Un fantasma si aggira per l'Europa del pallone, quello del consumismo, e si noti bene senza spaventarsi, consumismo con la «esse», termine che assume significati multilivello. Da un lato, ricorda a tutti che per allestire una squadra competitiva per la Champions League occorre spendere tanti soldi, facoltà concessa, in tempi di crisi, solo alle squadre foraggiate dai petrodollari. Dall'altro che i portafogli delle società, soprattutto quelle italiane, sono consumati ed è indispensabile un sapiente mix di creatività sul mercato, tempismo nel condurre le trattative, visione strategica, per allestire rose complete senza indebitarsi. Sbarcare il lunario, insomma, senza sbancare i conti correnti, fare le nozze con i fichi secchi accontentando il palato dei tifosi. Qui entra in gioco il talento dei dirigenti sportivi di primo livello, capaci di tracciare la linea di demarcazione tra un club in salute e uno in difficoltà. Nella Serie A appena cominciata balza all'occhio l'esempio virtuoso dell'Inter e del suo amministratore delegato, quel Beppe Marotta da Varese la cui carriera recente si è mossa sull'asse Torino-Milano, determinando, numeri alla mano, fortune e sfortune di Juventus e Inter. Fortune con la sua presenza, disgrazie con la sua assenza. Guardiamo in casa nerazzurra. Approdato alla corte della famiglia Zhang a cavallo tra 2018 e 2019, quando i cinesi ancora non avevano chiuso i rubinetti di spesa, ha posizionato le pedine sullo scacchiere del mercato cercando di dare coerenza a un progetto in divenire. Alla base della strategia c'è stato l'ingaggio di Antonio Conte, pezzo pregiato della panchina da lui lanciato ai tempi della Juve, scelto per compattare l'organico garantendo agli undici messi in campo un orizzonte progettuale il più possibile plasmato a sua immagine e somiglianza. Conte metteva il becco, talvolta con la collaudata tecnica delle rimostranze pubbliche, pure sugli acquisti, sapendo come farsi accontentare. In quella stagione i margini di spesa erano ampi: arrivarono Stefano Sensi dal Sassuolo e Nicolò Barella dal Cagliari - quest'ultimo diventato uno dei tre pilastri del centrocampo della Nazionale -, arrivò quel Romelu Lukaku capace di far dimenticare la partenza di Icardi. L'anno dopo, con margini risicati per gli acquisti, giunse pure Achraf Hakimi. Con lui lo scudetto, prima volta dopo uno strapotere decennale juventino, e i bianconeri annoveravano in rosa ancora CR7. Poi dalla Cina è giunto il diktat: i soldi sono finiti, non si spende più, anzi, si vende l'argenteria. Parte Hakimi, destinazione Psg, al prezzo di 68 milioni di euro, parte Lukaku, sponda londinese del Chelsea, per 115 milioni, se ne va Conte, allenatore poco incline a entrare nei ristoranti da 100 euro con 10 euro in tasca. Il rischio smobilitazione era elevatissimo, ma le mosse azzeccate, gestendo le pressioni della proprietà di Nanchino, lo hanno compensato. Si siede in panchina Simone Inzaghi, reduce da conconvincenti stagioni con la Lazio e stipendiato con emolumenti di gran lunga inferiori a quelli del tecnico salentino, Edin Dzeko, filibustiere dell'area di rigore con piedi educati e senso del gol, viene prelevato dalla Roma praticamente gratis, riempiendo la casella di Lukaku senza farlo (per ora) rimpiangere. Un'esigua parte del denaro ricavato dalla cessione di Hakimi - 12 milioni circa - viene convogliata su Denzel Dumfries del Psv Eindhoven, prospetto dalle potenzialità rosee, ancora da dimostrare, ma pur sempre terzino della nazionale dei Tulipani. C'è stato tempo anche per accontentare una richiesta dell'allenatore: ingaggiare Joaquin Correa, pupillo di Inzaghi, che si è presentato con una doppietta nella sfida col Verona. Apologia dei nerazzurri? Niente affatto, ma la sensazione è che la squadra abbia perso poca della sua recente competitività. Tira aria un po' diversa invece a Torino. Voci di corridoio dicono che Massimiliano Allegri non sia granché soddisfatto del materiale umano a disposizione. La partenza di Ronaldo è stata destabilizzante, il