2021-05-30
Sul Lago Maggiore gli alberi sono più forti dei tifoni
Primavera spettacolare a Villa Taranto, dove qualche anno fa il maltempo devastò 300 piante. Ora il verde è tornato a regnare.Mancavo da alcuni anni dai giardini botanici di Villa Taranto. La prima volta che li visitai, una decade fa, era l'ultimo giorno di chiusura prima della ferma invernale. L'autunno aveva passato la sua coda e le piante erano per lo più spoglie, la pioggia era precipitata anche la notte avanti e i tronchi apparivano lucidi e mogi. Ottobre? I primi di novembre? Quel periodo dell'anno nel quale ti prepari mestamente all'arrivo del gelo, i cappotti, le sciarpe, lo scoppiettio dei ciocchi nelle stufe. Pochi visitatori, ombrelli, passi svelti, facce basse. Di quella visita ne raccontai in uno dei miei primi libri dendrosofici, Manuale del perfetto cercatore d'alberi (Feltrinelli). I ricordi, senza l'ausilio della memoria scritta, mi riportano ai tronchi delle due Stewartia, o camelie arboree, vicino ai giardini terrazzati che anticipano la villetta dove il proprietario, il capitano scozzese Neil Mc Eacharn, viveva negli anni Trenta, finché dovette fuggire, allo scoppio della guerra. Ricordo anche le colonne verticali di alcune conifere nordamericane, la quercia rossa (Quercus rubra) che di lì a poco sarebbe scomparsa, i faggi, il groviglio orizzontale dei rami di un albero messo a dimora negli anni Trenta dall'infante di Spagna Don Jaime, un albero dei fazzoletti (Davidia involucrata) che al tempo però era solo legni e fughe orizzontali. Le due volte successive lo ritrovai adorno, i fazzoletti cuciti per me, appositamente, da Madre Natura, questi curiosi lenzuolini bianchi appesi a centinaia, fra i rami. Diversi alberi qui presenti fanno bella mostra di se, ma questo è un albero indimenticabile. Poi ci furono gli anni del lento recupero dopo lo shock di una tempesta che li aveva travolti, abbattendo 300 alberi, ricordo ancora lo spavento che aveva capovolto le radici del mondo nei giardini delle residenze che costellano le terre di Verbania e le cittadine circostanti, il calore che si concentra sopra i cieli del Lago Maggiore fra luglio e agosto ciclicamente si scatenano in venti rapidi e piogge intense, sfogandosi sugli ignari alberi. Le isole al centro del lago conoscono la dura legge di questi fenomeni. E ogni tanto anche la costa. Quando caddero tutti quegli alberi i primi articoli della carta stampata parlavano addirittura di un catastrofico annientamento dei giardini, poi, fortunatamente, la rincorsa al sensazionalismo giornalistico ha lasciato spazio ad un triste funerale per soli, si fa per dire, 300 alberi, dei quali alcuni storici, ma che ora, anni dopo, ritrovo in segni oramai labili. Infatti, in questo dolce finale di maggio, vi faccio ritorno transitando dalla Svizzera. Mi impongo di fermarmi per godere della pace che vi regna, le fioriture, le colorazioni dei nuovi fogliami, così vividi a fine primavera, e rivedere certi alberi che sono alfine come compagni di un viaggio nel tempo che ogni tanto si torna a visitare.A questo giro gli alberi che mi restano più impressi sono due Styrax japonicus o Bilanciere giapponese - non è forse un nome invitante? - in fiore, un manto aereo di piccole bocche pigmentate di bianco che richiamano sciami di insetti ronzanti, come talora fanno le prime fioriture di albicocco, di prugno, di ciliegio, o in contemporanea, di questi tempi, le odorosissime fioriture di tiglio nei corsi dei viali di tante città. E poi, un rododendro arboreo dai grossi fiori biancheggianti, che proietta a terra quel che resta di fiori composti da calici foliari che quasi si ha timore a guardare, per non sgualcirli. Le bulbacee si mostrano