Riesumare gli allarmi serve a spingere i vaccini (dopo milioni di dosi sprecate). Anche a colpi di autocensura.
Riesumare gli allarmi serve a spingere i vaccini (dopo milioni di dosi sprecate). Anche a colpi di autocensura.Sui media è risorto il Covid. Ma a cosa serve davvero riesumare il cadavere dell’emergenza? A mettere sul piatto un altro argomento contro Giorgia Meloni, certo: al primo ricovero di troppo, al primo ospedale un po’ in affanno, al primo picco di contagi, si potrà accusare il governo di non aver «fatto abbastanza». Dopodiché, si ha pure un’altra impressione, a leggere la doppietta sulla Stampa di ieri - bollettino allarmistico e indignata denuncia sullo spreco delle dosi: che la comunicazione ansiogena sia funzionale a promuovere l’ennesimo round di punture. Giusto per evitare che anche i farmaci anti Omicron restino a marcire nei frigo delle Regioni, o nell’hub di Pratica di Mare. Dove, tra giugno e agosto, sono scaduti oltre 16 milioni di dosi.Sommando le scorte accatastate nei magazzini dell’Aeronautica a quelle distribuite sul territorio, si arriva a cifre astronomiche: in totale, ricorda il quotidiano torinese, uno spreco di 102 milioni di dosi, per quasi 2 miliardi di euro buttati. Così La Stampa, alla buonora, scopre che quello degli acquisiti centralizzati da parte dell’Unione europea non è stato un grandissimo affare. E che, non soddisfatti dello sperpero, adesso siamo pronti a ricevere altri 9 milioni e 173.000 shot di un preparato che si fa presto a definire aggiornato, visto che è calibrato sulla variante Kraken, già soppiantata da Eris e Pirola. Si tratta di una vera e propria «tassa vaccinale che si fa fatica a comprendere», scrive il giornale. Forse, scoprire i dettagli del negoziato condotto via smartphone da Ursula von der Leyen e il ceo di Pfizer, Albert Bourla, potrebbe contribuire a svelare l’arcano. Ma non ci vuole un’approfondita investigazione per nutrire qualche dubbio sugli obiettivi della rediviva campagna terroristica, portata avanti da giornalisti ed esperti. I quali, durante la pandemia e, a quanto pare, pure dopo, si sono comportati da piazzisti di Big pharma, più che da analisti indipendenti. Dite che esageriamo? Allora guardate l’ultimo episodio, che ha per protagonista il dottor Fernando Lunedi, referente di un ambulatorio di Veroli (Frosinone) dedicato al trattamento dei pazienti affetti da long Covid. Qualche giorno fa, il medico si è fatto intervistare dalla Tgr Lazio, su Rai 3. E lì, in diretta, si è lasciato scappare alcune dichiarazioni clamorose: «Dobbiamo dire che il long Covid in un paziente vaccinato sicuramente ha una pertinenza maggiore». Ovvero? Il vaccino è un fattore scatenante? «No», ma «può essere uno strumento che complica sicuramente l’infezione dal long Covid». Nella testata regionale Rai si sarà scatenato il panico. E il video del colloquio è sparito dal sito Web. Come se, in una democrazia liberale, la televisione pubblica debba limitarsi a rilanciare dei dogmi, anziché ospitare opinioni fondate. Almeno, per dar conto dell’evoluzione degli studi sul Sars-Cov-2. Ci risiamo: non si può permettere che trapeli alcun elemento in grado di intaccare la narrazione salvifica sui vaccini. Il sistema dell’informazione sembra aver archiviato i principi del giornalismo; quello scientifico, il metodo; entrambi agiscono quasi dovessero rispondere a logiche di marketing. L’imperativo dei produttori è comprensibile: si deve collocare un prodotto sul mercato. L’inghippo non sta nella fame di profitto delle case farmaceutiche, quanto nella collaborazione che assicurano comunicatori e tecnici, terrorizzati dall’idea di scalfire il Verbo. Naturalmente, l’autocensura Rai non ha impedito allo spezzone di galoppare sui social. Anzi, come spesso accade in circostanze simili, proprio l’ansia di oscurare tutto potrebbe averne favorito la circolazione. Una sorta di mini caso Vannacci. Nel frattempo, il dottor Lunedi ha sentito il bisogno di correre ai ripari. Ha sottolineato di essersi «convintamente vaccinato», ha ribadito che il vaccino è stato «determinante nel contrasto al Covid» e, infine, ha provato a sostenere che «il vaccino non peggiora in alcun modo il long Covid». Il punto è che la maggior parte degli italiani ha ricevuto le punture e, dunque, «va da sé che i pazienti afferiti al centro long Covid fossero in larghissima parte vaccinati». Già. Peccato che i luminari ci avessero raccomandato di porgere il braccio a ripetizione, proprio per metterci al riparo dai postumi della malattia. Quanto ai soggetti nei quali l’inoculazione «ha determinato un andamento più subdolo e cronicizzante della sindrome», Lunedi ha tagliato corto: «Sono casi largamente minoritari». Ah: su Rai 3 non aveva usato l’avverbio «sicuramente»? «Sicuramente» il vaccino complica il long Covid? L’autodafé rievoca l’arte della «dissimulazione onesta» nella prima età moderna, allorché, per schivare l’Inquisizione, i filosofi atei riempivano le loro opere «empie» di professioni di fede. La differenza è che, all’epoca, non c’erano scorte di medicine da smaltire. Alla fine, il dilemma è questo qua: oggi, quando ci rivolgiamo agli esperti, chi stiamo ascoltando? Giornalisti e scienziati, oppure agenti di commercio di Pfizer?
