Antonio Rinaldi, eurodeputato della Lega, a Dimmi La Verità: "Vi dico a che punto siamo con la riforma del Patto di Stabilità. Marine Le Pen? Direi di tenercela buona, sarà probabilmente il prossimo leader della Francia. Le critiche a Gentiloni? La verità è che conta poco..."
Antonio Rinaldi (Imagoeconomica)
Per l’europarlamentare leghista «la riforma del Patto di stabilità fa tornare l’austerity. La Commissione sarà dominus dell’economia, con poteri superiori alla Bce e al Fmi. Il deficit di democrazia sarà gravissimo».
Antonio Rinaldi, europarlamentare leghista, la Commissione Europa ha presentato la riforma del Patto di stabilità. Adesso in Europa cambia tutto?
«In pratica, tornerà l’austerity. Pensavamo di essere salvi? Ci ricaschiamo dentro, ancora più a fondo. Avevano messo le regole in pausa con il Covid, ma solo per prepararsi a tirare lo schiaffone finale».
Come cambieranno i rapporti tra Europa e Stati?
«Da questa riforma emergerà una Troika al cubo, con la Commissione che diventerà il “dominus” della politica economica europea, dotandosi di poteri superiori alla Bce e al Fmi. Andremo incontro a un gravissimo deficit di democrazia: i burocrati in mezze maniche si sostituiranno ai governi democraticamente eletti».
Andiamo con ordine: cosa non la convince?
«A differenza del passato, il nuovo Patto prevede regole “personalizzate” per ogni Paese per i piani di aggiustamento di bilancio. Una camicia di forza su misura. La Commissione avrà dei margini di discrezionalità fortissimi, intaccando irrimediabilmente i principi democratici. E non lo dice solo Rinaldi nel suo piccolo, ma persino Lorenzo Bini Smaghi: siamo condannati al commissariamento. Le elezioni politiche in Italia diventeranno un optional».
In pratica, le nuove regole garantiscono a Bruxelles una discrezionalità che sconfinerebbe nell’arbitrio?
«Se un Paese non si adegua ai dettami, finirà automaticamente nella procedura di infrazione. Il rientro dal debito costerà dai 7 ai 15 miliardi l’anno, e sarà strettamente monitorato da Bruxelles».
Conseguenze?
«Per l’Italia significa lacrime e sangue: riduzione della spesa sociale, e addio al taglio delle tasse, anzi ce ne saranno di nuove. E questo proprio nel momento in cui l’economia italiana avrebbe estremo bisogno di essere rilanciata».
La «personalizzazione» delle regole di cui parla, non dovrebbe essere un metodo per assecondare le esigenze di ogni singolo Paese?
«Se la Commissione si trova davanti un governo nazionale “amico”, si comporterà in un certo modo. Se il governo è “ostile”, adotterà atteggiamenti più duri. Prima le regole, con tutti i difetti, erano perlomeno uguali per tutti. Adesso si schiudono spazi spaventosi per la Commissione. E il Parlamento europeo, unico organismo legittimato democraticamente, viene escluso dall’intero processo. Alla faccia dei padri fondatori del sogno europeo».
Varare le manovre diventerà un’operazione sempre più complicata?
«Saranno manovre sotto dettatura, con estenuanti negoziati all’ombra del ricatto, perché la procedura d’infrazione scatta anche quando non si firmano le riforme imposte da Bruxelles. E gli eventuali tagli riguarderebbero anche gli investimenti del Pnrr basati sui prestiti europei. Non hanno neanche scorporato gli investimenti “green”, quelli su cui ci fanno la predica quotidiana. In pratica, l’Europa chiede all’Italia di indebitarsi con il Pnrr, e poi con questo Patto di stabilità la punisce se si indebita. Siamo all’assurdo».
Adottare il Recovery è stato un errore?
