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Xi Jinping risponde al balzello sulle macchine che scatterà a luglio con un’indagine sull’import di carne. Germania in rivolta contro Bruxelles: Bmw produce diversi modelli di Mini nel Dragone. Così Pechino può far deflagrare il Pil dell’Unione.
I dazi, checché ne dica Mario Draghi, hanno le gambe corte e l’Europa potrebbe fare la fine del maiale. Ci sta che l’Ue esploda proprio a causa dei balzelli posti ai cinesi che hanno mandato su tutte le furie Olaf Scholz, il cancelliere tedesco, perché si è scoperto che auto ufficialmente germaniche come le Mini - dallo stile ancora Old England - prodotte da Bmw si possono considerare «cinesi».
Gli emuli di Mao, come insegna Confucio, si sono presi tutto il tempo prima di rispondere all’Europa che, svegliatasi dal delirio green, ha capito che i cinesi ci stanno facendo fuori l’industria automobilistica e da luglio farà partire una raffica di balzelli. Insomma noi europei abbiamo chiuso il garage quando i ladri si erano già fottuti la macchina. I cinesi invece hanno messo nel mirino una merce che oltre la Muraglia va via come il pane: la carne e le frattaglie di maiale. Con buona pace dei vegani, fanno fuori 700 milioni di maiali all’anno, la metà dei suini che si «producono» nel mondo. E Pechino è largamente deficitaria nel bilancio suino. Così se gli tocchi le macchine rispondono con le salsicce. Ma lo fanno in modo che potrebbe far saltare tutta la Pac (Politica agricola europea con i contributi alle imprese annessi). E allora sì che sarebbero dolori.
Un dato per tutti. L’import di auto elettriche cinesi è passato da 9,37 miliardi del 2022 a circa 16 miliardi lo scorso anno. I cinesi hanno in mano il 20% del mercato delle auto elettriche in Europa, ormai sono 30 i marchi cinesi presenti che coprono sostanzialmente tutti i segmenti e la rete vendita è in fortissima espansione con un servizio che da loro va fortissimo: invece della ricarica si cambia tutta la batteria. Secondo l’Unione europea i cinesi fanno dumping. È attesa la Byd seagull che potrebbe costare meno di 12.000 euro. La Dacia spring, che ha parti cinesi, viene 21.450 euro.
Peraltro non tutta l’Europa è contenta, anzi rischia di andare in pezzi prima ancora di cominciare il secondo giro (così sperano i Popolari) della baronessa Ursula von der Leyen. Olaf Scholz che non è messo affatto bene in patria ha fatto il diavolo a quattro. Tutti hanno pensato: teme ritorsioni sulle auto tedesche di grossa cilindrata (a motore endotermico) che Mercedes, Bmw, Audi e Porsche vendono in Cina dove c’è un dazio minimo del 15% sulle vetture europee. Olaf Scholz invece è preoccupato per i suoi maiali (di costarelle ne vende tante oltre la Muraglia), ma soprattutto per le auto ufficialmente tedesche, ma fabbricate in Cina che se ritornano a casa pagano appunto dazio. Scholz si sente come Roberto Benigni e Massimo Troisi in Non ci resta che piangere: «Quanti siete? Dove andate? Un fiorino». I tedeschi pagherebbero esportando in Cina e reimportando in Europa. I modelli Mini nel mirino sono due: la Cooper e la Aceman elettriche prodotte integralmente in Cina.
Ma il tema non riguarda solo Bmw. Quasi tutti i costruttori europei che hanno a listino un’auto a pila la fabbricano in Cina e cinesi si sono molti marchi di punta europei (Volvo pioniere nell’elettrico, Mg, Lotus per dirne alcuni). È evidente che i dazi diventeranno un boomerang: si sono spostate le produzioni a Est per lucrare sui costi minori, ma reimportando si pagherà dazio col danno indiretto, ma pesantissimo, di aver consegnato tecnologia e mercato ai primi concorrenti: i cinesi. Tesla ha già annunciato che sui suoi modelli prodotti in Cina (Model 3 e Model Y) destinati all’Europa sono pronti i rincari di listino. Giusto per capire chi ci rimette con i dazi.
