2021-06-05
«Sul caso Saman dove sono le femministe?»
Parla la docente somala (e musulmana) Maryan Ismail: «Questo è un femminicidio e nessuno ha il coraggio di dirlo. Quando andammo a Brescia per Hina non c'erano attiviste, solo la Santanchè e la Dell'Olio. La fatwa dell'Ucoii suona come opportunistica».Non è il primo caso, ma l'ennesimo di una lunga serie. Dai tempi del caso di Hina Saleem mi pare che non sia stato fatto nulla a livello di interventi strutturali nelle comunità che hanno problemi culturali di questo genere. Anche se le ragazzine chiedono aiuto, pare che non si riesca a risolvere la loro situazione». Che si dovrebbe fare per aiutare queste ragazze?«Credo che alla luce di questo caso e di tanti altri analoghi si debba cercare di lavorare non soltanto con le comunità, ma anche con i Paesi di provenienza, in modo da tenere sotto controllo certe situazioni». Le leggi italiane aiutano? «Il codice rosso, ad esempio, dà la possibilità di intervenire sui casi di matrimoni forzati. Perché questo sono, matrimoni forzati, non semplicemente combinati». Che differenza c'è?«Qui parliamo di una vera piaga sociale, di un annientamento psicologico e fisico doloroso, che affonda le radici in quello che in arabo si chiama Jarimat al Sharaf, delitto d'onore. Queste ragazze sono forzate, costrette a sposare uomini scelti dalla famiglia. Anche quando si innamorano di ragazzini che fanno parte della stessa comunità, quella pakistana. Se il ragazzino, pure pakistano, non viene approvato dalla famiglia, le ragazze vanno incontro a problemi molto grossi. Che talvolta possono sfociare in atti terribili». Le guide religiose possono aiutare a combattere tutto ciò? «Vede, il problema qui non è religioso: è culturale. È pericoloso rendere religioso ciò che religioso non è». Si spieghi meglio. «Faccio un esempio: in Senegal i matrimoni combinati non ci sono, eppure i senegalesi sono comunque musulmani. Il problema dei matrimoni precoci forzati riguarda in particolare alcune comunità, è un problema culturale e come tale va affrontato». L'Ucoii ha emesso una fatwa contro i matrimoni forzati e le mutilazioni genitali. Come valuta questo gesto? «Non credo che la fatwa sia utile. Non lo è perché abbiamo già tutti gli strumenti legali per superare il problema. Se poi tale fatwa viene dichiarata dall'Ucoii, suona come una conveniente e opportunistica corsa a farsi accettare come moderati e portatori di diritti universali. Sappiamo tutti che l'Ucoii afferisce alla fratellanza musulmana, come ben ci ha ricordato il professor Redouane, segretario generale della grande moschea di Roma. Non mi pare aver letto smentite in merito». Resta che l'Ucoii ha condannato i matrimoni forzati e le mutilazioni genitali…«L'Ucoii non mi pare si sia espressa contro altri femminicidi di ragazze musulmane. Non abbiamo avuto alcun loro sostegno al processo contro Mohamed, padre di Hina Saleem, o contro El Ketawi, padre di Sanaa Dafani. Nessun contributo riguardo all'atroce morte di Sana Cheema di Brescia, avvenuta in Pakistan. Non una parola a sostegno di Jamila di Brescia costretta ad abortire dai genitori perché aspettava un figlio dal suo compagno pachistano, non scelto dalla famiglia. E neppure per la ragazzina egiziana di Torino che tentò il suicidio per scampare al matrimonio forzato con un suo lontano cugino. Silenzio anche per il caso della ragazzina pachistana di Bologna rasata a zero dai familiari, perché non voleva indossare il hijab. Per non parlare poi della madre di Sheen Butt, uccisa perché voleva difendere la figlia perché disonorava il nome della famiglia paterna».Faccio l'avvocato del diavolo. Spesso si dice: le associazioni musulmane non danno mai segnali… Qui lo hanno dato. Non è positivo? «Certo, il segnale di condanna ci sta. Ma la fatwa è una condanna religiosa. L'aspetto religioso può sollecitare le coscienze, fare da supporto, va bene. Ma stiamo attenti. Quella fatwa allarga il problema anche alle mutilazioni genitali. Sapete che vuole dire?».Che cosa?«Che tutto ciò che riguarda il corpo della donna rientra nel campo religioso. Invece qui abbiamo cittadine che sono tutelate da leggi dello Stato. Sono quelle le leggi da rispettare. C'è poi un altro problema». Dica.«In questo modo l'Ucoii cerca di accreditarsi come unica voce dei musulmani in Italia, ma questo non corrisponde al vero. Non tutti i pakistani sono sunniti, tanto per cominciare. Ci sono anche gli sciiti. È come se l'Ucoii pretendesse che tutti i pakistani debbano sottomettersi alla sua fatwa: così si crea ancora più confusione. Il punto è che qui si parla di ragazze che vengono considerate una proprietà della famiglia, che siano sciite o sunnite. Questi casi riguardano un universo culturale molto preciso. Ed è lì che bisogna intervenire. Se poi l'Ucoii volesse confrontarsi pubblicamente con tutte le componenti islamiche presenti sul territorio italiano, beh, quello sarebbe positivo. Ma per ora si sta solo prendendo un ruolo predominante sulla scena, non rispettoso delle altre minoranze islamiche». Qui il problema non riguarda però solo l'Ucoii. Anche le femministe mi pare che non si siano fatte molto sentire. «Perché entra in gioco il relativismo culturale. Ho letto un post molto bello di Ritanna Armeni che fa un mea culpa rispetto al silenzio delle femministe su casi simili a quello di Saman. Quando noi donne musulmane andammo a Brescia per Hina, non c'erano femministe. C'erano solo Daniela Santanchè e Anselma Dell'Olio. Eravamo sole contro gli imam e la comunità pakistana». Quindi le femministe tacciono per timore di offendere la minoranza musulmana?«Il discorso è più o meno questo: visto che non posso toccare la loro cultura, allora mi astengo. Noi da anni ci chiediamo dove siano i movimenti femministi. Se dessero un segnale concreto aiuterebbero molto il nostro lavoro. Le femministe sono assenti quando le donne iraniane protestano contro l'imposizione del velo, invece sono presentissime a sostegno delle battaglie di altre donne musulmane per il diritto di portare il velo». Da tempo lei conduce questa battaglia contro l'imposizione del velo. E lo fa da musulmana. «Sì, ma io e altre per questo veniamo escluse. Ci trattano come se non fossimo musulmane, è una sorta di islamofobia al contrario. È come se fossero “vere musulmane" solo quelle che sostengono l'obbligo di portare il velo. Ma non esiste un precetto islamico che obblighi a portarlo, non ci sono posizioni definitive delle varie scuole su questo». Torniamo a Saman. Sembra che la sua vicenda non rientri nelle storie di femminicidio a cui di solito si dà tanto spazio. «Quello di Saman è un femminicidio. E nessuno ha il coraggio di dirlo. Sembra che la posizione di debolezza delle donne musulmane non abbia la stessa cittadinanza riservata ad altre. In questo caso è vietato parlare di femminicidio, di diritti mancati, di diseguaglianze e di discriminazione. È come se volessero tenerci tutte in un angolo, come se fosse rassicurante per mantenere la polarizzazione politica e ideologica. E invece queste sono battaglie che vanno combattute, e dovremmo farlo insieme».
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)