2021-09-04
Fra la Juve in crisi e l’Inter inossidabile, la differenza si chiama Marotta
Giuseppe Marotta (Getty Images)
Dopo il tricolore, ha gestito il calo di liquidità di Zhang e trovato validi sostituti ai big ceduti. La rosa bianconera invece ha lacune. Un fantasma si aggira per l'Europa del pallone, quello del consumismo, e si noti bene senza spaventarsi, consumismo con la «esse», termine che assume significati multilivello. Da un lato, ricorda a tutti che per allestire una squadra competitiva per la Champions League occorre spendere tanti soldi, facoltà concessa, in tempi di crisi, solo alle squadre foraggiate dai petrodollari. Dall'altro che i portafogli delle società, soprattutto quelle italiane, sono consumati ed è indispensabile un sapiente mix di creatività sul mercato, tempismo nel condurre le trattative, visione strategica, per allestire rose complete senza indebitarsi. Sbarcare il lunario, insomma, senza sbancare i conti correnti, fare le nozze con i fichi secchi accontentando il palato dei tifosi. Qui entra in gioco il talento dei dirigenti sportivi di primo livello, capaci di tracciare la linea di demarcazione tra un club in salute e uno in difficoltà. Nella Serie A appena cominciata balza all'occhio l'esempio virtuoso dell'Inter e del suo amministratore delegato, quel Beppe Marotta da Varese la cui carriera recente si è mossa sull'asse Torino-Milano, determinando, numeri alla mano, fortune e sfortune di Juventus e Inter. Fortune con la sua presenza, disgrazie con la sua assenza. Guardiamo in casa nerazzurra. Approdato alla corte della famiglia Zhang a cavallo tra 2018 e 2019, quando i cinesi ancora non avevano chiuso i rubinetti di spesa, ha posizionato le pedine sullo scacchiere del mercato cercando di dare coerenza a un progetto in divenire. Alla base della strategia c'è stato l'ingaggio di Antonio Conte, pezzo pregiato della panchina da lui lanciato ai tempi della Juve, scelto per compattare l'organico garantendo agli undici messi in campo un orizzonte progettuale il più possibile plasmato a sua immagine e somiglianza. Conte metteva il becco, talvolta con la collaudata tecnica delle rimostranze pubbliche, pure sugli acquisti, sapendo come farsi accontentare. In quella stagione i margini di spesa erano ampi: arrivarono Stefano Sensi dal Sassuolo e Nicolò Barella dal Cagliari - quest'ultimo diventato uno dei tre pilastri del centrocampo della Nazionale -, arrivò quel Romelu Lukaku capace di far dimenticare la partenza di Icardi. L'anno dopo, con margini risicati per gli acquisti, giunse pure Achraf Hakimi. Con lui lo scudetto, prima volta dopo uno strapotere decennale juventino, e i bianconeri annoveravano in rosa ancora CR7. Poi dalla Cina è giunto il diktat: i soldi sono finiti, non si spende più, anzi, si vende l'argenteria. Parte Hakimi, destinazione Psg, al prezzo di 68 milioni di euro, parte Lukaku, sponda londinese del Chelsea, per 115 milioni, se ne va Conte, allenatore poco incline a entrare nei ristoranti da 100 euro con 10 euro in tasca. Il rischio smobilitazione era elevatissimo, ma le mosse azzeccate, gestendo le pressioni della proprietà di Nanchino, lo hanno compensato. Si siede in panchina Simone Inzaghi, reduce da conconvincenti stagioni con la Lazio e stipendiato con emolumenti di gran lunga inferiori a quelli del tecnico salentino, Edin Dzeko, filibustiere dell'area di rigore con piedi educati e senso del gol, viene prelevato dalla Roma praticamente gratis, riempiendo la casella di Lukaku senza farlo (per ora) rimpiangere. Un'esigua parte del denaro ricavato dalla cessione di Hakimi - 12 milioni circa - viene convogliata su Denzel Dumfries del Psv Eindhoven, prospetto dalle potenzialità rosee, ancora da dimostrare, ma pur sempre terzino della nazionale dei Tulipani. C'è stato tempo anche per accontentare una richiesta dell'allenatore: ingaggiare Joaquin Correa, pupillo di Inzaghi, che si è presentato con una doppietta nella sfida col Verona. Apologia dei nerazzurri? Niente affatto, ma la sensazione è che la squadra abbia perso poca della sua recente competitività. Tira aria un po' diversa invece a Torino. Voci di corridoio dicono che Massimiliano Allegri non sia granché soddisfatto del materiale umano a disposizione. La partenza di Ronaldo è stata destabilizzante, il discusso labiale del mister toscano con Giorgio Chiellini dopo la sconfitta contro l'Empoli («Non è squadra...», avrebbero sentenziato i due) è emblematico. In più, c'è chi sostiene che Miralem Pjanić sarebbe stata pedina assai gradita ad Allegri per puntellare un centrocampo vulnerabile, e sarebbe arrivato a Torino con metà ingaggio pagato dal Barcellona. L'approdo sfumato avrebbe alimentato la delusione. Ulteriori voci di mercato parlano addirittura della possibilità di scritturare Sergio «El Kun» Aguero per l'attacco, finalizzatore esperto e rapace. Che sia verità o semplice cicaleccio, alla fine si è deciso di riprovarci con Moise Kean, giovane dal talento un po' troppo bizzoso. I tifosi bianconeri imputano ai propri dirigenti una progressiva perdita di lungimiranza, di anno in anno, nel pianificare il futuro. Per questo, sussurrano i pettegoli, il fantasma di Marotta, dipendente al soldo delle società che lo ingaggiano, ma fermo nello scandire una propria autonomia decisionale, aleggia sotto la Mole.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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