotti che contano, lo confermano almeno due indizi. Il primo vale quello che vale, e cioè poco: trattasi dell’opinione di Carlo Calenda. Tuttavia il ragionamento del capetto di Azione è interessante. «Credo che alla fine il Pd si spaccherà. I voti di politica estera diventeranno sempre più frequenti ed Elly Schlein non potrà andare avanti a gestire il partito con i “ma anche”. L’indecisione della segretaria del Pd è pari a quella di Giorgia Meloni», dice Calenda al Corriere della Sera. E insiste: «Si aprirà un grande spazio al centro. I prossimi due anni saranno difficilissimi da un punto di vista economico, noi cerchiamo di proporre soluzioni ma sono molto distratti tutti a cominciare da Schlein e Meloni. Quindi io credo che si arriverà con un governo logorato e con l’opposizione di Schlein, M5s e Avs non in grado di formulare adeguate proposte economiche. Poi dovremo stare attenti alle interferenze estere». Insomma: Schlein sarebbe troppo tiepida sulla questione Ucraina e sul ReArm Europe. È la stessa visione di Mieli, condivisa -e questo è il secondo e più importante indizio - da una fetta rilevante dei dem. Giusto ieri il Foglio - a conferma di ciò che alcune élite gradiscono - esibiva in prima pagina il faccione di Pina Picierno e il titolo: «Un altro Pd è possibile». A queste condizioni, a dirla tutta, un diverso assetto dem sembra non solo possibile ma anche probabile. E non si tratta di sopravvalutare la Picierno (che comunque è vicepresidente del Parlamento europeo) bensì di dare il giusto peso alle spinte europeiste che da tempo governano le sorti piddine. «Inutile girarci intorno, siamo in fibrillazione, ci sono dei problemi con il posizionamento europeo del Pd», decreta la Picierno, che in questa fase non è troppo distante da Stefano Bonaccini. Ed è solo l’inizio, perché la dem alza la posta: «Arrivano decisioni dall’alto senza che ci si confronti», dice. «L’uomo solo, anzi la donna sola al comando non è un modello che va bene al Pd. Più che un congresso, serve un confronto vero sui temi». Non è dunque una vera e propria dichiarazione di guerra, piuttosto un pressante avvertimento. Il punto, manco a dirlo, sono le armi europee. Una «questione che alcuni di noi ritengono fondativa rispetto all’idea di Europa di oggi e di domani», dice Picierno, che sul riarmo ha votato a favore assieme a Bonaccini e un manipolo di eurodeputati (Antonio Decaro, Giorgio Gori, Elisabetta Gualmini, Giuseppe Lupo, Pierfrancesco Maran, Alessandra Moretti, Irene Tinagli e Raffaele Topo). «Se l’eurocamera avesse bocciato la risoluzione, il progetto della difesa comune europea sarebbe morto per sempre», insiste la simpatica Pina. Insomma: bisogna armarsi, e se la Schlein tentenna allora probabilmente non va bene per guidare i democratici. Certo, è noto che Elly non brilli per determinazione e chiarezza. La scelta di contestare il ReArm Europe nasce - più che dalla convinzione - dalla necessità di non perdersi per strada tutti i residui di pacifismo ancora presenti a sinistra. Ma è piuttosto evidente che tra i progressisti si sia spalancata una faglia difficile da richiudere. Per ora ci hanno messo una pezza, presentandosi in piazza nascosti dietro a slogan fumosi e giri di parole. Ma il piede in due scarpe - vale per tutti - non si può più tenere. La Picierno, come altri, da tempo ha preso posizione, qualificandosi come una delle più spietate cacciatrici di putiniani sulla piazza (a tale proposito vale la pena ricordare che fu suo marito, per altro, ad annunciare in un articolo la chiusura dei conti bancari di Visione Tv e della associazione Vento dell’Est). Sul versante bellicista si sono collocati anche Paolo Gentiloni, Romano Prodi e illustri e influenti osservatori come il già citato Mieli: che cosa desiderino le élite è dunque piuttosto ovvio. Sulle armi, il Pd resta fratturato. Ma i missili contro la Schlein stanno arrivando comunque.
Sberle a salari e dipendenti. Per seguire i deliri di Landini il Pd lotta contro il lavoro
Mentre il Partito Democratico si astiene sulla legge della Cisl che prevede la partecipazione dei lavoratori alle decisioni aziendali (è successo l’altroieri alla Camera) e la Schlein schiera i dem a favore dei referendum contro il Jobs act (è successo ieri in direzione), lo stesso sindacato di Landini ribadisce il no al rinnovo del contratto degli insegnanti (ieri c’è stato il primo incontro) con il tacito assenso del Pd.
A metterle in fila, le tre notizie non solo si tengono l’una con l’altra ma rappresentano la plastica dimostrazione della deriva massimalista e contraria agli interessi dei lavoratori che il maggior partito della sinistra sta prendendo. Basta guardare i numeri.
