2018-04-16
Sono laico convinto e pro eutanasia ma dico: su Alfie fate decidere i genitori
La scelta personale deve sempre prevalere su quella dello Stato. Imporre a tutti un orientamento morale lede i diritti individuali.La vicenda del piccolo Alfie Evans è lancinante per tutti. Lo è per chi ha un orientamento religioso. Lo è per chi, come me, è un laico, un liberale, un difensore della libertà individuale in ogni campo, e anche un sostenitore dell'eutanasia (per chi la scelga autonomamente, com'è ovvio).A maggior ragione, a mio avviso, in questo caso non si possono avere esitazioni, e occorre stare dalla parte dei due genitori e della loro strenua battaglia affinché non sia negata al piccolo un'ulteriore possibilità. Se il papà e la mamma vogliono ancora tentare qualcosa, perché impedirlo?Non si tratta, a mio modo di vedere, di schierarsi a prescindere, e meno che mai di rinfocolare polemiche spesso superficiali e inadeguate. Si tratta invece di scegliere un criterio, un orientamento, un metodo. Per me, e il discorso vale sia in economia, sia in materia di libertà personali, è centrale la questione dell'allargamento della sfera della decisione individuale e privata rispetto alla sfera della decisione pubblica e collettiva.Insomma, la domanda è: deve decidere la persona (in questo caso, trattandosi di un bimbo, i suoi genitori) o deve decidere lo Stato?Io, su tutto, milito nel primo campo. Credo che debba essere difesa, e semmai estesa, l'area della decisione personale, non quella dello stato. Sempre. E credo (da John Locke a John Stuart Mill a Alexis de Tocqueville c'è qualche secolo di elaborazione su questo punto) che lo Stato debba riconoscere gli orientamenti personali, le libertà che preesistono, e non pensare (come in uno Stato etico) di scegliere un orientamento morale e imporlo agli altri.È esattamente la ragione per cui sono favorevole – per me stesso, se vorrò un giorno avvalermi di quell'opportunità – della possibilità di scegliere l'eutanasia, di decidere su di me. È anche la ragione per cui – con la stessa forza – difendo il diritto di chi la pensa diversamente a compiere una scelta di segno opposto. L'essenziale è che nessuno imponga a un altro una scelta che il destinatario non condivide.Su questi presupposti, la battaglia del papà e della mamma di Alfie va sostenuta incondizionatamente. E – su un piano anche culturale – questa dolorosa vicenda può forse aiutarci a fare un passo avanti, a uscire dagli schemi precostituiti, dagli schieramenti più scontati, da uno scontro tra laici e credenti che di per sé non ha senso, se tutti sono disposti a rispettare gli altri.Usciamo da un ventesimo secolo in cui la parola «individuo» era quasi impronunciabile, specie in Europa, a beneficio di parole e concetti (minacciosamente scritti in maiuscolo: Stato, Chiesa, partito, sindacato) riferiti a entità pubbliche o collettive, a cui la cultura dominante attribuiva sistematicamente l'ultima parola. Ora è venuto il momento di imporre un diverso «bipolarismo», che metta in discussione e sparigli le carte: tra chi vuole far decidere di più le persone, e chi vuole far decidere di più lo Stato. Qui sta il punto, lo ribadisco ancora.Naturalmente, e qui sta la parte più complicata, in futuro tutti dovrebbero essere disposti a fare un passo in avanti, a cambiare metodo. Da un lato, molti credenti, spesso orientati a non voler consentire ad altri un'effettiva libertà di scelta, preferendo una legge che vieti, impedisca, punisca. Dall'altro, molti laici che inseguono nuove leggi e la codificazione di diritti, quando forse la strada più sicura sarebbe quella di legiferare meno.Per tornare al bipolarismo che abbozzavo prima, la differenza è tra chi vuole una legge in meno e chi ne vuole una in più. Personalmente, ritengo sempre più desiderabile la prima opzione. Da anni, un intellettuale coraggioso come Alain Finkielkraut ci spiega che una società libera non è un «accumulo di diritti» (diritto a questo, diritto a quello...). Questa impostazione ha già avuto un peso, a mio avviso negativo, su una parte della nostra Costituzione (diritto alla casa, diritto al lavoro, e così via: solennemente proclamati, e ovviamente irrealizzabili, in quei termini). Ora l'errore più grave sarebbe quello di trasferire questo metodo anche in altri ambiti, quando invece il tema non sarebbe quello di chiedere un diritto codificato in più, ma una facoltà in più, o un divieto in meno, o un intervento pubblico in meno.In questo senso, la strada maestra sarebbe proprio quella del common law anglosassone rispetto al civil law continentale: non una norma generale ed astratta, ma la capacità dell'ordinamento giuridico di curvarsi sul caso singolo. Anche perché la legge scritta, nella sua fissità, non riesce mai a prevedere e incasellare l'infinita molteplicità dei casi della vita reale.Purtroppo, nessun metodo è infallibile. Anche il common law può deludere, come nel caso di Alfie. In questo caso, infatti, è proprio un giudice ad aver detto no. Una ragione di più per insistere sul punto di fondo: si dia l'ultima parola alle persone, non allo Stato, non a un decisore pubblico.
Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)
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