E ora scoppia anche la grana dei suini. In sede di Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, i cinesi faranno valere la loro indagine anti dumping sulla carne di maiale sostenendo che la Pac viola la concorrenza perché gli allevatori europei ricevono aiuti di Stato. La faccenda è seria per due ragioni. La prima che potrebbe essere messo in discussione l’impianto della Politica agricola comune, ma la seconda perché per gli allevatori europei, e tedeschi in particolare, Pechino è un cliente decisivo. La Cina ha subito per anni gli effetti della peste suina ed è stata costretta a importare moltissimo. I tedeschi reclutando immigrati siriani hanno costruito mega macelli (in tre lavorano oltre 30 milioni di capi) per soddisfare questa domanda. I cinesi con i loro allevamenti a 26 piani si sono fatti aiutare dai russi e hanno in parte ridotto la loro dipendenza estera, ma già quest’anno devono fare fronte a una nuova diminuzione di un paio di punti di produzione. Nel 2023 la Cina ha importato un totale di 15,5 milioni di tonnellate di carne suina e 11,7 milioni di tonnellate di frattaglie. In totale l’Europa le ha venduto qualcosa meno di 4 milioni di tonnellate con un aumento del 45% su base annua che assegna al mercato cinese il 62,3% di tutte le nostre vendite estere di suini macellati. È evidente che la risposta ai dazi sarà tagliare questi ordini anche perché la Cina può contare su altri ottimi fornitori, primi fra tutti Russia e Brasile. Tanto per stare dalle parti dei Brics!
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La cucina di Bartolomeo Scappi, cuoco «secreto» di Papa Pio V (Getty Images)
Pio V si fece preparare un menù da 83 portate per il Venerdì santo e amava così tanto le lumache che, per non commettere peccato, stabilì che fossero pesce e non carne. In Italia ogni territorio ha la sua ricetta delle feste: dai primi al dessert, c’è di che sbizzarrirsi.
Pio V, Papa dal 1566 al 1572, fu un Pontefice santo e buongustaio. Sulle virtù che lo elevarono all’onore degli altari non entriamo in discussione, diciamo solo che fu canonizzato nel 1712 da Clemente XI dopo un processo di beatificazione durato un secolo. Impegnati a raccontare la storia della tavola più che all’aureola, guardiamo al papale appetito di Pio V. Detto tra noi impenitenti: cosa sono mai un paio di peccatucci di gola a confronto degli otto miracoli riferiti nell’istruttoria di canonizzazione del santo Pontefice?
Al Papa rinascimentale va riconosciuto il merito di aver scritto un importante capitolo della cultura e della storia gastronomica italiana assumendo come cuciniere «secreto», cioè personale, Bartolomeo Scappi, cuoco straordinario e autore di un enciclopedico trattato di cucina con oltre mille ricette. Scappi è ritenuto il più grande cuoco del Rinascimento, anello di congiunzione tra la dietetica medioevale e la cucina moderna. Basterebbe questo merito per elevare Antonio Ghislieri (è il nome secolare di Pio V) pure ai mondani altari della gastronomia.
Il cuoco segreto del quinto dei papi Pii, nel Venerdì santo di uno degli anni di papato, preparò un pranzo «in die veneris sanctis» con tre servizi di credenza e tre di cucina, 83 piatti in menu. Erano in lista due portate di lumache: «lumache vecchie cavate in potaggio» e «lumache cavate fritte servite con limoncelli». Pare che Pio V avesse un debole per i molluschi, i quali, «cavati» dal guscio, presentavano un problema di ordine morale in quel particolare periodo: erano carne e, quindi, da togliere dalla dieta quaresimale o pesci, anche se l’acqua non l’avevano mai vista? Fu così che il Papa, per poterle gustare anche nelle giornate di penitenza, dall’alto della sua autorità stabilì in quale categoria di alimenti sistemare le chiocciole: «Estote pisces in aeternum». Siate pesci per l’eternità.