Andy Mann for Stefano Ricci
Così la famiglia Ricci difende le proprie creazioni della linea Sr Explorer, presentata al Teatro Niccolini insieme alla collezione Autunno-Inverno 2026/2027, concepita in Patagonia. «Più preserveremo le nostre radici, meglio costruiremo un futuro luminoso».
Il viaggio come identità, la natura come maestra, Firenze come luogo d’origine e di ritorno. È attorno a queste coordinate che si sviluppa il nuovo capitolo di Sr Explorer, il progetto firmato da Stefano Ricci. Questa volta, l’ottava, è stato presentato al Teatro Niccolini insieme alla collezione Autunno-Inverno 2026/2027, nata tra la Patagonia e la Terra del Fuoco, terre estreme che hanno guidato una riflessione sull’uomo, sulla natura e sul suo fragile equilibrio. «Guardo al futuro e vedo nuovi orizzonti da esplorare, nuovi territori e un grande desiderio di vivere circondato dalla bellezza», afferma Ricci, introducendo il progetto. «Oggi non vi parlo nel mio ruolo di designer, ma con lo spirito di un esploratore. Come un grande viaggiatore che ha raggiunto luoghi remoti del Pianeta, semplicemente perché i miei obiettivi iniziavano dove altri vedevano dei limiti».
Aimo Moroni e Massimiliano Alajmo
Ultima puntata sulla vita del grande chef, toscano di nascita ma milanese d’adozione. Frequentando i mercati generali impara a distinguere a occhio e tatto gli ingredienti di qualità. E trova l’amore con una partita a carte.
Riprendiamo con la seconda e conclusiva puntata sulla vita di Aimo Moroni. Cesare era un cuoco di origine napoletana che aveva vissuto per alcuni anni all’estero. Si era presentato alla cucina del Carminati con una valigia che, all’interno, aveva ben allineati i ferri del mestiere, coltelli e lame.
Davanti agli occhi curiosi dei due ragazzini l’esordio senza discussioni: «Guai a voi se me li toccate». In realtà una ruvidezza solo di apparenza, in breve capì che Aimo e Gialindo avevano solo il desiderio di apprendere da lui la professione con cui volevano realizzare i propri sogni. Casa sua divenne il laboratorio dove insegnò loro i piccoli segreti di una vita, mettendoli poi alla prova nel realizzare i piatti con la promozione o bocciatura conseguente.
Alessandra Coppola ripercorre la scia di sangue della banda neonazi Ludwig: fanatismo, esoterismo, violenza e una rete oscura che il suo libro Il fuoco nero porta finalmente alla luce.
La premier nipponica vara una manovra da 135 miliardi di dollari Rendimenti sui bond al top da 20 anni: rischio calo della liquidità.
Big in Japan, cantavano gli Alphaville nel 1984. Anni ruggenti per l’ex impero del Sol Levante. Il boom economico nipponico aveva conquistato il mondo con le sue esportazioni e la sua tecnologia. I giapponesi, sconfitti dall’atomica americana, si erano presi la rivincita ed erano arrivati a comprare i grattacieli di Manhattan. Nel 1990 ci fu il top dell’indice Nikkei: da lì in poi è iniziata la «Tokyo decadence». La globalizzazione stava favorendo la Cina, per cui la nuova arma giapponese non era più l’industria ma la finanza. Basso costo del denaro e tanto debito, con una banca centrale sovranista e amica dei governi, hanno spinto i samurai e non solo a comprarsi il mondo.





