2019-04-14
«Sul razzismo odiosa sociologia da salotto»
Simone Cristicchi, cantante, autore teatrale e attore: «Il protagonista del mio spettacolo vive in periferia, dove talvolta il disagio individuale si sposa con quello collettivo. C'è chi soffia sul fuoco della protesta, ma non si può liquidare il problema con facili etichette».L'uomo che non puntava a essere John Malkovich, bensì Biagio Antonacci - nella canzone che gli ha regalato popolarità voleva «cantare, pesare, firmare autografi alle fan e riempire i palasport» proprio come lui - ha centrato un obiettivo ben più appagante: è diventato sé stesso. Simone Cristicchi. Cantante, autore di testi teatrali, attore in proprio. Niente brani nel suo ultimo spettacolo, Manuale di volo per uomo (in questo momento alla Sala Umberto di Roma fino al 20 aprile), in cui l'artista romano, 42 anni, fornisce un'ulteriore prova della sua versatilità e della sua «crescita».Dalla canzone alla recitazione: com'è stato il cambio di passo faticoso?«Un'evoluzione progressiva. Questo è il mio sesto spettacolo, il primo di prosa. Dal teatro civile di narrazione a una prova d'attore verso cui ha spinto molto il regista Antonio Calenda. In realtà già nel mio penultimo spettacolo, Il secondo figlio di Dio, sulla straordinaria figura di Davide Lazzaretti, detto il Cristo dell'Amiata o anche il profeta dell'Arcidosso, c'era stato un processo di avvicinamento all'immedesimazione con un personaggio che fosse altro da me».Quali sono le istruzioni del Manuale di volo per uomo?«È una favola con al centro un quarantenne, Raffaello, che all'inizio è rozzo, rude, ma poi s'ingentilisce mentre ci fa entrare nel suo mondo che guarda con gli occhi e lo stupore di un bambino. Per alcuni è un “ritardato", per altri è un genio: in realtà ha una sensibilità fuori dal comune con cui mette a fuoco dettagli sotto gli occhi di tutti, ma che agli altri sfuggono. Partendo da uno spazio vuoto e bianco, progressivamente lo riempie di parole e di colori». Raffaello vive in periferia, dove talvolta il disagio individuale si sposa con quello collettivo. Con tanto di «rivolte» in alcuni quartieri romani alla notizia dell'arrivo dei rom.«Provo a rispondere non nascondendole che lo faccio non malvolentieri, ma a fatica. Sono facili le strumentalizzazioni in un senso o in un altro. È chiaro che nei casi più estremi c'è stato anche chi ha fomentato la rabbia e soffiato sul fuoco della protesta, penso a Torre Maura con quelle immagini del pane buttato a terra. Però mi lasci anche dire che mi sta sul cazzo, e scusi la volgarità, chi fa facile sociologia da certi salotti o dalle case nelle zone più «signorili» liquidando il problema con l'etichetta del razzismo».La sindrome Capalbio: ci si fa carico dei problemi del mondo, ma a parole. Se poi però tocca rimboccarsi le maniche, allora la risposta è «Nimby!», non nel cortile di casa mia.«Eppure la domanda bisognerebbe pur porsela: questo è l'effetto, ma la causa qual è? Non sarà anche perché queste persone sono incattivite in quanto si sentono tenute ai margini, non considerate, abbandonate a sé stesse? Ciò detto, dall'altra parte c'è una visione ottusa, perché non si può fermare questa ondata che parte dal Sud del mondo e che rivoluzionerà il perimetro e la stessa idea della nostra società. I miei figli hanno 11 e 7 anni, e nelle loro scuole il modello si sta già riconfigurando, vedo l'umanità del futuro. I bambini sono un bel pezzo più avanti di noi». Il Raffaello dello spettacolo è un soggetto problematico, lei ha vinto il Festival di Sanremo nel 2007 con Ti regalerò una rosa, lacerante e commovente ritratto dei «matti», a teatro ha portato Centro di igiene mentale (realtà che lei ha conosciuto come obiettore di coscienza prima e come volontario poi), in cui a parlare tramite suo erano proprio loro, gli internati per esempio nel manicomio di Volterra, il San Girolamo. Ha sempre avuto questa passione per le storie laterali, per temi che sono tabù. Quanto ha influito l'essere rimasto orfano in giovane età?«Sicuramente la vicenda della prematura morte di mio padre a 40 anni, quando io ne avevo 12, ha pesato. Chi non rimarrebbe segnato da una perdita così? Io mi rinchiusi in me stesso, cominciai a passare le giornate a disegnare, con la testa china sui fogli, in silenzio, fino a danneggiarmi la vista tanto da dovermi mettere gli occhiali. E visto che tutti mi assicuravano che mio padre era volato in cielo, mi misi in testa di realizzare un paio di ali per spiccare il volo, ispirandomi ai bozzetti delle macchine di Leonardo Da Vinci. Imparai perfino a scrivere come lui, nella forma bustrofedica, da destra a sinistra, come se le lettere fossero riflesse da uno specchio».Ce la fece a costruirlo, l'apparecchio?«Mi impegnai molto, andavo a camminare pericolosamente in bilico sui cornicioni per studiare le correnti d'aria ascensionali. Alla fine non ne feci nulla, il parapendio l'ho provato per la prima volta due anni fa, per i miei 40 anni».