La Quaresima, nell’immaginario comune dei cattolici, è sinonimo di sobrietà a tavola, porzioni ridotte, nessun bis, vade retro dessert. È mangiar di magro il venerdì e gli altri giorni comandati. La Settimana santa, in particolare, invita i fedeli alla stretta penitenziale finale: dieta ancor più povera e due giorni di digiuno, il Venerdì santo, giorno in cui i cristiani commemorano la passione e la crocifissione di Gesù Cristo, e il Sabato santo, giorno del silenzio della tomba.
È sempre così? No. Anche la Settimana santa, in Italia, ha riti particolari che coniugano fede e cibo simbolico. In Abruzzo il tradizionale piatto di magro della Domenica delle palme è la «sagna riccia», una pasta con i bordi ondulati (reginelle) condita con pomodoro, basilico, ricotta, parmigiano, olio e pecorino. Il piatto ricorda le palme agitate per far festa a Gesù quando entra a Gerusalemme. Più convincente l’interpretazione simbolica: la forma arricciata della pasta ricorda i trucioli di legno derivati dalla fabbricazione della croce.
In Irpinia si usa ancora donare, nella Settimana santa, a parenti e amici, come buon augurio, i taralli col naspro, biscotti ricoperti di glassa morbida e bianca cosparsa di zuccherini colorati. In Liguria, per la Domenica delle palme, si preparano i canestrelli, ciambelle ricoperte di zuccherini colorati che si portano a benedire in chiesa durante la messa insieme ai rami di ulivo. I canestrelli si preparano anche in Lunigiana. Sulle Apuane, nei paesini di Casette, Forno e Caglieglia, si preparano i ciorchielli della palme che vengono infiocchettati sui rami di ulivo per essere benedetti.
A Prato e in altre località della provincia di Firenze, fin dal Medioevo si prepara per il Giovedì santo il pan di ramerino (rosmarino, simbolo di purezza): gli si incide sopra una croce e lo si porta a benedire in chiesa. Sempre in Toscana, in Versilia, si cucina la torta di semolino.
Anche il Venerdì santo, giorno della morte di Gesù, si preparano piatti devozionali. In Salento si mangiano i cavatelli al vincotto, pasta fresca fatta in casa cucinata con il vincotto bollente che le dà il color rosso che rievoca il sangue di Gesù sulla croce. Il piatto di magro in Molise è fatto di baccalà lesso. A Napoli s’impone la frittata di scammaro, senza uova, alimento di origine animale. Fu Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, a creare la ricetta nel 1837 su richiesta dei capi religiosi del regno borbonico preoccupati che la Settimana santa fosse contaminata da carnivori peccati di gola. La ricetta prevede che i vermicelli, dopo la bollitura al dente, vengano versati nella padella del soffritto: olio, aglio, acciughe, uvetta, pinoli, olive denocciolate e prezzemolo. Saporito ma magro. Il Sabato santo, in Trentino, si fanno gli auguri con la fogaza al lievito di birra, con uvetta e fichi secchi. L’abbinamento? Col vino santo, ovviamente.
Ed eccoci a Pasqua, giorno della Resurrezione di Gesù, di vittoria della vita sulla morte, il grande giorno di festa in cui si torna a gioire e a… mangiare. «Aleluia, aleluia», recita un proverbio veneto, «le papardele se desgarbuia». Si tornano a mangiare le tagliatelle fatte con le uova, cibo di derivazione animale proibito sulle mense di magro della Quaresima.
C’è da dire che il periodo penitenziale che precede la Pasqua non è più restrittivo come lo era fino alla metà del secolo scorso o, ancora di più, nei secoli passati, quando i fedeli, obbedienti ai precetti di santa madre Chiesa, si purgavano davvero dai peccati osservando 40 giorni di dura penitenza: astensione totale dalla carne, niente dolci, zero vino e altre bevande alcoliche, niente uova né latticini, essendo derivati animali. Digiuni spesso e volentieri. Tutte prescrizioni che alle povere famiglie della stragrande maggioranza della popolazione italica non costavano particolari sacrifici visto che in casa vedevano la carne sì e no un paio di volte all’anno, i dolci erano fatti più con lo strutto che con lo zucchero e il vino non c’era.
