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Carlo Nordio (Imagoeconomica)
Le consigliere laiche di destra aprono una pratica contro Musolino, segretario di Md. Santalucia: «Provano a zittirci». Il Guardasigilli: «Basta correnti ma abbassiamo i toni».
L’apertura di una pratica disciplinare nei confronti di Stefano Musolino, segretario di Magistratura democratica, la corrente progressista delle toghe, per alcune dichiarazioni «politiche» usate dal magistrato nel corso di un convegno su iniziativa dei «No Ponte» di Reggio Calabria, è stata proposta alla Prima commissione del Csm, che ha competenza sui trasferimenti per incompatibilità ambientale, e al procuratore generale della Corte di Cassazione dalle consigliere laiche Claudia Eccher (Fratelli d’Italia) e Isabella Bertolini (Lega). Musolino, stando agli articoli di stampa allegati alla segnalazione delle due consigliere laiche, avrebbe affermato: «Siamo molto preoccupati» perché «esiste un problema di gestione del dissenso che non può essere affrontato attraverso strumenti penali». Poi avrebbe aggiunto: «Stiamo vivendo in un momento in cui si presentano davanti a noi scelte molto importanti. Non si possono inventare nuove norme per radicalizzare il dissenso e, addirittura, criminalizzarlo». Parole che per le due consigliere laiche presenterebbero «una spiccata connotazione anti governativa». Le «affermazioni di tipo politico», quindi, stando alle valutazioni di Eccher e Bertolini, rappresenterebbero «una violazione dei principi di imparzialità e di indipendenza che tutti i magistrati devono osservare».
La sezione di Reggio Calabria di Unità per la Costituzione ha subito alzato una barricata: «L’iniziativa nei confronti di Musolino suscita disorientamento», in quanto sarebbe «fondata sulla manifestazione del pensiero del collega con toni che non appaiono esondare dai limiti della continenza sui temi propri della giustizia penale». Si è unito al coro il segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati, Salvatore Casciaro: «Si è cercato di spaccare i magistrati, tra buoni e meno buoni, politicizzati, comunisti. In realtà i magistrati sono uniti, mai come in questo momento, nel rivendicare e difendere quelle che sono le caratteristiche fondamentali della funzione, dell’indipendenza e dell’autonomia». Anche il segretario dell’Anm, Giuseppe Santalucia, ha subito replicato: «Questa non è più una pretesa di imparzialità, ma una richiesta di silenzio inaccettabile». Secondo Santalucia, «un magistrato può intervenire sui temi della giustizia argomentando e spiegando, perché è il nostro specifico campo professionale». Poi anche lui l’ha buttata in politica: «Si sta oltrepassando il confine del possibile. Una cosa è l’imparzialità, un’altra la soggezione silenziosa al governo». E infine ha approfittato del faro mediatico per criticare l’uso, a suo dire «strumentale», della figura di Giovanni Falcone accostata a riforme come la separazione delle carriere. Il Comitato direttivo centrale dell’Anm ha quindi approvato all’unanimità l’indizione di un’assemblea generale (che si terrà il 12 gennaio) sul tema «riforme e assetto costituzionale della magistratura».
Il braccio di ferro con il Guardasigilli, Carlo Nordio, va avanti da tempo. Ma il ministro mantiene ferma la posizione: «Riteniamo che la cultura della giurisdizione debba essere allargata ai pubblici ministeri, ai giudici e agli avvocati. L’alta corte di giustizia sarà formata da questi tre pilastri della giurisdizione. Perché l’abbiamo fatta? Perché oggi abbiamo una sezione disciplinare che è formata da persone che sono elette da chi deve essere giudicato. Non avviene in nessuna parte del mondo». Secondo Nordio, ad aggravare il tutto è stato «lo scandalo Palamara, dove tutti, tra cui il capo dello Stato, hanno denunciato la degenerazione correntizia». E «dopo questo scandalo», ha detto Nordio, «non si è fatto assolutamente nulla». Il ministro, però, ha anche invitato «ad abbassare i toni». Ma il dibattito politico ormai si è infuocato. E se da una parte il deputato di Alleanza dei Verdi e sinistra, Angelo Bonelli ,ritiene «che la libertà di espressione non è più garantita perché si rischiano provvedimenti disciplinari», il capo dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri, ha bollato l’Anm come «una sottocorrente della sinistra».
