2019-04-16
Sul terreno libico ci sono tre fazioni. E nessuna di esse ci dà garanzie
L'ipotesi di dividere in due il Paese, cara alla Lega, è ostacolata da Ahmed Maitig, ras di Misurata che gioca una partita a sé. E, oltre a qatarini e sauditi, dietro le quinte ci sono Parigi, Mosca e gli Usa.Chi sta con chi in Libia? È un rebus difficile da decifrare e risolvere, perché gli equilibri cambiano di settimana in settimana e perché ci sono attori spaccati in varie fazioni. A cominciare dall'Italia. Una fetta del governo, la compagine più leghista, vedrebbe di buon occhio un intervento pacificatore che magari separi in due l'ex nazione di Mohammar Gheddafi. L'opzione è una strada molto difficile da perseguire. Un'altra fetta di governo, tra cui il premier Giuseppe Conte, è decisamente più vicina al governo di Tripoli (Gna) e al rappresentante de facto di Misurata, Ahmed Maitig. Quest'ultimo è sostenuto ormai apertamente dal Qatar, il quale ha inviato ieri a Roma il proprio ministro degli Esteri, Mohamed Al Thani. Maitig è schierato con Fajez Al Serraj, a capo del governo di Tripoli, ma non può essere considerato un suo fedele sostenitore. I nostri servizi segreti e i nostri militari hanno la propria base a Misurata. Ufficialmente l'esercito tricolore è lì per proteggere l'ospedale da campo costruito dal nostro genio. Se facciano molto di più non è dato sapere. Che l'Italia assieme al Qatar sia diventata il principale sponsor di Maitig ormai è assodato. Non a caso il governo ieri, dopo gli incontri con i rappresentanti del Qatar, ha fatto sapere che in Libia bisogna arrivare al cessate il fuoco perché non ci sono solo due fazioni in ballo. Non c'è solo lo scontro Al Serraj-Haftar in atto, ci sono altri elementi da tenere in considerazione. Il riferimento è a Misurata che, da sola gioca, una sua partita. Secondo gli uomini della Cirenaica a Misurata ci sarebbero anche miliziani del Daesh sostenuti dal Qatar e odiati dalla compagine finanziata dai sauditi e sostenuta dagli egiziani del generale Abd Al Fattah Al Sisi. Il peso dei petroldollari di Riad è diventato ingombrante per la Russia (non a caso ieri Haftar si è detto deluso dei suoi incontri di Mosca), mentre Al Sisi interviene ma non vuole legarsi mani e piedi alla Cirenaica. D'altro canto il fronte europeo sembra allinearsi con la Germania, fatta salva la posizione della Francia che è schierata apertamente con Haftar. La cancelliera tedesca in una conversazione telefonica ieri con il presidente egiziano ha manifestato la sua preoccupazione per l'escalation militare in Libia e ha auspicato che si torni «il più velocemente possibile» ai negoziati e al processo politico sotto l'egida dell'Onu. Ma il cessate il fuoco è un obiettivo inverosimile. L'esercito di Bengasi ha fatto 2.000 chilometri e immaginare che si fermi a 15 chilometri dal centro di Tripoli non è nell'agenda. Si fermerà solo dopo aver preso gli uffici del governo di Al Serraj. Il medesimo caos si riflette sul terreno. Un caccia dell'esercito nazionale libico di Haftar, fornito dagli Emirati Arabi Uniti, è stato abbattuto dalla contraerea del governo di accordo nazionale di Tripoli, con un missile fornito dal Qatar: il complesso intreccio di alleanze che sta dietro alla battaglia. Fra tribù, milizie e interessi stranieri, lo scacchiere libico non è mai stato semplice. La Libia, estesa sei volte l'Italia e abitata da 6 milioni di persone, è tornata alle vecchie fratture e sotto il controllo di milizie e signori della guerra. A poco o nulla sono servite la Conferenza di Palermo del novembre scorso e il successivo summit di Dubai del 27 febbraio dove i due principali contendenti si erano promessi di lavorare per elezioni nazionali che potessero dare al Paese una guida legittima. Così non è stato e il risultato è che avendo promosso l'iniziativa ora l'Italia ne subisce il rinculo del fallimento. Il nostro Paese rischia di trovarsi dal lato sbagliato del cannone. Sia in termini geopolitici (se Haftar vince rischiamo di restare tagliati fuori), sia in termini letterali. A quanto risulta alla Verità, i francesi non avrebbero solo messo gli stivali sul terreno (una dozzina di consiglieri militari sono stati fermati al confine con la Tunisia) ma si sono allargati al cielo. I droni di Parigi svolazzano nei pressi di Tripoli e Misurata. I nostri soldati rischiano di incappare nelle attività militari sostenute da Emmanuel Macron. I droni non servirebbero, infatti, solo a scattare fotografie. Motivo per cui bisogna stare con il fiato sospeso almeno finché gli Stati Uniti non decidano di riaprire un desk operativo in Libia e ci diano una mano a districare la matassa e magari a chiarire le idee alla politica romana, oggi decisamente confusa.