discusso labiale del mister toscano con Giorgio Chiellini dopo la sconfitta contro l'Empoli («Non è squadra...», avrebbero sentenziato i due) è emblematico. In più, c'è chi sostiene che Miralem Pjanić sarebbe stata pedina assai gradita ad Allegri per puntellare un centrocampo vulnerabile, e sarebbe arrivato a Torino con metà ingaggio pagato dal Barcellona. L'approdo sfumato avrebbe alimentato la delusione. Ulteriori voci di mercato parlano addirittura della possibilità di scritturare Sergio «El Kun» Aguero per l'attacco, finalizzatore esperto e rapace. Che sia verità o semplice cicaleccio, alla fine si è deciso di riprovarci con Moise Kean, giovane dal talento un po' troppo bizzoso. I tifosi bianconeri imputano ai propri dirigenti una progressiva perdita di lungimiranza, di anno in anno, nel pianificare il futuro. Per questo, sussurrano i pettegoli, il fantasma di Marotta, dipendente al soldo delle società che lo ingaggiano, ma fermo nello scandire una propria autonomia decisionale, aleggia sotto la Mole.
C'era una volta il gioco del pallone, uno sport in cui, nella Serie A, capitava di vedere una matricola di provincia lottare per un posto in Europa bagnando il naso alle grandi e facendo sognare i tifosi, potrebbe raccontare un nonno al nipote in un futuro prossimo venturo. L'ipotesi Superlega europea, campionato continentale per poche squadre dal portafoglio pingue che relegherebbe le realtà locali ai margini, si starebbe concretizzando grazie a un inedito sodalizio tra Andrea Agnelli - da sempre sostenitore del disegno - e l'ex arcinemico Aurelio De Laurentiis, presidente del Napoli. A far da ponte, Florentino Perez, capo del Real Madrid. Lo riporta Dagospia, partendo da una dichiarazione congiunta di partenopei e juventini: «Non siano più disponibili ad approfondire il discorso con i fondi», avrebbero detto. Significa il naufragio eventuale del progetto di costituire MediaCo, il consorzio formato da Cvc, Advent e Fsi per entrare nel capitale della società di servizi della Lega, imprimendo una svolta manageriale proficua al calcio italiano. MediaCo è caldeggiata da Paolo Dal Pino, presidente della Lega Serie A e vicepresidente vicario della Federazione Italiana Giuoco Calcio, e Giampiero Mazza di Cvc, fino a un anno fa sodali proprio di Agnelli. Pare però che a gennaio, il patron bianconero abbia avuto un colloquio col collega Florentino Perez, che lo avrebbe convinto ad abbandonare il suo proposito iniziale, sottolineando come l'ingresso dei fondi cozzerebbe con la creazione del supercampionato europeo, procrastinandolo di almeno 10 anni. Una clausola imposta da Cvc e partner prevederebbe in effetti l'impossibilità per Juventus, Inter e Milan di abbandonare la Serie A. Il cambio di rotta di Agnelli spariglierebbe le carte. Inter, Napoli e la Lazio di Lotito a loro volta si accoderebbero alla mossa della Juventus. I quattro club, assieme ad Atalanta, Fiorentina, alleata di Lotito si dice perché il figlio del dirigente viola Jo Barone gioca nella sua Salernitana, e l'Hellas Verona sarebbero ora pronti a ostacolare l'avvento dei fondi. Un blocco difficile da scardinare, poiché Beppe Marotta, sponda Inter, con Lotito, è vicepresidente indicato dalla Lega nella Figc. Le altre 13 squadre che ancora appoggerebbero l'opzione MediaCo, tra le quali spiccano il Milan di Elliott e la Roma di Friedkin, si troverebbero con pochi margini. A meno che una tra le sette società attualmente alleate della Juventus non cambi idea: con 14 squadre favorevoli all'arrivo di Cvc, Advent e Fsi si raggiungerebbe la maggioranza in Lega. Solo così, lo zampino di Florentino Perez, presidente dalla bacheca gloriosa, ma con qualche ombra nel suo passato - nel 2016 l'Unione Europea ha certificato come il Real Madrid abbia beneficiato di aiuti di stato, in una vicenda che coinvolgeva operazioni economico-immobiliari relative ad alcuni terreni nel distretto di Madrid Las Tablas, vicino allo stadio Santiago Bernabeu - non assumerebbe i contorni della zampata decisiva.