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Luigi Sbarra (Imagoeconomica)
Il segretario Cisl Luigi Sbarra: «L’occupazione cresce, ma la sfida delle transizioni si vince con le competenze. Positiva l’idea di incentivare le assunzioni al Sud».
Segretario Sbarra, l’occupazione cresce soprattutto quella a tempo indeterminato e ci sono segnali positivi anche sul fronte giovani e impiego femminile. Secondo lei cosa sta funzionando nel mondo del lavoro e su cosa invece il governo dovrebbe intervenire?
«I dati Istat confermano la crescita del lavoro stabile e il trend positivo di questi ultimi anni. Questa tendenza va ora agganciata a processi di qualificazione del lavoro, che significa costruire le condizioni per significativi aumenti salariali, buone flessibilità negoziate, potenti strumenti di politica attiva e di innalzamento delle competenze. Dovremmo concentrarci su questi fattori sia con il governo sia con le associazioni imprenditoriali.
Dati alla mano il reddito di cittadinanza è stato un freno all’occupazione?
«Il Reddito ha dato buona prova di sé sul versante del contrasto alla povertà e alla marginalità. Ma come strumento di politica attiva rivolta agli occupabili ha completamente fallito. Bisogna che le due strategie procedano su binari paralleli. Positiva la volontà del governo di introdurre ora nuovi incentivi alle assunzioni, soprattutto nel Sud, ma occorre un potente investimento sull’apprendimento continuo e mirato sui territori per innalzare le competenze dei troppi giovani e donne ancora fuori dal mercato del lavoro».
Non ritiene eccessivi gli slogan delle opposizioni e di Cgil e Uil secondo le quali va tutto male e non c’è nulla da salvare?
«Non esprimo giudizi sugli altri. Noi pensiamo che il sindacato debba giudicare con realismo, senza demagogia o populismo, i dati e le dinamiche economiche. E soprattutto valutare con pragmatismo, autonomia e senso di responsabilità i risultati positivi ottenuti con la mobilitazione e il confronto con il governo e gli altri interlocutori. Troviamo sbagliata la narrazione di un Paese dilaniato dalla precarietà. Oggi i grandi temi sono quelli della qualità della formazione e di transizioni tutelate».
Conte ha annunciato di nuovo una proposta di legge sul salario minimo. Per lei è una soluzione?
«Il salario minimo serve nella misura in cui lo si realizza estendendo i contratti leader, che sono quelli confederali, a quella parte di lavoratori oggi in Italia non coperti da un Ccnl o vittime di contrattazione pirata. Fissando una quota per legge, c’è il rischio di uno schiacciamento in basso delle retribuzioni, con molte aziende che preferirebbero uscire dal perimetro dei contratti per attestarsi sulla cifra minima fissata dalla legge. Sarebbe una beffa. Un danno per i lavoratori».
Conte che da premier non ha fatto nulla su questi temi adesso si accoda alla Cgil per tornare all’articolo 18? Voi siete favorevoli?
«Ci sembra un modo per parlare d’altro, per deviare l’attenzione dai problemi veri del Paese. Piuttosto che demolire il Jobs act, per poi promuovere non si sa quale modello novecentesco, occorre pensare a migliorare e rafforzare le tante cose buone di quella riforma e correggere le carenze con altri provvedimenti, innovando i centri per l’impiego. L’obiettivo resta quello di costruire un nuovo Statuto della persona nel mercato del Lavoro che sostenga tutti, in ogni momento e qualunque sia il rapporto di lavoro».
Come si affronta la questione salariale?
«Il tema dei bassi salari nel nostro Paese è legato ad alcuni fattori cronici: bassa crescita economica, produttività insignificante, ritardo eccessivo nei rinnovi contrattuali dovuto in molti casi alle resistenze delle associazioni imprenditoriali, scarsa diffusione della contrattazione di secondo livello, e poi carico fiscale nazionale e locale troppo alto su salari e pensioni. Bisogna aprire una stagione di corresponsabilità sociale per una nuova politica dei redditi, incentivare fiscalmente i rinnovi, legare gli aumenti di produttività ai salari, tagliare drasticamente le tasse con una riforma fiscale progressiva e redistributiva».
La Cisl chiede una redistribuzione degli utili delle aziende.
«È una nostra battaglia. Un obiettivo che vediamo più vicino visto che c’è la nostra proposta di legge in discussione in Parlamento».
E voi state facendo il vostro sui rinnovi contrattuali?