«Certo, i soldi che arrivano col Pnrr non sono un regalo, sono debito. Non sono un gentile omaggio concesso a Giuseppe Conte. Compresi i soldi a fondo perduto, che vanno rimborsati con risorse proprie, cioè con nuove tasse. Chiediamoci perché quei denari li abbiamo chiesti solo noi italiani, mentre gli altri Paesi si sono indebitati autonomamente per avere più spazi di manovra. Siamo i più furbi o i più fessi?»
Il Pnnr andrebbe riadattato?
«Se non siamo in grado di realizzare certe opere, tanto vale rinunciare ai relativi finanziamenti. E non dimentichiamoci che nelle opere finanziate non sono previsti i costi di manutenzione. Le amministrazioni locali che si imbarcano nei progetti, nel giro di trent’anni dovranno foraggiare la manutenzione, e parliamo di costi altissimi. Molte opere finiranno alle ortiche».
Dietro la Commissione Europea ci sono uomini in carne e ossa. La nuova riforma nasce dalla volontà di colpire i governi non allineati?
«Da una parte vogliono lanciare un segnale politico preciso: “I padroni del vapore siamo noi”. Non dimentichiamo che la stessa Von Der Leyen, prima delle politiche, disse che se il voto italiano fosse andato in una certa direzione, loro avrebbero attivato “certi strumenti” per intervenire. Diceva il vero».
Ma non è solo una questione politica, giusto?
«D’altra parte bisogna ammettere che da tempo la commissione è animata da una sorta di fanatismo religioso, come una setta. Sono incapaci di partorire idee sostenibili, e lo abbiamo visto sui provvedimenti “green” che ci consegneranno mani e piedi alla Cina».
Oggi i protagonisti a Bruxelles sono quasi tutti di estrazione socialista, peraltro in scadenza di mandato.
«Lo stesso Gentiloni, che non ha autonomia né la forza di ribellarsi, è commissariato da Dombrovski, un uomo piazzato lì dai tedeschi. I quali ci stanno conquistando di nuovo: ci hanno provato due volte con le armi, e ora ci sono riusciti con i trattati, senza sparare un colpo di cerbottana. Insomma, in Italia festeggiamo la Liberazione, quando c’è una nuova occupazione alle porte. E abbiamo anche il coraggio di applaudire?».
Come può pensare che la Germania voglia affossare il nostro Paese, con cui è legato a doppio filo sul piano economico?
«Il loro obiettivo è farci sopravvivere quel tanto che basta per mettere in ginocchio le aziende strategiche e fare shopping a buon mercato a casa nostra».
Si parla di un interessamento tedesco a un ramo di Leonardo. Le nuove regole europee ci renderanno più esposti agli attacchi stranieri?
«Sì, perché si riducono i poteri nazionali sulla difesa degli asset strategici. Leonardo è un’azienda di sicurezza nazionale, incedibile, che lo Stato dovrebbe controllare totalmente. Vi immaginate cosa accadrebbe se l’Italia coltivasse ambizioni sulla “Finmeccanica” tedesca?».
In ogni caso, il nuovo Patto di stabilità partorito dalla Commissione andrà discusso.
«L’ideale sarebbe tirarla per le lunghe fino alle elezioni europee, che per la prima volta saranno un appuntamento più importante persino delle politiche. Se cambierà il governo comunitario, spero si possa ragionare in maniera diversa».
Quale sarebbe la vera svolta?
«La modifica dei trattati di Maastricht e di Lisbona, che per me non sono le tavole immutabili del Monte Sinai. In trent’anni, hanno mostrato diversi limiti. Possiamo cambiare il Patto quanto vogliamo, ma non otterremo niente di buono finché non modifichiamo i trattati. Il Patto di Stabilità e Crescita non alimenta affatto la crescita, visto che la stessa Commissione ha ritenuto giusto sospenderlo in tempo di pandemia…».
Dunque lei sogna di modificare i trattati fondamentali dell’Unione. Ma in quale direzione?
«Inserendo anche il parametro del debito privato nei criteri di giudizio su un Paese. La situazione europea si ribalterebbe. Perché i trattati parlano solo di debito pubblico, quando dietro ogni grande crisi c’è il debito privato?».