Perché non si sono fatti vaccinare tutti a Dubai come Walter Zenga? La domanda sembra paradossale ma vale per l'intera la Serie A e sfugge all'invidia sociale di moda in Italia («Vergogna, i milionari in mutande sì e mio nonno partigiano no»), visto che i calciatori sono lassù nella scala sociale, più avvezzi all'attico che al tinello, più in simbiosi con le Porsche che con le Panda Hybrid. Invece niente, il virus continua a contagiare il campionato, il focolaio Inter va spento, la partita con il Sassuolo è rinviata. E quello che si assegna a fine maggio diventa lo scudetto del tampone.
Il mondo del pallone si è dimenticato che il Covid, in contropiede, è più micidiale di Romelu Lukaku ed ora è di nuovo nel pantano. Dopo i dirigenti (Beppe Marotta in primis), Danilo D'Ambrosio e Samir Handanovic, anche Stefan De Vrij e Matias Vecino sono positivi, alla Pinetina si teme il cluster e l'Ats di Milano ha imposto lo stop alla capolista.
«Sospensione immediata di qualsiasi attività della squadra per quattro giorni (domenica compresa)», ha deciso l'Agenzia per la tutela della salute. E poi «divieto di giocare la partita di San Siro contro gli emiliani in programma domani, divieto ai nazionali nerazzurri di rispondere alle convocazioni dei loro Paesi e appuntamento a lunedì quando saranno ripetuti i tamponi molecolari a staff tecnico e giocatori». Come per Torino-Sassuolo e Lazio-Torino. Buon weekend e l'ultimo chiuda la porta.
Ieri ad Appiano Gentile è stato effettuato un nuovo giro di tamponi e oggi si saprà se il virus ha contagiato altri interisti. La faccenda ha scatenato le dietrologie da social bar sport e c'è chi grida al campionato falsato perché alcune squadre hanno dovuto giocare con cinque contagiati (per esempio il Milan in novembre, il Genoa per due mesi) e altre no. Tutto vero e tutto imbarazzante. Il fantomatico protocollo firmato da governo e federazione nel maggio 2020 è esistito fino a dicembre, poi è evaporato nel nulla per responsabilità del Coni; adesso siamo in presenza di una stagione random, nella quale il calendario è deciso dai dirigenti sanitari e dalle loro sensibilità.
Tutto ciò per un fatto specifico, il solito casus belli iniziale, legato a Juventus-Napoli rinviata a ottobre e ancora da giocare. Con sentenza del 22 dicembre, il Collegio di Garanzia del Coni ha deciso di dirimere il contenzioso con una sentenza firmata da Franco Frattini (l'ex ministro degli Esteri) e voluta da Giovanni Malagò nella quale il mondo dello sport di fatto ha abdicato alle sue prerogative a favore del superiore interesse sanitario. Il passaggio decisivo per togliere lo 0-3 ad Aurelio De Laurentiis è chiarissimo: «Il Napoli ha agito senza malafede e in piena coerenza con quanto stabilito dalla normativa vigente. Nessuna responsabilità può essere addebitata alla società in questione».