Oggi non è più così. La carne è vietata il venerdì e il digiuno, che poi consiste in un solo pasto durante la giornata, è ridotto a tre giorni: il Mercoledì delle ceneri, il Venerdì santo e il Sabato santo. Ci sono le eccezioni: l’astinenza dalle carni non vale per bambini fino ai 14 anni, il digiuno è prescritto dai 18 anni fino ai 60. Dieta libera per vecchi e ammalati. Il pesce è sempre permesso.
Perché il branzino sì e il maiale no? Secondo San Tommaso, la carne rossa procura piacere, non per niente se la potevano permettere solo i ricchi. Galline e pollame vario erano proibiti perché considerati, a differenza dei pesci, animali a sangue caldo. A dir la verità anche il pesce era sconsigliato nei primi secoli del cristianesimo. Solo nel Medioevo entra a pieno titolo nella dieta di magro di ogni buon cristiano: i buoni ma ricchi si permettevano storioni, salmoni, capitoni, carpioni e altri «oni» d’acqua dolce o salata; i buoni poveri s’accontentavano di aringhe, sarde, stoccafisso. Pietro Abelardo, teologo francese in odore di eresia, in una lettera a Eloisa, con la quale aveva una storia d’amore, contestò lo sdoganamento dei pesci: rinunciare alla carne per acquistare pesci costosi era un insulto ai poveri.
Gli ortodossi non scherzano con la Quaresima. Intanto i giorni di penitenza che precedono la loro Pasqua sono 48, quattro in più di quella cattolica. Anche il calendario è diverso: iniziata il 18 marzo, la Quaresima ortodossa dura fino al 4 maggio, vigilia di Pasqua. Carne, pesce, formaggi, latticini di origine animale sono vietati per tutta la quaresima tranne che per la Domenica delle palme e il 25 marzo, giorno dell’Annunciazione. I digiuni sono totali Venerdì santo, ecc. non si mangia niente. Esenti dal digiuno totale sono gli ammalati, le persone in viaggio, le donne incinte.
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Carlo Petrini (Imagoeconomica)
Il difensore del cibo antico e naturale ha spiegato che la «bistecca in laboratorio» può fare molto bene all’umanità. E poco importa se rischia di distruggere il futuro degli agricoltori che lui dice di voler tutelare.
Il pensiero unico si è mangiato Carlo Petrini. Ed è stato un pasto fin troppo veloce, roba da procurarsi una granitica indigestione. Eppure è tutto vero: la firma del fondatore di Slow food campeggiava ieri sulla prima pagina della Stampa, in testa a un articolone in difesa della carne sintetica. Sulle prime veniva quasi da pensare che ci fosse stato un errore: ma come, il difensore del cibo antico e rispettoso dei ritmi naturali, il paladino dei prodotti semplici e delle mangiate rustiche, il nemico dell’hamburger e degli alimenti spazzatura adesso si mette a giustificare la sintetizzazione di bistecche in laboratorio? Ebbene sì: pur con qualche umidiccio distinguo, Petrini spiega che in fondo la cosiddetta «carne coltivata» (che non è carne e non è coltivata) può fare un gran bene alla umanità. Egli inizia affastellando argomentazioni persino condivisibili. «I più accesi sostenitori del “no” alla carne sintetica si sentono investiti del ruolo di paladini difensori della tradizione», scrive. «La tradizione in questione è in realtà relativamente recente. Sì, perché la carne è entrata a far parte in maniera consistente della dieta di noi italiani solo dal secondo dopoguerra in avanti, quando bisognava allontanare lo spettro della fame e ogni chilo di carne in più era un'enorme conquista. Secondo i dati della Fao negli Anni ‘60 gli italiani consumavano 27 chilogrammi di carne pro capite all’anno, oggi parliamo di 79. Rimanendo nell’alveo della tradizione e chiamando in causa la tanto blasonata dieta mediterranea (di cui ci fregiamo di esserne i natali), vediamo come secondo i suoi precetti il consumo di carne (specialmente quella bovina) dovrebbe limitarsi a massimo due porzioni a settimana». Certo, consumiamo una notevole quantità di carne, ma comunque infinitamente meno e di miglior qualità di quella consumata negli Stati Uniti e in altre nazioni europee. Secondo Petrini, in ogni caso, il grande nemico è «la lobby della carne che negli ultimi anni si è arricchita, anche e soprattutto grazie ai finanziamenti europei, immettendo sul mercato prima, e di conseguenza negli stomaci di tutti noi poi, grandi quantità, scarsa qualità, molto inquinamento ambientale e svariati problemi di salute».