Il nuovo Patto di stabilità è una punizione per non aver ratificato il Mes?
«Il Mes non ha senso, è stato ucciso dal Quantitative Easing di Draghi. Nel momento in cui la Bce fa operazione straordinarie, a cosa serve il Mes? Poi, se l’obiettivo è garantire uno stipendio a un carrozzone di 400 persone in Lussemburgo, io una proposta ce l’avrei: trasformiamo il Mes in un’agenzia di rating finalmente europea».
Il governo italiano, viste le pressioni internazionali, sarà comunque chiamato a ratificarlo.
«C’è il rischio che la maggioranza si spacchi, perché Lega e Cinque Stelle restano contrari. Giorgia Meloni ha sempre detto no al Mes, bisognerà vedere se le promesse elettorali saranno confermate».
Ha delle riserve sul primo anno del premier al timone del Paese?
«Per quel che valgono le mie analisi, io sono felicissimo che ci sia un governo di centrodestra. E penso che Giorgia Meloni possa tranquillamente uscire dal complesso di camminare sul solco di Draghi: deve procedere sulle sue gambe, senza timore di paragoni. Anche perché, proseguendo sui binari di Draghi, nel lungo periodo, si rischia di disorientare l’elettorato. Draghi non era un politico, ma un bravissimo tecnico, mentre Meloni è un politico di razza, e gli italiani l’hanno scelta per questo».
A proposito di politici di razza: si aspettava Di Maio sulla poltrona di inviato Ue nel golfo?
«Io sono l’ultima ruota del carro, non mi permetto di giudicare. Però, se avessi avuto anche io Draghi come sponsor, chissà dove sarei arrivato…».
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Antonio Rinaldi (Ansa)
L'eurodeputato della Lega, Antonio Rinaldi: «Anche gli Usa favorevoli agli aiuti, non ai prestiti. Gualtieri ha accettato il “prendere o lasciare". E Conte ha mentito sul Mes voluto dalla Spagna».
Antonio Rinaldi, economista eurocritico, è dal giugno 2019 europarlamentare della Lega. Conversa con La Verità dopo il Consiglio europeo della scorsa settimana.
Professore, Giuseppe Conte si è presentato davanti alle telecamere trionfante, e francamente ce ne sfugge il motivo. Che coppa aveva appena vinto, la Champions League?
«Forse aveva giocato alla playstation. A leggere i commenti dei grandi quotidiani internazionali, infatti, il presunto bottino praticamente non esiste. Capisco le difficoltà interne di Conte, con il Pd ormai azionista di maggioranza e i 5 stelle che hanno perso ogni bussola, ma dovrebbe esserci un limite alla propaganda di Giuseppi».
Dall'Ue sono stati messi in campo (o in qualche caso prospettati) quattro strumenti. Esaminiamoli a uno a uno. Cominciamo dal discusso Mes. Dicono che, in questa versione «sanitaria», sarà senza condizioni. Ma non abbiamo visto da nessuna parte la modifica del trattato Mes, o del regolamento 472 del 2018. Su che cosa si basa la convinzione che - in seconda battuta - non ci saranno trappole?
«Tutto ciò che riguarda i rapporti con l'Ue è regolato da precise norme. La “pacca sulla spalla" e il “poi vediamo" non sono previsti: non ci si può fidare di ciò che viene detto a voce. Da questo punto di vista, il Mes nacque come strumento concepito per gli Stati non più in condizione di finanziarsi sui mercati: in una logica del genere, è chiaro che poi il prestatore “metta il naso" nella gestione del Paese richiedente. Ma questo non è e non può essere il caso dell'Italia, che invece ha sempre collocato benissimo i propri titoli».
Tra l'altro, 35-36 miliardi (quelli che ricaveremmo dal Mes) possiamo emetterli tranquillamente anche in un mese con nostri Btp. Perché dobbiamo invece esporci al rischio del cappio-Trojka?