La «normativa vigente» è il rispetto assoluto dei provvedimenti «emessi dalle competenti autorità sanitarie che impongono prescrizioni comportamentali o divieti che rendono impossibile la prestazione dell'obbligato indipendentemente dalla sua volontà». Dalla sentenza in poi ogni decisione delle Asl ha prevalso sugli interessi sportivi. Fino al 22 dicembre era valido il protocollo stilato sui dettami Uefa con sospensione delle attività al decimo contagiato, ma dal 23 dicembre in Italia decidono le Asl.
A conferma della discrezionalità, in gennaio l'Ats Milano - la stessa che ha fermato l'Inter - fece giocare Milan-Juventus nonostante quattro calciatori trovati positivi qualche giorno prima (Ante Rebic e Rade Krunic da una parte, Alex Sandro e Juan Cuadrado dall'altra). Allora Roberto Testi, direttore della Asl di Torino, confermò la decisione dei colleghi: «L'Asl interviene nel caso in cui emerga un focolaio che costituisca un problema di sanità pubblica. Ma qui siamo lontani anni luce da una simile situazione». Le squadre rimasero nella bolla, palla al centro. Qui il contrario.
Il Sassuolo ha comunicato che intende rispettare l'imposizione. L'Inter non può fare diversamente anche se, con 9 punti di vantaggio e il vento in poppa, avrebbe ovviamente preferito giocare (senza Handanovic vinse il derby in rimonta a inizio 2020 nonostante le incertezze di Daniele Padelli). La gara potrebbe essere recuperata il 7 aprile in contemporanea con Juventus-Napoli. Sul piede di guerra le federazioni dei nazionali interisti. La Croazia ha comunicato che «farà di tutto per avere Marcelo Brozovic e Ivan Perisic per le partite di qualificazione ai mondiali».
La polemica galoppa e la Lega potrebbe in teoria impugnare la decisione dell'Ats. Lo spiega l'avvocato Roberto Afeltra, esperto di diritto sportivo: «È un provvedimento emesso in eccesso di potere, un'entrata a piedi uniti nelle norme della federcalcio. L'Inter ha diritto di far fare i tamponi ai giocatori e, se ne ha meno di 10 positivi, ha il diritto di giocare. La Lega dovrebbe fare ricorso al Tar». Di parere opposto la virostar Massimo Galli (peraltro interista): «Quando si sospetta l'esistenza di un focolaio è giusto sospendere le partite, non vedo perché si debba andare a cercare un guaio e fare dietrologie. In un gruppo di persone che hanno contatti in allenamento senza mascherina bloccare tutto è il minimo».
Poiché il Sassuolo non partirà per Milano, non dovrebbe andare in scena la pantomima dello 0-3 che vale una notte, con cascami legali com'è accaduto per Lazio-Torino. Di scontato non c'è nulla. Il ricorso a un tribunale è pur sempre il secondo sport nazionale dopo il calcio.