È vero che andò a bottega dal grande Jacovitti?«I suoi fumetti mi avevano suggestionato. Cercai il nome sull'elenco del telefono. C'era: Jacovitti Benito Franco. Lo chiamai e lui mi convocò. Gli portai i miei elaborati, lui li studiò e poi guardò me: “Belli, sembrano miei, ma proprio per questo: Simone in questi disegni dov'è?". Fu il primo stimolo a cercare la mia strada. Quando tornai con i nuovi bozzetti, più originali lui commentò: “Ora sì che si ragiona". Alla fine volevo fare una graphic novel da Il Bar sotto il mare di Stefano Benni, che andai a trovare mostrandogli perfino un po' di tavole che avevo realizzato. Poi però a 16 anni fui rimandato in matematica e fisica».E che c'entra?«Fui costretto a passare l'estate in città a studiare, e trovai una chitarra in soffitta: mi misi a strimpellare aiutato dal manuale Millenote, scoprii i cantautori italiani, anche se in quella fase mi appassionavano i Doors e la complessa figura di Jim Morrison, nonché il grunge dei Nirvana e Kurt Cobain».Non hanno fatto una bella fine entrambi, a ben guardare. Jim Morrison è citato nel brano-tormentone Vorrei cantare come Biagio Antonacci.«Tormentone involontario, per cui sono stato scambiato per suo fan, quando in realtà nasceva dalla frustrazione di non riuscire a emergere, nascondeva una grande amarezza, e voleva denunciare i meccanismi dell'industria discografica».Chissà com'è stato contento Antonacci.«Oh, ma lui ha sempre saputo tutto: fu avvertito, prestò il suo consenso, cofirmò il brano, e mi invitò a eseguirlo nei suoi concerti al Forum di Assago e al Palalottomatica di Roma». L'hit è del 2005, quanto è durata la gavetta?«Vinsi il festival di Lanciano, il cui premio era l'iscrizione alla Siae, del valore di un milione e mezzo, nel 1998. Vuole sapere cosa ho fatto in quei sette anni? Mi arrabattavo, vendevo i gelati e le bomboniere al cinema, Notting Hill lo conoscevo a memoria, e mi esibivo nei locali romani dove facevo anche 300-400 spettatori paganti. Per questo, anche se spesso mi dicevo: “Forse farei meglio a mollare", andavo avanti».Le sue canzoni hanno da sempre una forte impronta spiritualistica, ma le sue relazioni con la religione sono state a tratti turbolente. «Volevano consolarmi: “Tuo papà è in un altrove che è un mondo migliore". Abbandonai catechismo, e se l'adolescenza è l'età dell'insofferenza, io la portai all'ennesima potenza: un giorno esasperai così tanto l'insegnante di religione con le mie provocazioni che mi rifilò un ceffone davanti a tutta la classe. Ed era pure un francescano (ride)». Per questo scrisse Prete, diventata l'inno degli anticlericali, e che le è costato anche l'ostracismo del Vaticano?«Era un testo duro che oggi non riscriverei più così, ricorrerei piuttosto all'arma dell'ironia alla Giorgio Gaber o alla Rino Gaetano».Accusava i preti di curiosità morbose ("quante volte ti sei masturbato il pistolino?"), la Chiesa di opulenza, in difesa della «bugia più grande della storia», e i politici di servilismo nei suoi confronti.«Per fortuna poi ci siamo riappacificati. Oggi ci sono in piedi i contatti con papa Francesco per una sua intervista per il documentario Happy Next-Alla ricerca della felicità. Un mio amico monaco dice che sono un cristiano inconsapevole». È credente?«Credo nella spiritualità sperimentata, terrena, quella delle suore di clausura e dei monaci che ho avuto la fortuna di conoscere, lontani dal mondo non per fuga ma per ricerca, con una grande forza d'animo. L'incontro con le clarisse è stato molto emozionante, con una sono rimasto in contatto per via epistolare, quando le ho fatto sentire Abbi cura di me eseguita all'ultimo Festival mi ha detto: potrebbe essere una preghiera di Dio all'uomo, perché anche Dio ha le sue fragilità».Il suo rapporto attuale con l'Altissimo?«Ci stiamo studiando (ride di nuovo)».Da restauratore di memorie, con Magazzino 18, sulla tragedia delle foibe e dell'esodo giuliano-dalmata si è attirato le ire dei talebani del pensiero unico.«Prima sono stato insultato sui social, poi sono arrivati gli anarchici e gli anarchici dei centri sociali, perfino una parte dell'Anpi, l'Associazione dei partigiani in cui convivono molte anime, si è schierata con quella per cui tutti gli istriani sono fascisti. Ma ci furono anche i simpatizzanti di estrema destra che mi rimproveravano di essere stato troppo morbido. Fu il custode del magazzino, Piero Delbello - che ha una storia che è una sintesi perfetta di Trieste come terra di frontiera: lui profugo figlio di una famiglia in fuga dal regime comunista di Tito, è nato nella Risiera di San Sabba, unico campo di sterminio nazista in Italia - a esortarmi a raccontare quella storia: “Sei l'unico che può farlo, hai l'età giusta, sei libero da ogni zavorra ideologica"». Da che parte sta oggi Simone Cristicchi?«Sempre dalla parte di chi ha subito un torto sulla sua pelle, vittima di ingiustizia, violenza, emarginazione».