«Ma infatti. Con un paradosso ulteriore: ora dovremmo prendere 35-36 miliardi solo per il settore sanitario, che però proprio per rispettare i parametri e i vincoli europei è stato oggetto negli anni passati di tagli di circa 37 miliardi su quelli che dovevano essere gli stanziamenti. In più c'è la vera insidia: che si vincoli all'accettazione del Mes l'accesso all'Omt, cioè l'intervento della Bce concepito ai tempi di Mario Draghi. Conte e Gualtieri sono caduti in un classico dell'Ue, la cosiddetta “logica di pacchetto": prendere o lasciare. Così Gualtieri non ha avuto il coraggio, il 9 aprile all'Eurogruppo, di dire: sul resto ok, ma no al Mes. Ed è nata in questo modo la successiva bugia di Conte, subito smentita da Madrid, sul fatto che fosse la Spagna a volere il Mes».
Da questo punto di vista, lei e i suoi colleghi della Lega indicate come strada maestra il fatto di emettere titoli e contare sull'impegno della Bce ad acquistarli.
«Quella è la soluzione più lineare. Mi chiedo: che altro deve succedere, oltre a una pandemia, per far capire che ci serve una vera banca centrale europea non solo di nome, ma capace di operare come tale, come negli Usa, in Giappone, nel Regno Unito?».
Lei dice, in sostanza: occhio a un doppio standard per cui i Paesi del Nord potranno sistemare i loro bilanci con i soldi della Bce, mentre a quelli del Sud verrà imposto un tutoraggio, per non dire un pilota automatico.
«Paradossalmente, la risposta alla pandemia rischia di allargare le divergenze tra i Paesi Ue, anziché ricomporle: benefici per alcuni, vincoli per altri. E temo che alcuni osservatori non si rendano conto che stiamo per affrontare un problema sociale assolutamente drammatico, con imprese, commercianti, partite Iva, lavoratori che, non certo per colpa loro, si ritrovano senza soldi. Se non si entra nell'ordine di idee (accettato dagli Stati Uniti) di risorse a fondo perduto, andremo incontro a una crisi devastante».
Devo però esprimerle una preoccupazione. Poniamo che vi diano retta e si scelga la strada maestra: acquisti da parte della Bce. Ma se poi qualcuno (ad esempio la Corte costituzionale tedesca) ordinasse lo stop? Sarebbe la fine del progetto Ue…
«In effetti, è attesa a inizio maggio una pronuncia della Corte costituzionale tedesca, che dovrà esprimersi sulla legittimità delle operazioni della Bce, se cioè sia immaginabile che un Paese venga chiamato a garantire sui debiti di altri. Lo dico con grande chiarezza: dopo anni di menefreghismo e incomprensioni europee, questa del coronavirus doveva essere l'occasione per un riscatto, un'opportunità irripetibile. E invece…».
Veniamo alla Banca europea degli investimenti. Che giudizio dà di quell'iniziativa? Certo, non è che improvvisamente possano chiedere alla Bei di agire in modo anomalo da banca centrale, cosa che la Bei non è…
«Una prima cosa seria sarebbe sciogliere il Mes e riprenderci i nostri 14 miliardi. Oppure, come alternativa, mettere i fondi del Mes a capitale della Bei e consentirle di finanziare ben precisi progetti industriali, com'è nella sua missione».
E il fondo Sure? Alla fine sarebbero quattro settimane di cassa integrazione, più o meno… O è una visione troppo riduttiva da parte dei critici?
«In Ue sono bravissimi a coniare acronimi per confondere le acque. È vero che in teoria ci sarebbero 100 miliardi nel fondo, ma non più di 10 all'anno per tutti. E allora… Tutto è diluito, spezzettato».
Veniamo al famoso Recovery fund. È stato detto: bene la cornice, peccato che manchi il quadro.
«A parole, sembra il proverbiale coniglio estratto dal cilindro. Ma nei fatti non sappiamo nulla, tutto è ancora vago. E l'unica cosa probabile sono tempi di realizzazione molto, troppo lunghi».