Del rinnovo dei contratti del pubblico impiego, La Verità si è occupata più volte. E ieri c’è stato il primo round di incontri per capire se ci sono margini per arrivare al via libera dei sindacati alla proposta dell’Aran (lo Stato) che mette sul piatto per la tornata 2022-2024 della scuola aumenti che in media superano i 150 euro lordi al mese.
Riunione interlocutoria, siamo ancora al «Caro amico», nella quale sono stati però fissati i prossimi appuntamenti, quelli del 18 marzo e del 2 aprile. Un vertice, quindi, che non ha spostato di una virgola la profonda contrarietà manifestata dalla Cgil in tutte le precedenti tornate per il rinnovo del contratto degli statali. Dai medici (600.000 dipendenti), alle funzioni centrali (200.000 lavoratori) fino agli enti locali (circa 400.000 persone tra Comuni, Regioni e Province) e ai vigili del fuoco (40.000), la Cgil ha sempre detto no. In alcune occasioni il suo no è stato ha fatto saltare l’accordo, in altre invece si è rivelato ininfluente (funzioni centrali e vigili del fuoco), ma il senso politico delle scelte non cambia.
La contrarietà della sigla rossa è pretestuosa e soprattutto anti-governativa a prescindere. Per la prima volta infatti i sindacati si trovano davanti a un tesoretto da circa 20 miliardi di euro stanziati dal governo per i rinnovi dei lavoratori pubblici. Contratti che prevedono in media aumenti che oscillano tra il 6 e il 7%. Mai visti nelle tornate precedenti. Certo siamo lontani dal completo recupero del carovita che nei tre anni presi in considerazione è cresciuto del 17%. Ma chiedere un allineamento è irrealistico. L’esecutivo avrebbe dovuto mettere sul piatto più di 30 miliardi di euro. Quanto una manovra. Solo per gli statali.
Intanto, però, in questa battaglia tutta politica ci vanno di mezzo migliaia di lavoratori che hanno la busta paga ferma da mesi (e difficilmente recupereranno quanto adesso non stanno ricevendo), anche perché lo stop al triennio scaduto blocca pure il rinnovo successivo (2025-27) per il quale sono già state stanziate le risorse.
Il salari restano fermi e il Pd cosa fa? Dai dem non è mai arrivato un pubblico applauso alla posizione di Landini & C, certo, ma in questo caso il silenzio del partito di riferimento di Landini e compagni equivale a un tacito assenso.
Fermate le buste paga, poi, il Partito Democratico ha deciso di spingere verso un brusco passo indietro la legislazione sul lavoro del Paese. Ieri in direzione la Schlein è stata chiara e nonostante la contrarietà della minoranza riformista ha messo nero su bianco il sostegno al referendum proposto dalla Cgil contro il Jobs Act, attraverso una campagna che valorizzi le proposte dei dem sul tema del lavoro, dal salario minimo al congedo paritario. Insomma, piazze, convegni, propaganda, Schlein e compagni si metteranno in gioco (il successo o il flop dell’iniziativa sarà anche il loro) per cancellare una norma che a detta della grande maggioranza degli esperti del settore ha reso più flessibile il mondo del lavoro aumentando l’occupazione. Era una priorità? Certo che no. Ma la Schlein da una parte ha voluto dare un segnale di sostegno a Landini e dall’altro ha pensato bene di non lasciare un varco a sinistra a quello che considera un rivale a tutti gli effetti. Una sorta di partita a scacchi nella quale il segretario dem (nei giorni scorsi ha festeggiato i due anni non certo indimenticabili di leadership) gioca sempre sulla difensiva.
Come successo anche per la norma sulla partecipazione dei lavoratori alla governance delle imprese. La legge Sbarra, dal nome dell’ex numero uno della Cisl che ha fortemente spinto la proposta. Mercoledì è passata alla Camera grazie al via libera della maggioranza. M5s e Avs hanno votato contro. E il Pd? Si è astenuto. Una posizione di compromesso per non scontentare l’ala riformista che era a favore e la maggioranza che invece era contraria. Magari nessuno sarà stato scontento, ma di certo di facce felici se ne vedono ben poche.
Parliamo di una legge che seppur leggermente modificata mette delle risorse concrete per incentivare le imprese a spingere la partecipazione dei lavoratori alle varie fasi della vita aziendale. Gestionale, organizzativa e non solo. In una parola: responsabilizza i lavoratori. Se il Pd non prende una posizione chiara su un provvedimento del genere si fa davvero fatica a capire quale sia la sua essenza.
Il giornale del nuovo proprietario escluso dalle omonime feste. L’imprenditore Alfredo Romeo prima diffida Elly Schlein e poi le chiede i danni.
Roba che Antonio Gramsci si starà rivoltando nella tomba. L’ultima faida a sinistra parte dall’intenzione manifestata dal Pd di slegare completamente le feste dell’Unità dal giornale che porta il loro stesso nome (l’Unità appunto) e che è stato fondato nel 1924 dal filosofo sardo, uno dei maggiori ispiratori del partito comunista. E arriva fino alla richiesta di risarcimento dei danni (prima c’erano state due diffide rimaste senza risposta alcuna) che il nuovo proprietario del foglio rosso, Alfredo Romeo, ha presentato contro i democratici guidati da Elly Schlein. Come nella miglior tradizione delle liti tra «fratelli» o presunti tali, la disputa verrà «risolta» in tribunale: il 2 agosto Schlein e Romeo sono attesi per un contraddittorio nel foro di Napoli.