«Si , quasi tutte le categorie stanno rinnovando i contratti ed alcune stanno stipulando accordi nazionali e aziendali per adeguare gli stipendi al costo della vita. Bisogna proseguire su questa linea a partire da tutti i contratti del settore pubblico, dove il governo è di fatto controparte. Bisogna sostenere questo processo detassando gli incrementi negoziati a qualunque livello».
Tema Stellantis. Sembra che l’azienda abbia deciso di mollare il mercato italiano. Qual è la vostra sensazione?
«La quota di mercato in Italia di Stellantis è oggi del 34% e l’azienda ha confermato l’intenzione di non voler abbandonare la produzione in Italia. Occorre alzare i volumi e la produzione con nuovi modelli in tutti gli stabilimenti italiani».
Calenda accusa Landini di aver stretto un patto di non belligeranza con gli Elkann. Ha questa sensazione?
«Non entro in contenziosi o conflitti personali. Dico però che per quanto ci riguarda non facciamo sconti a nessuno. Siamo impegnati a costruire un accordo per vincolare il gruppo su produzioni ed investimenti, per difendere l’occupazione in un settore attraversato da una profonda transizione».
Quali garanzie chiedete all’ad Tavares?
«Tavares sa che saremo contrari a qualsiasi operazioni di chiusura degli stabilimenti, i volumi produttivi devono crescere, ci devono essere chiari impegni verso ricerca e sviluppo e sulle forniture dell’indotto. Ci sono oltre 42.000 dipendenti diretti e 156.000 nell’indotto da proteggere».
Il governo stringe su un secondo produttore. Tra i papabili c’è la casa cinese Dongfeng. Cosa ne pensa?
«Non c’è preclusione dove è rispettato il protagonismo del lavoro e la centralità degli investimenti. Siamo aperti al confronto, di fronte a volumi e piani occupazionali consistenti nel nostro Paese, con produzioni che devono essere aggiuntive e non sostitutive delle attuali».
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Un saggio di Tom Nichols, professore di Harvard, afferma che le persone sono «orgogliose di non sapere le cose». Purtroppo la politica non è da meno.
Qualche tempo fa il mio amico Riccardo Ruggeri menzionò, nel quadro di una delle sue insuperabili analisi politiche, un libro appena uscito in Italia, La conoscenza e i suoi nemici. L'era dell'incompetenza e i rischi per la democrazia (Luiss). Scritto da Tom Nichols (professore all'Università di Harvard, all'Us Naval War College, consigliere politico ai più alti livelli statunitensi) è un saggio sull'arroganza dell'ignoranza e - naturalmente - sui pericoli che ne derivano. Ruggeri ne coglieva spunto per ribadire una tesi che ci divide da quando ho avuto la fortuna di conoscerlo: la dittatura dell'establishment, che tanti danni ha causato al mondo (tutto, Europa e Stati Uniti non fa differenza) volge finalmente alla fine; è arrivato il tempo dei buzzurri, con alla testa il re di essi, The Donald. Saranno loro a rimettere le cose a posto, a ripristinare quello che lui chiama (raramente ho incontrato una sintesi così felice) l'«ascensore sociale», a proteggerci dall'invasione del terzo mondo (quello che il buzzurro Trump -copyright Ruggeri, anche questo felicissimo - chiama shitholes countries, Paesi di merda), a riportare all'onor del mondo i cittadini e a scacciarne i «consumatori». Che questa tesi ci divida non è proprio esatto: concordiamo sul fatto che tutto stia andando malissimo e che la colpa è -ovviamente - di chi ha governato, dunque dell'establishment. Dove proprio non ci troviamo d'accordo è nell'accordare fiducia ai «buzzurri»: io non riesco a capire come gente che mia madre (professoressa di lettere) chiamava «ciucci e presuntuosi» possa salvare il mondo.
Sia come sia, Riccardo Ruggeri non ha valutato favorevolmente il libro di Nichols; ma le sue critiche mi hanno invogliato a leggerlo. L'ho fatto due volte e ne sono uscito annichilito. La situazione non è solo uguale a quella che io sostengo da tempo e che mi contrappone all'amico Riccardo; è molto peggiore. Tanto peggiore da farmi davvero disperare in una soluzione, quale che sia. E comunque, dopo aver letto e riflettuto, ho trovato davvero difficile aderire al suo ottimismo.