Tra l'altro l'ancoraggio al bilancio 2021-2027 per definizione fa dubitare che le erogazioni possano avvenire già nel 2020.
«Non solo la spalmatura nel tempo rischia di far sì che il fondo sia operativo troppo tardi, quando saremo tutti “morti" dal punto di vista economico. Ma c'è di più: sappiamo già la lite in corso da mesi sul bilancio europeo dopo l'uscita della Gran Bretagna. Qui come si arriverebbe al 2% del Pil? Ho paura che la via rischi di essere quella di nuove tasse, di astruse tasse europee. Una ragione di più per ritenere che questa sia un'ipotesi assolutamente peggiore rispetto alla strada maestra, e cioè l'intervento della Bce».
Possibile che gli euroentusiasti non vedano la differenza con gli Usa? Lì il presidente trova l'accordo con il Parlamento, si vota, e subito dopo avvengono le erogazioni di denaro a famiglie e imprese. Qui in Ue invece tutto è sottoposto a procedure defatiganti, spossanti, lunghissime.
«Quando ci sono troppi galli a cantare, non si fa mai giorno. Purtroppo, hanno fatto credere da anni che l'impostazione del progetto europeo fosse improntata alla solidarietà: ma i trattati e le norme dicono purtroppo altro. Da questo punto di vista, quando questa crisi sarà passata, verrà il tempo di una riflessione di fondo».
Quale?
«Sul progetto europeo. Occorre tornare alla logica della Cee: accordi di commercio e di altro tipo, con presupposti molto diversi da quelli dell'unione politica, e con regole differenti da quelle che - di tutta evidenza - hanno dimostrato nei fatti di non funzionare».
Però i pro Ue ribattono: stavolta un embrione di risposta europea c'è. Voi non correte il rischio di apparire troppo critici? Mi spiego: siete pronti ad «andare a vedere» le carte, per inchiodare comunque l'Ue ai suoi impegni?
«Per ora abbiamo solo sentito parole, mentre di soldi non si è visto proprio nulla. E temo che, quando arriverà qualcosa, i singoli Paesi scopriranno termini e condizioni molto penalizzanti».
Veniamo ai riflessi politici interni: lei i grillini li vede da vicino. Sono stati totalmente catturati dalla macchina Ue e dall'alleanza con il Pd?
«Eh, ormai soffrono di “poltronite perniciosa". La loro alternativa politica non esiste più: sono attaccati allo scranno a ogni costo… Pensi solo all'aver accettato l'alleanza con il Pd, che chiamavano “il partito di Bibbiano". Pensi a tutti i loro punti programmatici, di fatto dimenticati o ripudiati. La triste realtà dice che la stragrande maggioranza dei loro parlamentari non sarà rieletta, e dunque pensa a stipendio e mutuo».
Quindi lei dice che alla fine ingoieranno anche il rospo del Mes…
«L'hanno già ingoiato. La scorsa settimana alla Camera, l'ordine del giorno di Fdi, votato anche dalla Lega, ha mostrato che contro il Mes si sono espressi coerentemente solo 7 grillini. Più chiaro di così…».
Si riesce a tenere unita una proposta alternativa di centrodestra o c'è il rischio che sul Mes si determini una spaccatura difficile da sanare con Forza Italia?
«Francamente mi sarei aspettato un netto no al Mes. Per le ragioni che ho spiegato, e cioè per il pericolo di condizionalità successive, il Mes rischia di portare in ultima analisi ad altre tasse, a una patrimoniale, o a incursioni nei conti correnti. Mi sembra siano tutte ipotesi da evitare assolutamente».
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ANSA
Dove il capo dell'ente previdenziale Tito Boeri abbia preso le stime miliardarie non si sa. È però noto che, per ovviare ai danni del governo Monti, abbiamo sborsato già 20 miliardi. La balla dei risparmi è bella che smontata.