Mai fidarsi di un Agnelli. Mai credere alle sue promesse. Mai cercare di contraddirlo e men che meno ostacolarlo. Mai insistere, anche se si sa di essere nel giusto. Mai cercare di discutere o pensare di potergli disubbidire, anche se lo fai per il suo bene. E, soprattutto: mai pensare che il proprio talento personale e i grandi risultati raggiunti in otto anni, dentro e fuori dal campo, possano prevalere sul capriccio di chi vuole essere ed è nato «padrone». Beppe Marotta è stato «fatto fuori» per tutte queste ragioni. Anche perché aveva un «peccato d'origine»: era stato scelto da John Elkann, che lo volle amministratore delegato dopo aver provocato immani sciagure sportive con il catastrofico binomio da lui scelto: Blanc-Cobolli Gigli. Quando Andrea Agnelli salì finalmente alla presidenza della Juve si trovò in «eredità» anche Marotta. Il figlio di Umberto, sponsorizzato da Moggi e Giraudo dopo la morte del Dottore (27 maggio 2004), sarebbe dovuto entrare allora nel club, ma venne stoppato proprio da Jacky, spinto da Gianluigi Gabetti e da Franzo Grande Stevens (il presidente con pieni poteri della Juventus ai tempi di Calciopoli). I due Richelieu temevano che Andrea, grazie alle vittorie della Juve con Giraudo e Moggi, avrebbe avuto una visibilità eccessiva tale da ostacolare l'ascesa al trono del piccolo John. Marotta ha sempre portato con sé questo «marchio», è sempre stato dalla parte di John, era il suo punto di riferimento dentro il club, si è sempre portato dietro questo marchio. E ora, quando ha informato John della rottura e gli ha chiesto aiuto, è stato liquidato con parole di maniera: «Ho ben altro cui pensare dopo la morte di Marchionne…».
Marotta sabato sera ha sbagliato nel voler anticipare tutti con il suo annuncio: «Le nostre strade si separano». Ha scavalcato perfino Claudio Albanese, l'uomo comunicazione di Agnelli, colui che ha creato problemi a Maurizio Pistocchi a Mediaset, ha fatto tramontare Paolo Ziliani, ha chiesto invano la cacciata di Paolo Liguori, ha preteso Giuseppe Cruciani nelle trasmissioni sportive. Marotta voleva giocare d'anticipo. Tutti avrebbero creduto che era stato fatto fuori non appena fossero stati diffusi i nomi proposti da Exor per il nuovo cda della Juve. Vedendo che il suo nome non c'era, avrebbero pensato: «Chissà che cosa ha combinato». I nomi del nuovo cda sono gli stessi di prima, tranne Marotta e Aldo Mazzia, il capo dell'area finanza, che era già sull'orlo della pensione. Tutti confermati, perfino Paolo Garimberti, il giornalista che da vicedirettore di Repubblica si distinse per le battaglie (mai combattute) affinché le cronache su Calciopoli non fossero così spietate contro la Juve. Alla faccia della conclamata - da Andrea Agnelli - gioventù, visto che Garimberti ha 75 anni.
Le ragioni del distacco sono molte. A Torino si parla di qualcosa che, a poco a poco, ha incrinato la fiducia di Agnelli verso Marotta. Molti gli episodi. Il fatto che l'ad si fosse lamentato per l'affare Ronaldo, non dal punto di vista tecnico ma per il fatto che, a parte il presidente che si era messo in mostra, Nedved avesse detto che era «merito di Paratici» (che aveva tra le sue «medaglie» proprio l'aver scavalcato il suo ad). E poi le forti discussioni su quegli strani rapporti privilegiati con il Milan (Higuan e Caldara, e il ritorno di Bonucci alla Juve), con Marotta che spiegava che «tenere il centravanti avrebbe creato grossi problemi per l'ammortamento e il bilancio». In un attimo è svanito tutto. Anche il ricordo di quel giorno in cui Antonio Conte venne cacciato poco prima di partire per il ritiro precampionato. Andrea si era schierato dalla parte di Marotta allorché l'allenatore aveva quasi strattonato l'ad accusandolo di non aver nemmeno trattato Cuadrado, Iturbe e Sanchez (che poi andò all'Arsenal), cioè i tre che aveva chiesto a tutti i costi. Poi Cuadrado arrivò con un anno di ritardo, Sanchez partì per Londra, e Iturbe sparì di scena dopo il prezzo spaventoso pagato dalla Roma. Ma quello era un episodio lontano. Nell'estate 2015 ecco il caso Draxler, il forte centrocampista tedesco che Paratici voleva a tutti i costi e Marotta bloccò «perché troppo caro». Poi andò al Wolfsburg e infine al Psg, mentre la Juve ripiegò indegnamente su Hernanes. Su Draxler vinse Marotta, Paratici stava per dare le dimissioni. Il binomio che aveva fatto grande la Samp, Marotta-Paratici (con il secondo che faceva fare sempre bella figura al primo), cominciò a incrinarsi.