nei giardini perfettamente accuditi e curati. I lavori fremono, l'estate è alle porte e le riaperture post covid promettono tante visite.Rivedo alcuni grandi alberi che nel frattempo mi sembrano ancora più grandi. Lungo il viale d'ingresso, il viale delle conifere, mi accolgono le chiome ombrose di un Pinus radiata, il pino di Monterey in California, che tanto avevo ammirato oltreoceano, e poi la folta la chioma della metasequoia cinese (Metasequoia glyptostroboides), qui in uno degli esemplari più belli e rigogliosi presenti nei giardini italiani. Come si impara a ripetere a memoria questa pianta appartiene alla curiosa categoria, secondo le nostre manie umane, dei «fossili viventi», ovvero piante che credevamo estinte da quei milioni di anni, in questo caso soltanto 200, e invece resistevano in qualche vallata remota, come queste metasequoie ritrovate nel 1941 nella Cina montagnosa delle province dell'Hubei (o Hupeh) e dello Hunan, e poi disperse nei giardini accademici e botanici di mezzo mondo. Sempre incantevole il filare di falsi cipressi accanto ad una scalinata e di fronte ai giardini fioriti, la ricca collezione di aceri che ogni volta ricomincio a studiare daccapo, dimenticandone la varietà da una visita all'altra. Nella serra la vasca ospita piccole forme vegetali arrotondate sospese sull'acqua della vasca. Prima della fine dell'estate saranno ingigantite e mostreranno l'aggressività della specie di cui sono esponenti, la Victoria cruziana, e i candidi fiori bianchi, carnosi, che ora sono meno di una idea ma che ritrovo nelle foto scattate qui in altri anni; queste piante acquatiche vengono cresciute qui dal 1956. Ritrovo le cortecce maculate degli eucalipti, le foglie curiose di tante piante giapponesi e asiatiche, e il grande castagno che questa volta mi appare così piccolo, forse perché è fresca la visita ai giganti di Grisolia, che ho ammirato pochi giorni prima in Calabria, i tre grandi castagni di cui il maggiore presenta un tronco di appena appena 13 metri di circonferenza. Cosa sarà mai questa mano capovolta che vedo ora, con quel bizzarro cartello che informa il visitatore della sua messa a dimora intorno all'anno del Signore 1600, che mi ha sempre suscitato dei sospetti ed ora anche qualcosa in più? Lo ricordavo anche più alto, le sue fronde capitozzate sono così corte. Ma sì, qualcosa gli è capitato, le sue mani sono state accorciate.Rivedo le cortecce maculate e lisce delle due camelie arboree, e poi indago fra i rampicanti del lungo pergolato, perché ricordavo la presenza di glicini cinesi e giapponesi, dalle infiorescenze a grappolo color pervinca e bianchi, ma vi trovo anche altre piante inattese, come due actinidie, al secolo kiwi, coi loro fiorellini gialli. Rivedo il grande acero arboreo, la base della quercia rossa che ora getta polloni dalla base, su questo prato si vedevano i faggi rovesciati, sterrati, ora è un altro pezzo di paradiso. Di fronte c'è un liriodendro. E poi, proseguendo, le colonne verde scuro del Picea orientalis, fra le cui fronde ogni volta mi piace spiare la morfologia del grande fusto che si pianta con immane forza e prepotenza nella terra. Questo è uno degli alberi più alti dei giardini. Uno splendido cedro credo himalaiano, e si ritorna sul viale d'ingresso. Punto finale, questa volta, è la grande quercia frondosissima che vigila il parcheggio d'ingresso, un Quercus coccinea, o quercia scarlatta, piantata nel 1938. Ad osservarne lo sviluppo, la circonferenza del tronco sfiora i 4 metri e mezzo e la vastità delle ramificazioni, si penserebbe ad una età ben maggiorata, ennesimo esempio dei tiri mancini che la natura anche coltivata sa prendersi sulla nostra ondeggiante immaginazione.