Al presidente dell'Inps piace spararla grossa. Così ieri Tito Boeri si è presentato in Parlamento raccontando che cambiare la riforma Fornero costerà 100 miliardi in più. E a pagare saranno le future generazioni, accusando dunque quelle attuali di menefreghismo. Come egli abbia fatto a calcolare una simile cifra è però un mistero. Perché neppure il mago Otelma, con i suoi poteri speciali, riuscirebbe a stimare gli effetti di una legge che ancora non esiste e di cui dunque, al momento, non si conoscono neppure i termini. Ma il professore che guida il più grande ente previdenziale d'Europa è fatto così. A lui non piace passare inosservato. Dunque, dopo essersi chiesto se lo si sarebbe notato di più se avesse detto che cambiare la Fornero ci manderà in bancarotta o se avesse auspicato l'introduzione di un divieto di andare in pensione prima di 80 anni, ha sganciato la bomba, sentenziando che la riforma ci farà spendere 100 miliardi tondi tondi. Ma per ora l'unica certezza è che a costare di più sono state negli ultimi sei anni le modifiche introdotte dai governi di centrosinistra. Dal 2012 a oggi, per riparare agli errori della Fornero su esodati e altro, sono state introdotte otto salvaguardie e alcune leggine che rendessero l'uscita dal lavoro meno rigida. Il costo di tutto ciò, secondo l'ex ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, è stato di 20 miliardi.
Tuttavia, nei conti del presidente dell'Inps non tornano anche altre cose. Tra le prime che balzano all'occhio, il numero degli aspiranti pensionati, che secondo i calcoli di Boeri sarebbero di poco inferiori al mezzo milione. Una cifra campata per aria, prima perché non è detto che tutti i lavoratori che rientrano nella cosiddetta quota 100 (60 anni di età e 40 di contributi) abbiano la fregola di ritirarsi. E poi perché, da quel che si è capito, il governo ha intenzione di introdurre una serie di disincentivi. Con il divieto di cumulo e con eventuali penalizzazioni per chi, pur avendo più di 60 anni non abbia raggiunto i 40 anni di contributi, la cifra ipotizzata dal battagliero presidente potrebbe cambiare e dunque mutare pure le sue stime.
Non solo. I risparmi assicurati dalla Fornero non sono dovuti esclusivamente all'introduzione di un'età di pensionamento che ormai si avvicina alla soglia dei 70 anni, ma a una serie di altri fattori, tra i quali ricordiamo il blocco dell'indicizzazione previdenziale, l'aumento dei contributi a carico delle imprese e il passaggio definitivo al sistema contributivo. Modificando l'età pensionabile, tutto il resto rimane. L'indicizzazione, seppur ritenuta incostituzionale da una sentenza della Consulta, produce ancora i suoi effetti e così pure il sistema contributivo e l'aumento a carico delle imprese. Che si vada in pensione prima o dopo, questi risparmi dunque rimarranno. Tempo fa Franco Bechis, uno dei pochi colleghi che si leggono gli allegati degli atti parlamentari, calcolò che il risparmio derivante dal solo slittamento dell'età nel 2018 avrebbe portato alle casse dell'Inps 2 miliardi e poco più e non le cifra che viene raccontata. Dunque siamo molto distanti dai 100 miliardi denunciati da Boeri. Per arrivarci ci vorrebbero 20 anni e comunque non possono essere certo 2 miliardi l'anno, cioè un quinto di quanto speso da Matteo Renzi con gli 80 euro, a mandare a gambe all'aria l'Italia. Chiaro il concetto? Forse sarà il caso di chiarirne anche un altro. Ieri Boeri non ha parlato solo di quanto costerà la riforma della riforma, ma anche di taglio delle cosiddette pensioni d'oro. Come è noto la maggioranza gialloblù ha presentato un disegno di legge per ridurre tutti gli assegni previdenziali sopra i 4.500 euro netti al mese, a prescindere dai contributi versati. A noi questa sembra una misura che contraddice la promessa di tagliare il privilegio di chi non abbia pagato la pensione che incassa. Tuttavia per Boeri non è questo il punto. Secondo il presidente dell'Inps, il taglio non va bene perché colpisce poche persone, portando solo 150 milioni di gettito nelle casse dell'ente. Il piccolo principe dell'istituto, auspica in pratica una mannaia su tutti gli assegni sopra i 2.000 euro, in modo da regalare alla previdenza pubblica i soldi per aumentare la pensione a chi ce l'ha bassa non avendo versato nulla o quasi. Insomma, Tito non solo vuole costringere le persone a lavorare fino a 70 anni e più, ma vuole anche livellare le pensioni degli italiani, ovviamente verso il basso. Il suo è un piccolo esempio di socialismo reale. E lui si sente il piccolo padre delle pensioni, un tipo che non vuole la dittatura del proletariato, ma si accontenta di una dittatura sul pensionato.