Un'altra realtà che Marotta ha dimenticato è che nella Juve, bene o male, le decisioni chiave sono sempre legate ai consigli della coppia Giraudo-Moggi. Il primo ha messo da tempo Pavel Nedved come «badante» accanto ad Andrea affinché lo «sorvegli» e non gli faccia commettere errori. Moggi, dal canto suo, vede spesso Andrea (abitano un piano sopra l'altro in via Carlo Alberto 58 a Torino) e la sua parola conta moltissimo. Nedved poi ha un ruolo chiave per la confidenza e la complicità con il presidente, specie il martedì, grazie alla consueta partita di calcetto in cui il ceco fa gli assist e Andrea mette il pallone in porta. Cementati da queste vicende, i due vanno molto d'accordo. Marotta ha fatto, sotto aspetti diversi, la stessa fine di Del Piero, Marchisio e, soprattutto Francesco Calvo (il manager che fece fare alla Juve l'accordo con l'Adidas: 140 milioni in sei anni), l'ex amico cui Andrea ha portato via la moglie turca, Deniz Akalin. Quando gli avvocati di Andrea e di Calvo riuscirono finalmente a farli incontrare per decidere una linea comune di difesa, ai tempi dell'inchiesta sulle presunte infiltrazioni criminali nelle curve, il presidente della Juve aggredì Calvo con queste parole: «Lo vuoi capire che io non ti voglio più vedere. Tu devi scomparire, te lo ripeto: scomparire». Quella vicenda, dal punto di vista della giustizia sportiva, fu un altro degli episodi rivelatori per far capire a Marotta che era entrato nel cono d'ombra. Aveva ancora Jacky che lo proteggeva, ma capì benissimo che Andrea si era messo in testa brutte cose su di lui per colpa di quell'inchiesta. Quando si iniziano le indagini, in genere si parte da chi gestisce quella società. Invece Marotta, protetto da Elkann in persona, non venne neanche chiamato dal giudice Pecoraro, non venne sfiorato da quello scandalo, non fu deferito né processato.
Durante la propria deposizione Agnelli, rispondendo indignato a una domanda del procuratore federale, disse: «Chiedete a Marotta». Le belle parole che in queste ore parlano di «rinnovamento» nascondono qualcosa di più simile a un regolamento interno di conti. E gli scheletri stanno uscendo dagli armadi: la prossima puntata di Report, ad esempio, dovrebbe svelare come i biglietti di Juventus-Real Madrid dell'ottobre 2013 siano arrivati al figlio di un boss proprio grazie all'ormai ex ad.
I modi e i tempi del caso Marotta lo confermano, come il fatto di comunicargli solo a settembre la revoca dell'incarico di ad, impedendogli di trovare un altro club per un anno, senza pensare alle clausole di riservatezza… I metodi di Andrea Agnelli sono anche questi. Ora probabilmente attribuirà a sé stesso la carica di amministratore delegato, o forse farà una sorta di cambio merce con Maurizio Arrivabene e coronerà il proprio sogno di contare finalmente qualcosa anche nella Ferrari. Intanto in rampa di lancio ci sono due giovani manager: Marco Re, un mago della finanza, e Giorgio Ricci, che prenderà il posto di Marotta. La Juve nel frattempo è passata da 150 a 500 dipendenti, ha mire importantissime. E ormai Marotta appartiene al passato: c'è solo da sistemare il quantum della liquidazione e della risoluzione anticipata del contratto da dirigente a tempo indeterminato. Ma in fondo è stato lui a sbagliare: non ha tenuto conto dell'ipocrisia di casa Juve: ha annunciato in tivù che se ne va, e quindi, formalmente, non è stata la società a licenziarlo...