Pop corn, insomma.
Ma come mai? Perché le storiche feste del partito che erano nate proprio per finanziare il giornale e da sempre sono indissolubilmente legate agli articoli, alle opinioni e ai dibattiti ospitati dall’Unità vengono «dissociate» dal quotidiano? Cos’è successo? La stessa domanda se l’è evidentemente posta anche la Romeo Editore, la società che fa capo all’imprenditore Alfredo Romeo e che dal 24 febbraio edita pure l’Unità. L’impressione è che oltre alla disputa sulla linea editoriale pesi il fatto che l’Unità sia entrata nella «casa» che annovera l’odiato ex segretario dem, Matteo Renzi, tra le guest star come direttore del Riformista, ma a questo punto starà al giudice entrare nel merito della questione.
«Leggiamo sugli organi di stampa», veniva evidenziato nella prima diffida al Pd e all’associazione “Enrico Berlinguer” (che ha registrato il marchio della festa dell’Unità ndr) presentata dallo studio Fimmanò & Partners per conto di Romeo, «che a dire di alcuni vostri delegati le feste dell’Unità, nazionali e locali, continuerebbero a chiamarsi così senza però avere rapporti con il quotidiano l’Unità, senza distribuzione delle copie, l’implementazione di gazebo, ecc. Siamo certi infatti che si tratti di errate ricostruzioni enucleate nell’ambito delle note polemiche afferenti tutt’altro. Tuttavia, dovendo rispondere innanzitutto ai nostri lettori, e poi a tutti gli altri stakeholder, si rende necessario evidenziare che tutti i segni distintivi sono evidentemente di proprietà piena ed assoluta della società editrice rappresentata dal sottoscritto...».
Al netto dell’apertura di prassi - «c’è la massima disponibilità ad immaginare tutte le sinergie e collaborazioni possibili, specie con riferimento alle dette feste» - il senso è chiaro: se queste sono le intenzioni del Pd, allora i dem devono cambiare nome alle loro feste. Alla prima diffida di metà giugno ne è seguita una seconda una decina di giorni dopo, ma oltre a non dare risposte i democratici hanno portato avanti la macchina organizzativa delle feste come nulla fosse successo.
Diversi eventi si sono già tenuti, da Cesena a San Miniato fino ad arrivare ad Abano Terme e Settimo Torinese (sono solo alcuni esempi) e altri sono in corso, da Roma a Verona fino a Sassoleone Belvedere (nel Bolognese) e Torrita di Siena, con tanto di gran finale con la festa nazionale dell’Unità di Bologna che si concluderà a settembre.
Così le diffide si sono trasformate in un ricorso ex articolo 700 del codice di procedura civile, il provvedimento di urgenza che si chiede nella convinzione che i propri diritti siano minacciati da un pregiudizio imminente e irreparabile, che è stato di recente notificato alle parti in causa (Romeo, Pd e associazione Berlinguer), e dalla lettura del quale La Verità ha appreso i dettagli della vicenda. Compresa la richiesta di un risarcimento dei danni: «Chiede», è l’appello rivolto al tribunale di Napoli, «di fissare, ai sensi degli articoli 614-bis, 700 del codice di procedura civile e 131 codice della proprietà industriale, una somma dovuta dal Partito democratico e dall’associazione “Enrico Berlinguer per la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale della sinistra italiana” alla Romeo Editore per ogni violazione e/o inosservanza dell’inibitoria e degli altri provvedimenti».
Da notare che il ricorso, per conto ovviamente della Romeo Editore, è stato presentato dall’avvocato Francesco Fimmanò, ordinario di diritto commerciale che tra le tante attività è anche un notista di punta dell’Espresso, lo storico settimanale di sinistra. Bingo.
La vicenda somiglia più a una saga che si porta dentro un pot-pourri di tutte le ataviche divisioni della sinistra che a una vertenza giudiziaria. C’è la storia del giornale di Gramsci e quella dell’associazione Enrico Berlinguer - a proposito va ricordato che i quattro figli di Berlinguer avevano chiesto alla nuova proprietà di non usare l’immagine del padre per pubblicizzare il quotidiano -, il ruolo di Matteo Renzi, che non può mai mancare quando da quelle parti ci si prende a capelli, e la posizione di Elly Schlein, il nuovo segretario che sta spostando il partito nell’iperuranio di sinistra, per non parlare di un marchio storico come quello dell’Unità che stando ai ben informati il prossimo anno potrebbe non essere più quello delle feste di partito.
Come detto il contraddittorio tra la stessa Schlein e Romeo andrà in scena alle 11 del 2 agosto a Napoli. Già farà caldo di suo, ma c’è da scommetterci: nell’aula del tribunale partenopeo il clima sarà incandescente.