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Ansa
Gli stessi organismi internazionali che difendono la Fornero e l'uscita a 67 anni concedono ritiri anticipati e maxi assegni ai propri dipendenti.
«L'Italia non smantelli le riforme già fatte a partire da quella delle pensioni voluta dal ministro Elsa Fornero»: questo era, in sintesi, il monito di alcuni giorni fa a noi riservato dall'economista dell'Ocse Laurence Boone. Non è una novità. Quella di lanciare moniti da parte di questi autorevoli organismi sovranazionali contro governi democraticamente eletti è un'abitudine duratura. Soprattutto quando l'oggetto del contendere sono le pensioni. Quelle degli italiani. Basta far scorrere indietro la macchina del tempo.
Ad esempio fermandosi allo scorso aprile, quando la Commissione Ue lamentava nel suo Rapporto Pensionistico 2018 come «nonostante l'elevata spesa pensionistica italiana, la sicurezza per le persone di età avanzata non è uniforme nel Paese e se il sistema pensionistico svolge efficacemente la funzione di mantenimento del reddito, la protezione contro la povertà è inadeguata». Veniva quasi da pensare che le riforme sopportate dagli italiani in tutti questi anni non fossero abbastanza.
Oppure andando a planare nel settembre 2014. Il Fondo monetario internazionale parlava come al solito di spending review. La sua fissazione istituzionale. È uno «strumento importante», ma ovviamente non basta perché «ulteriori risparmi saranno difficili senza affrontare l'elevata spesa per le pensioni». Ovviamente la «più alta nell'area euro (...) perché rappresenta il 30% del totale della spesa». Ma la madre di tutti i moniti - sempre a proposito di pensioni - è quello della Banca centrale europea. «Caro primo ministro», così iniziava la lettera strettamente riservata, che la Bce allora guidata dal francese Jean Claude Trichet inviava a Silvio Berlusconi. Era il 5 agosto 2011. Una missiva che riportava pure la firma di Mario Draghi, futuro governatore della Bce. L'Italia era al centro di una tempesta finanziaria perfetta che di lì a pochi mesi avrebbe visto schizzare i rendimenti dei titoli di Stato a dieci anni a oltre il 7%. Oggi siamo intorno al 2,9%. Era una «crisi di credibilità», dicevano gli esperti. Le allegre abitudini sessuali del nostro primo ministro, per non si sa bene quale imperscrutabile motivo, spingevano le banche estere a svendere i nostri Btp. Prezzi che scendevano a rotta di collo e rendimenti che di conseguenza esplodevano.
La Bce dettava le sue condizioni. Per l'Italia occorreva «con urgenza (...) rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità del bilancio e alle riforme strutturali». Immancabili queste ultime. Sono un po' come il nero che sfina e si abbina con tutto. Uno dei passaggi essenziali di questa lettera si soffermava ovviamente sulle pensioni. «È possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l'età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012».