Il libro è scritto in uno stile semplice e scorrevole, mi ricorda il testo di diritto penale su cui ho studiato, del professore Francesco Antolisei. Tanto semplice che ti sembra di aver capito tutto subito; poi, alla fine, non ti ricordi nulla e devi rileggere con attenzione; che è quello che ho fatto. Riassumo qui una sintesi del pensiero di Nichols, tralasciando l'analisi di come l'arroganza dell'ignoranza ha potuto prodursi: basterà dire che - come già spiegato da Umberto Eco - la colpa è di Internet («I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli. Prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel»).
Nichols comincia con il constatare l'esistenza diffusa di un equivoco. L'uguaglianza tra i cittadini propria di un sistema democratico significa che tutti hanno uguali diritti politici; «uno vale uno», per dirla con gli inventori di questo slogan di successo. Che vuol dire - naturalmente - che ogni voto conta come qualsiasi altro. Ma - spiega Nichols - ciò si è rapidamente trasformato nella convinzione che «avere diritti uguali significhi anche che l'opinione di ciascuno su qualsiasi argomento debba essere accettata alla pari di quella di chiunque altro»; il che comporta la «convinzione irrazionale secondo cui tutti sono altrettanto intelligenti di chiunque altro».
Il fenomeno non è strano, a pensarci bene. Secondo Nichols le persone sono «orgogliose di non sapere le cose. Arrivano a considerare l'ignoranza una vera e propria virtù. Rifiutare l'opinione degli esperti significa affermare la propria autonomia, un modo per isolare il proprio ego sempre più fragile e non sentirsi dire che si sta sbagliando qualcosa». E ciò che lo preoccupa «non è tanto il fatto che la gente rifiuti la competenza, ma che lo faccia con una tale rabbia». Difficile arrestare questa involuzione, impossibile curarla. Il professore spiega perché: «Tutti siamo affetti dal bias di conferma, la tendenza naturale ad accettare soltanto prove che confermano ciò che già crediamo. La più grande fonte di conoscenza umana (Internet) dai tempi di Gutenberg (l'inventore della stampa) è diventata tanto una piattaforma per attacchi al sapere consolidato quanto uno strumento per difendersene».
Confortato da un «esperto» di tale calibro, ho riproposto a una piccola cerchia di amici (che ho cercato di coinvolgere in questa analisi che mi spaventa, letteralmente) la querelle sulla necessità di somministrare vaccini ai bambini, intervenuta tra il professore Roberto Burioni e la Iena Dino Giarrusso. Avrei dovuto desistere subito, quando è apparso evidente che tutti sapevano chi era Giarrusso ma solo uno conosceva l'impressionante curriculum scientifico del microbiologo, virologo, infettivologo Burioni. Ma non l'ho fatto e ho raccontato la risposta dello scienziato al duello televisivo sui vaccini proposto dalla Iena: «Gentile Giarrusso, se parliamo di vaccini ci sono due possibilità: lei si prende laurea specializzazione e dottorato e ci confrontiamo. Oppure io spiego, lei ascolta e alla fine mi ringrazia perché le ho insegnato qualcosa»: mi hanno (tutti meno quell'uno) caricato di miserie: arrogante, presuntuoso, fastidioso; tutte aggettivazioni puntualmente riscontrate sul web e molti giornali cartacei. Solo quell'uno ha provato a dire che arrogante etc era stato chi nulla sapeva (a dispetto di ciò che credeva di sapere) e che tuttavia pretendeva un confronto con uno scienziato.
Dal che emerge ancora una volta quanto il professor Nichols sia stato acuto e preveggente: «Se i cittadini non si preoccupano di acquisire un'alfabetizzazione di base sulle tematiche che influiscono sulla loro vita, rinunciano a esercitare il loro controllo su di esse. E quando gli elettori perdono il controllo di queste importanti decisioni, rischiano il dirottamento della loro democrazia da parte di ignoranti demagoghi o una più lenta e graduale decadenza delle istituzioni democratiche, fino a scivolare in una tecnocrazia autoritaria».
Ora, che i cittadini italiani non abbiano nessuna intenzione di alfabetizzarsi mi pare evidente: infatti hanno eletto ignoranti demagoghi (in verità che siano demagoghi lo suppongo; che siano ignoranti emerge dal loro curriculum scolastico e lavorativo). È per questo che penso che l'amico Ruggeri non abbia poi così ragione; e che la «tecnocrazia autoritaria» sia tutto ciò che ci resta.
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