Potrebbe addirittura essere vero. Peccato che, di nuovo, un conto è la «lobby della carne» americana, un altro sono i produttori italiani che operano con livelli di sicurezza, pulizia e attenzione al benessere animale molto diversi. Si potrebbe anche notare, en passant, che nella bistecca sintetica hanno già investito notevoli quantità di denaro proprio alcuni dei produttori statunitensi di hamburger e costine: i tanto odiati lobbisti non hanno perso tempo, con buona pace del caro Carlin. Petrini appare a tratti confuso: «In questo momento particolare sono contrario alla carne sintetica», dice. «Ma non sono meno contrario agli allevamenti intensivi, perché in entrambi i casi il potere è nelle mani di poche multinazionali che spogliano il cibo del suo significato culturale, così come del legame con il territorio e con la Natura». Messa così potrebbe anche avere senso. Se non fosse che il nostro aggiunge un paio di banalità atomiche: «Ogni anno nel mondo vengono uccisi 77 miliardi di animali», sentenzia, «la maggior parte dei quali hanno trascorso la vita in spazi angusti, alimentati esclusivamente con mangimi e insilati, e con l’unico scopo di diventare carne da macello. Nello scenario appena descritto non vedo nulla di più umano - inteso come rispetto e compassione per la vita delle altre specie viventi - rispetto a una bistecca prodotta in laboratorio». Strabiliante: prima se la prende con le multinazionali e celebra l’eterno ciclo della vita; poi accoglie con piacere un prodotto farmaceutico spacciato per cibo sfornato dalle stesse multinazionali proprio al fine di sovvertire l'allevamento tradizionale. Intendiamoci: Carlin è libero di pensare ciò che vuole. A stupire è il radicale cambio di prospettiva. Nel 1997, quando venne pubblicato sul Manifesto il testo fondativo di Slow food, Petrini era il secondo firmatario. «Questo secolo», scriveva in quei giorni, «è nato sul fondamento di una falsa interpretazione della civiltà industriale, sotto il segno del dinamismo e dell’accelerazione: mimeticamente, l’uomo inventa la macchina che deve sollevarlo dalla fatica ma, al tempo stesso, adotta ed eleva la macchina a modello ideale e comportamentale di vita. Ne è derivata una sorta di autofagia, che ha ridotto l’homo sapiens ad una specie in via di estinzione, in una mostruosa ingestione e digestione di sé». Nel 1997 l’invettiva contro la macchina, nel 2024 la difesa di ciò che la stessa macchina realizza. Tutto questo, benché lievemente triste, potrebbe anche risultare trascurabile se non fosse che Petrini ha deciso di spendere la sua autorevolezza per una causa discutibile negli stessi giorni in cui gli agricoltori e gli allevatori manifestano in tutta Europa per garantirsi una pur difficile sopravvivenza. Carlin lo sa benissimo, e infatti sulla Stampa sfiora l’argomento. «C’è un comparto in sofferenza che necessita il nostro sostegno con assoluta urgenza», scrive. «Si tratta di allevatori virtuosi, non intensivi e che molto spesso sviluppano la loro attività in sinergia con l’agricoltura, con il recupero di razze autoctone e nel rispetto del benessere animale. Questi allevatori sono coloro che oggi non riescono a stare in piedi economicamente. Eppure sono loro la strada per il futuro: sinonimo di sostenibilità degli allevamenti, vitalità delle aree rurali e garanti della sovranità alimentare». Niente male: i piccoli e coraggiosi agricoltori sono in difficoltà e come li aiutiamo? Sostenendo inspiegabilmente un progetto del tutto ideologico che servirà soltanto a completare la distruzione delle eccellenze zootecniche europee. Vero: si tratta di un progetto a lungo termine, ma comunque mortifero. Si vede che Petrini la fine degli allevatori la vuole così: lenta. A quanto pare è l'unica passione slow che gli è rimasta.
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