Era l'input che tutti temevano, e in fondo si aspettavano. Il cuore della manovra del successivo premier Mario Monti si sarebbe infatti incardinata proprio sull'inasprimento nei criteri di accesso ai trattamenti pensionistici e sul vertiginoso aumento delle imposte sugli immobili (sulla casa in particolare). A cosa questo sia servito, la storia ce lo ha poi dimostrato. A luglio 2012, dieci mesi dopo la legge Fornero, il differenziale fra il rendimento dei nostri Btp a dieci anni e gli omologhi Bund tedeschi (il famigerato spread) era ancora superiore al 5%. Toccò quindi all'altro Mario intervenire. Quel Draghi che, succeduto a Trichet nella guida dell'Eurotower, pronunciò quelle ormai storiche parole: «Per garantire la salvezza dell'euro faremo tutto quanto sarà necessario. E credetemi: sarà abbastanza».
La Bce da quel momento in poi avrebbe quindi emesso tutta la moneta che sarebbe stata necessaria (essendo questa una sua prerogativa istituzionale) per acquistare titoli di Stato (fra cui i nostri Btp) facendo aumentare i prezzi e abbassare di conseguenza i rendimenti. Per l'esattezza 2.500 miliardi di euro, di cui oltre 300 miliardi di Btp. Lo spread scese, ma l'età pensionabile salì comunque, perché la riforma Fornero era stata approvata. In pensione a 67 anni e con il metodo contributivo.
Ma la riforma delle pensioni era veramente così urgente e soprattutto necessaria? Sul finire del 2011, ovvero poche settimane prima dell'attuazione della riforme «lacrime e sangue» del governo Monti (le prime della Fornero il secondo degli italiani), l'economista tedesco Bernd Raffelhüschen dell'università di Friburgo, docente ed esperto di evoluzione demografica nonché presidente della fondazione tedesca Stiftung Marktwirtschaft (Economia di mercato), elogiava l'Italia e bacchettava Berlino.
Lo studio della fondazione, pubblicato a fine 2011, stilava una dettagliata classifica della sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche dei 12 Stati fondatori dell'euro (esclusi dunque i cinque ultimi arrivati: Slovenia, Slovacchia, Estonia, Cipro e Malta). Il titolo del relativo comunicato stampa la diceva già lunga: Italia urrà, Lussemburgo puah. La classifica prendeva in considerazione non solo il debito che la fondazione chiamava «esplicito» (per intendersi il «classico» debito pubblico, oggi superiore al 130% del nostro Pil), ma anche il cosiddetto debito implicito. Ovvero il debito che lo Stato deve pagare per erogare le future prestazioni previdenziali, sanitarie e assistenziali secondo quanto previsto dalla legislazione vigente, nell'ipotesi che resti invariata in futuro. Basandosi sui dati del 2010, l'economista tedesco evidenziava già allora come il debito totale dell'Italia (esplicito più implicito) fosse il più sostenibile di tutta l'eurozona, essendo pari al 146% del Pil contro il 192,6% della Germania.
Ma di questa cosa nessuno si occupò in Italia ad eccezione del sito Linkiesta.it. La riforma Fornero fu infatti approvata e attuata in tutta fretta all'insegna del titolo a caratteri cubitali «Fate presto» con cui Il Sole 24 Ore allora invitava a sostituire il governo Berlusconi con quello di Mario Monti. E chi nel frattempo aveva negoziato un'uscita anticipata dal lavoro contando di andare in pensione a 62 e 63 anni si ritrovava nella per niente comoda posizione di non sapere come sbarcare il lunario per almeno cinque anni. I cosiddetti «esodati» su cui successivamente e progressivamente molti governi hanno cercato di mettere delle toppe. Tutti problemi che l'allora ministro Fornero non si pose, come del resto la stessa Bce.
E perché mai questi ultimi, così come i funzionari di Ocse, Fmi e Ue avrebbero infatti dovuto farsi troppe domande? I primi a darsi e a darci una risposta sono stati gli analisti di Scenarieconomici.it, che si sono presi la briga di spulciare cosa prevedono i contratti di lavoro di queste istituzioni a proposito di pensioni dei loro dipendenti. La Verità ha rielaborato e sintetizzato nei quattro box della pagina le risultanze delle inchieste in proposito, curate da Fabio Lugano e Luca Mussati.
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